Come muore la gente
Così funziona, in Svizzera, il suicidio assistito. Da “Una Città”, mensile di Forlì
Credo opportuno premettere che si parla di eutanasia quando è il paziente a chiedere di morire, ma è il medico o l’infermiere a iniettare la sostanza che lo condurrà al decesso; nel suicidio assistito è invece il paziente che assume da solo la sostanza letale, o bevendola o aprendo la flebo.
L’articolo 114 del Codice Penale svizzero afferma che chi, per motivi non egoistici, aiuta qualcuno a suicidarsi, non è punibile. L’avvocato Ludwig Minelli, fondatore dell’associazione “Dignitas”, è partito da questo articolo per dar vita al movimento delle associazioni per il diritto a morire. Oggi sostanzialmente esistono “Dignitas”, “Exit International”, “Pegasos” e “Lifecircle”, che accolgono anche le richieste di persone non residenti, e poi “Exit Ticino” e la sua consorella nella Svizzera francese, l’”Association pour le Droit de Mourir dans la Dignité” (Admd), che invece accettano solo i residenti.
Il medico deve certificare due cose relative al richiedente: che è capace di intendere e di volere e che ha una sofferenza intollerabile: qualunque genere di sofferenza, fisica o anche psicologica.
Va poi garantito che al paziente siano state spiegate le possibilità di cura, se ci sono, che le abbia accettate e provate senza successo o che si sia rifiutato di provarle. Il medico deve incontrarlo due volte e assicurarsi che non ci sia nessuno che lo spinga a prendere la decisione e che sia stato debitamente informato.
A quel punto il paziente deve recarsi da un secondo medico per avere la prescrizione della sostanza. In genere il medico che redige il certificato non è lo stesso che farà la prescrizione, cioè venti grammi di pentobarbital sodico, che vengono consegnati al paziente, oppure si passa attraverso l'associazione, che ha una sua farmacia che procura il farmaco e lo conserva finché il paziente non decide la data.
Il giorno scelto, il farmaco viene sciolto nell’acqua e il paziente lo beve, oppure viene somministrato tramite una flebo che sarà aperta dal paziente stesso. Se non fosse così, diverrebbe eutanasia e questa in Svizzera è perseguibile come omicidio.
Ciò significa che se un paziente (a me è capitato) dopo aver bevuto vomita e rimane incosciente, tu non puoi fare nulla perché se no diventi colpevole di omicidio. Ma è una complicanza rarissima.
Una volta avvenuto il decesso, il medico deve redigere un certificato di morte non naturale. Dopodiché la polizia svolge un’indagine e se trova le carte in ordine, libera il caso e il corpo. A volte sono state eseguite delle autopsie; è il procuratore che decide cosa fare.
Se il decesso avviene all’interno dell’ospedale, i medici e gli infermieri non possono partecipare al suicidio, quindi anche se il paziente ti chiede di rimanere nella camera, l’ospedale lo vieta. Lo puoi fare in veste di cittadino, quindi ti togli il camice ed entri, ma non puoi partecipare e non puoi prescrivere il farmaco. Si occupa di tutto la Right to Die Association che il paziente ha scelto.
Aspiranti suicidi
Questi pazienti sono persone caratterizzate da un loro modo di pensare alla vita, e alla propria dignità, molto legato all’autonomia fisica e psicologica, quindi non vogliono che altri ne prendano il controllo. Di solito già da sani hanno pensato di poter fare questa scelta in caso di bisogno, pertanto, quando si ammalano, coerentemente perseguono questa strada.
Personalmente non ho mai incontrato medici che dichiarassero di essere obiettori in modo aperto; di solito evitano di parlarne col paziente, il quale capisce e va a cercare un altro medico. Quando il paziente ha il sospetto che il medico sia contrario, non ne parla con lui, perché teme di essere poi fermato. È infatti sufficiente che un medico scriva nel certificato che il paziente è depresso per complicare le cose.
Una delle peculiarità del modello svizzero è il ruolo delle associazioni e una sorta di passo indietro da parte dei medici. Negli altri paesi l’eutanasia e il suicidio assistito sono - diciamo così - in mano ai medici. In Svizzera invece, praticamente unico paese al mondo, il medico fa il certificato, prescrive la sostanza, ma poi non se ne occupa più. Questo ha dei pro e dei contro. Certo, il fatto che esistano queste associazioni che fanno il “lavoro sporco” fa sì che i medici svizzeri esitino a riappropriarsi di questa materia. In Canada, al contrario, si parla di “medical aid in dying”, cioè di aiuto medico al decesso. Comunque in Svizzera ci sono otto milioni di abitanti e di questi il 26% è iscritto a una “Right to Die association”. Nessun partito politico conta un tale numero di aderenti. Quindi c’è un movimento sociale consolidato: non tutti gli iscritti praticheranno un suicidio assistito, ma tutti quelli che aderiscono ritengono che sia giusto poter scegliere.
