Videogiochi: droga o cultura?
I videogiochi, nuovo importante fenomeno culturale di massa (oltre 150 milioni di giocatori al mondo) eppure poco conosciuto. Cosa sono i videogames, la loro evoluzione, chi li pratica (più donne che uomini, più adulti che ragazzi). Un’inchiesta sugli stereotipi e la realtà del videogioco. E sui tanti problemi che si aprono: meno tempo per la lettura, nuova mentalità “parallela”, cultura più duttile, approccio facile alla tecnologia...
Eravamo in una quindicina, di varie età, attorno a un tavolo in un ristorantino cinese. Un pranzo leggero, nel mezzo di una tre-giorni, un raduno nazionale di videogiocatori del gioco che ci appassionava tanto (Age of Empires, ne parliamo nella scheda); in un gruppetto avevamo lasciato la sala dell’Hotel Ergife, attrezzata con una quarantina di Pc dove si svolgevano le nostre sfide virtuali. E ora ci rilassavamo, parlando del più e del meno, di cinema, di viaggi e di politica. E naturalmente del nostro gioco.
"Non c’è niente da fare – rivelò sconsolato uno di noi, un insegnante cinquantenne – Gioco, gioco, ma sono scarso. E scarso rimango", e scosse la testa dai capelli grigi.
Di fronte a lui, a fianco del padre, sedeva un bambino di nove anni, e avanzava con il mento appena sopra la tavola: "Studia! – gli rispose con sguardo duro – Studia!"
Il professore deglutì, si guardò attorno smarrito, balbettando: "Stu… studia… A me?!"
"Sì, studia! – confermò il bimbetto, implacabile.
Tutti uscimmo in una risata liberatoria. Il bambino aveva ragione, aveva messo in riga il maturo professore: non stare a compiangerti, datti da fare! Su Internet ci sono pagine e pagine di strategie, prove, confronti, che analizzano ogni mossa, che spiegano i pro e i contro di ogni scelta in campo economico (per fare evolvere la propria popolazione) e militare (per allestire e guidare al meglio il proprio esercito); ci sono registrate le partite dei campioni, da cui imparare; puoi registrare le tue partite, e rivedere i tuoi errori: "Non piangerti addosso. Studia!"
Il professore alla fine rise anche lui, allargando le braccia.
L’episodio ci sembra indicativo di varie cose: a iniziare dalla complessità del mondo dei videogiochi, inimmaginabile per chi ne è estraneo. Da anni ormai l’industria videoludica ha superato in fatturato Hollywood, ed è quindi, a livello mondiale, la prima industria culturale (in Italia, quarta in Europa, il giro d’affari annuo è di circa 600 milioni di euro). Con l’opzione multiplayer via Internet (la possibilità di giocare assieme e contro, in testa a testa e in squadre, con giocatori – per lo più sconosciuti – di tutto il mondo) le si sono spalancati nuovi inimmaginabili orizzonti. E non rivolti ai soli adolescenti, come comunemente si pensa; l’età media dei videogiocatori è di 28 anni.
Ma soprattutto l’episodio ci rivela un altro dato: il rimescolamento, di culture e di età che il videogioco comporta. Il bambino e il professore; con il primo che aspro redarguisce il secondo; ma anche la casalinga dell’Oklahoma, l’ingegnere di Tokyo, l’adolescente di Rio de Janeiro. I videogames sono una livella (molto più benigna di quella – la morte – evocata da Totò): di fronte al Pc si è tutti uguali. E tutti si entra in una nuova dimensione culturale, partendo da zero, con i bagagli precedenti da riformulare.
Iniziamo in questo numero un’inchiesta sulla realtà dei videogiochi, intervistando videogiocatori e non. E avvalendoci della consulenza di Marco Pellitteri, ricercatore universitario, che sull’argomento ha condotto varie indagini, ed è autore di una monumentale bibliografia critica delle ricerche scientifiche condotte sul tema. Sì, perché l’argomento riguarda un fenomeno culturale - di quale portata? Tutto da discutere - che sta comunque interessando centinaia di milioni di persone.
In questa prima puntata, nella scheda I generi: dal calciatore a Dio introduciamo il tema – soprattutto per chi dei videogiochi sa poco o niente – spiegandone i principali tipi (o "generi"), e la loro genesi; qui invece vediamo come i videogames sono giudicati, dai giocatori e non, lo scarto tra luoghi comuni e realtà, tra pregiudizi e valutazioni critiche.
Nei prossimi numeri affronteremo ulteriori argomenti: le emozioni e i ragionamenti del videogiocatore; i messaggi culturali veicolati dal gioco; i rapporti intergenerazionali attivati o messi in crisi; le comunità di giocatori e la cerchia dei professionisti (sì, esistono ormai anche quelli).