Il percorso
Si stabilisce una data: alcuni pazienti scelgono di avere delle settimane di tempo per salutare amici e parenti, per organizzare cene di addio, libretti, filmati, lettere. Altri non fanno proprio niente. Ognuno organizza la propria morte come può e come desidera. Il giorno concordato arriva l’organizzazione scelta e ripropone tutte le domande; esiste una precisa procedura per assicurarsi che la persona abbia compreso tutto e sia ancora convinta. Dopodiché viene montata la flebo o preparata la bevanda.
La famiglia a volte è tutta presente, a volte ci sono solo alcuni membri, a volte non c’è nessuno. Poi viene chiamata la polizia, che può arrivare con la sirena spiegata e gli uomini in divisa, o con poliziotti in borghese e silenziosamente, così da rendere la cosa meno plateale. Non c’è una regola. Ultimamente arrivano in borghese e senza sirene, perché in effetti non c’è urgenza, quindi è più appropriato come intervento.
I pazienti possono contattare l'associazione “Dignitas” da tutto il mondo: inviano delle mail, vengono spediti i vari certificati, gli esami strumentali; dopodiché ci sono delle équipe mediche che valutano la richiesta e, se questa viene accettata, viene organizzato il suicidio. Normalmente i pazienti arrivano qualche giorno prima, dipende da alcune variabili, tra cui il paese di partenza. Alla data stabilita ci si reca nel posto dove avviene il decesso. In passato “Dignitas” aveva affittato degli appartamenti, poi però i proprietari degli immobili hanno reciso i contratti, perché i condòmini si erano lamentati di avere sempre la polizia e il carro funebre sotto casa. Adesso si sono dotati di locali appositi e il paziente viene ospitato lì.
Resta il problema dei costi: il suicidio assistito rimane una cosa per ricchi. Sono costi abbastanza fissi, intorno ai diecimila euro. D’altra parte sono comprensivi dell’espletamento delle pratiche burocratiche, della conservazione e trasporto della salma, del servizio funebre. Occorre calcolare che qui un funerale di base con la bara low cost, costa almeno 5/6000 euro.
Suicidio o cure palliative?
Un argomento classico contro la depenalizzazione del suicidio assistito è che basterebbe aumentare le cure palliative. Le cure palliative ci sono in tutti i paesi dove esiste il suicidio assistito: Belgio, Olanda, Canada. Ma sviluppare le cure palliative è un dovere della società, non una risposta alla richiesta al suicidio assistito. Per carità, di cure palliative non ce n’è mai abbastanza e possiamo fare di più, ma questo è un discorso che va fatto indipendentemente dalla legalizzazione del suicidio assistito.
I dati poi ci dicono che i paesi con il miglior sviluppo delle cure palliative vedono un tasso di eutanasia maggiore, mentre quello relativo al suicidio assistito rimane uguale.
Il fatto è che non possiamo curare tutte le sofferenze; anche nell’ambito delle cure palliative non dobbiamo porci in una posizione di totipotenza. Anche perché le sofferenze di questi pazienti sono per la maggior parte psico-esistenziali.
Noi ci impegniamo affinché, nel paziente che cerca il suicidio assistito, la sintomatologia fisica sia il più controllata possibile, ma la perdita dell’autonomia è un dato di fatto in queste di malattie e su questo siamo impotenti. Parliamo di pazienti consapevoli, che fanno delle scelte esistenziali. Io da sempre lavoro per un aumento dell’efficacia e della diffusione delle cure palliative, perché sia garantita un’equità di accesso. Ma questo non ha nulla a che vedere con la prevenzione dei suicidi assistiti.
Il consenso sociale
L’80% della società svizzera è d’accordo sul suicidio assistito, vuole che esista questa possibilità. Tanti paesi lo stanno legalizzando. Oggi circa 150 milioni di persone vivono in paesi dove questa pratica è possibile. Crediamo davvero, come medici, di poter dire: “Io di questo non mi occupo”? Io penso di no, pertanto è necessario formarsi, imparare a sviluppare la capacità di parlare con queste persone, che sono destinate ad aumentare, perché la Francia prima o poi lo legalizzerà, l’Italia andrà avanti, l’Inghilterra è lì lì per farlo, l’Irlanda si farà trascinare e alla fine l’Europa tutta avrà il suicidio assistito; l’Australia e la Nuova Zelanda ce l’hanno già, il Canada ce l’ha; negli Stati Uniti alcuni stati ce l’hanno... Insomma, dobbiamo imparare a parlare di queste cose coi pazienti e con la società in maniera professionale e non legata ai nostri principi morali o religiosi, perché questo non ci porterà da nessuna parte. In passato uno degli allarmi era: “Se praticate l’eutanasia negli ospedali, la gente avrà paura di venire”. Qui il vero rischio è che accada il contrario, cioè che i pazienti smettano di parlare di questo con i medici!
* * *
Claudia Gamondi è responsabile del Servizio di cure palliative e di supporto dell’ospedale universitario di Losanna.