Per cominciare il nostro viaggio partiremo cercando di capire cosa davvero la gente pensa dei videogiochi e soprattutto quali categorie di persone ci giocano. Gli stereotipi infatti si sprecano e per lo più sono piuttosto negativi: ma raramente rispecchiano la realtà. E’ quindi necessario uno sforzo da parte del lettore per calarsi nella parte del giocatore che passa il suo tempo davanti a uno schermo scoprendo realtà diverse e che, estasiato, si lascia ubriacare non solo dalla loro complessità, ma soprattutto dai possibili approcci che può avere e dal senso di sfida che prova nei confronti del computer, o di un avversario che sta dall’altra parte del pianeta.
Se non si capisce questo non si potrà mai comprendere davvero il videogioco. La stessa Giorgia, 52 anni, professoressa universitaria a Trento ammette: "Io il videogioco non lo conosco per esperienza diretta. Vedo solo l’impatto che ha suoi miei figli ed in generale sui più giovani". Intanto però dichiara che i videogames sono un passatempo diverso da molti altri; sviluppano caratteri negativi nel ragazzo, come l’individualismo e l’egocentrismo, fanno perdere la cognizione del tempo e dello spazio.
Ma sarà davvero così? Secondo gli studi fatti in Italia i videogiochi sono invece un fenomeno di aggregazione. Il 90% del tempo che i giovani passano a giocare è in realtà dedicato alla socializzazione. Una socializzazione che ovviamente passa attraverso nuovi canali e modalità: si iniziò nelle sale giochi di fine anni Settanta, prosegue oggi con la modalità multiplayer davanti alle console, che permette a più giocatori di affrontarsi contemporaneamente, e pure su Internet, che oltre ad essere sede di partite on-line, è soprattutto un’importantissima fonte di relazioni e scambio di conoscenze, come approfondiremo nei prossimi speciali.
Lo stesso Massimo, 48 anni, coetaneo di Giorgia, che ai videogiochi ci passa molto tempo, ha una concezione diversa: "I videogames - racconta - sono comunemente sottovalutati. Io ci gioco molto spesso e volentieri perché permettono alla mente di diventare più elastica, e poi mi fanno divertire in modo intelligente".
Se pensate che Massino sia un caso isolato vi sbagliate: le statistiche mettono in luce come l’età media dei giocatori sia molto più alta di quanto si pensa comunemente. In tutto il mondo, come abbiamo già detto, la media tra i videogiocatori risulta essere di 28 anni (vedi grafico): come dire che per ogni adolescente che gioca c’è anche un quarantenne. Allora perché quando si parla di problematiche portate dai videogiochi si pensa sempre ad un pubblico giovane?
"Per i sociologi è evidentemente doveroso studiare ugualmente il rapporto con il gioco da parte di giovani ed adulti – ci risponde Pellitteri – Ma l’enfasi sugli adolescenti viene dagli studi di psicologi e pedagoghi: mentre l’adulto ha già sviluppato una percezione del mondo, e quindi il videogioco non lo condiziona più di tanto, per il giovane è diverso, nel bene e nel male, dal momento che l’impatto con questa realtà avviene in un’età particolarmente delicata".
Vediamo anche noi. E dalle nostre interviste fra i più giovani, appare chiara la spaccatura tra giocatori e non giocatori. I primi pensano che il gioco sia divertente e a tratti anche educativo, come Marco, 18 anni, studente al liceo scientifico: "Il videogioco è un hobby come altri, forse anche più divertente".
"Non è una perdita di tempo - aggiunge Silvia - Io ci gioco appena ho tempo libero e ogni volta imparo cose nuove e abituo la mente a riflettere in parallelo".
Ecco la cosiddetta mentalità parallela, tanto amata anche dai più anziani. Giuseppe, 56 anni commenta: "I videogiochi sono utili, perché ti calano nelle vesti del personaggio. Non sei più la persona che sei nella vita di tutti i tuoi giorni, diventi un idraulico, un generale, un sindaco, un mostro, un dio: le tue scelte devono essere improntate alla realtà del gioco, non alle tue normali abitudini".
Mara, 28 anni, non giocatrice, coglie la palla al balzo e contrattacca: "I videogames fanno perdere di vista certi valori, ti fanno diventare più cinico e violento; violenza che poi si trasmette anche nella vita di tutti i giorni".
A controbattere ci pensa questa volta Dante, 32 anni, esperto di videogiochi: "La violenza è limitata ad una stretta nicchia di videogames (per esempio gli "sparatutto" di cui parliamo nella scheda, o quelli, crudeli fino al ridicolo, in cui a bordo di una macchina devi scorrazzare per la città ed ammazzare più passanti che puoi, n.d.r.) e non è diffusa come pensa comunemente il genitore ‘censore’ che si preoccupa per il ragazzo. In questi casi, comunque limitati, dipende dal ragazzo stesso l’interpretazione: c’è chi la utilizza come sfogo per le pulsioni negative che giungono dalla vita di tutti i giorni; e chi invece il messaggio negativo lo subisce, e attraverso la violenza può interpretare anche il quotidiano".
Su questo punto "il dibattito scientifico è aperto, e le opinioni sono le più disparate – commenta Pellitteri – Resta tuttavia il fatto che la maggior parte delle ricerche empiriche non rilevano correlazioni significative fra uso di videogiochi violenti e concrete azioni nefaste".
Comunque è il più generale concetto di "mentalità parallela", tirata prepotentemente in ballo dai nostri intervistati, a interessare anche il ricercatore: "E’ la capacità, ampiamente sviluppata dal videogioco, di comprensione ed adattamento a realtà diverse – spiega Pellitteri – Si tratta di un’esperienza formativa, che peraltro rientra nei canoni classici dell’educazione degli adolescenti. Pensiamo ai cosidetti ‘romanzi di formazione’ da ‘Senza famiglia’ a ‘Cuore’: trasportano il giovane lettore a seguire il giovane personaggio attraverso situazioni terribili. Ed evidentemente il lettore-bambino vede il bambino-personaggio come il proprio alter ego. Nel videogioco c’è lo stesso meccanismo". Probabilmente con qualcosa in più: non c’è solo il rapporto emozionale (l’identificazione con il personaggio) e conoscitivo (le nuove realtà rivelate dalla storia); nel videogioco c’è anche – come sottolineano gli intervistati – la possibilità/necessità di interagire; e quindi di apprendere, adattarsi, controllare la nuova realtà.
Ma ancora i non-giocatori non sono convinti delle risposte fornite. E’ una giovane, Anna, che pone un interrogativo importante: "Mi accorgo che da quando gioco ho perso l’amore per i libri che avevo un tempo: il gioco toglie tempo alla lettura?"
La domanda lascia per lo più spiazzati gli interlocutori a cui giriamo l’interrogativo. Gli studi spiegano che i videogiochi non tolgono tempo ai libri, ma anzi ne incentivano la lettura stimolando una complementarità di testi e paratesti (ad esempio incentivano il giovane a leggere le riviste specializzate nel settore).
"Rispetto a 50 anni fa in Italia i lettori sono aumentati numericamente, ma diminuiti in qualità – risponde Pellitteri – E si riscontra come il bambino, che è un buon lettore, diventa da adolescente un cattivo lettore; questo è dovuto a varie cause, ma principali sono l’ambiente familiare e quello scolastico, dove purtroppo si associa la lettura non al piacere ma a un pesante dovere. Però il fatto che oggi si leggano meno libri non vuol dire che stiamo precipitando nell’abisso; vuol dire che il tempo si distribuisce tra i vari media, oggi di molto aumentati. E’ chiaro che visto il problema in questi termini, i videogiochi rivestono un ruolo secondario; se un bambino sta tutto il giorno sulla console, o alla Tv, il problema non è il videogioco o la Tv, ma la famiglia".
Matteo, 20 anni, universitario appassionato di giochi sportivi prova a trovare un’altra risposta. Secondo lui il videogame non toglie il tempo di leggere i libri, perché in fondo se una persona si sa gestire riesce a conciliare entrambe le attività. Il problema è soprattutto che i videogiochi tolgono l’interesse per la lettura. "Se il giocatore si trova davanti un libro, difficilmente troverà lo stimolo per iniziarlo. Il libro richiede un approccio paziente e progressivo, una capacità di appassionarsi dal nulla e di sviluppare solo poi la trama. Il videogioco porta invece la persona, e per lo più i ragazzi, a sviluppare un approccio molto più dinamico; il cervello apprezza solo gli impulsi più diretti e così non sarà naturalmente propenso ad avvicinarsi a 500 pagine scritte fitte-fitte. Diverso è il discorso per il fumetto, in cui le vignette attraggono sin da subito il lettore".
Di contro il videogioco pareggia questo gravissimo difetto con lo sviluppo di alcune capacità. La mentalità parallela, citata in precedenza, il dinamismo della mente, la gestione di un gruppo (virtuale): l’università Cattolica di Milano ha annunciato che strutturerà i prossimi corsi di Organizzazione aziendale, laurea triennale in Economia, curriculum Management delle imprese, grazie alla realtà virtuale di uno dei videogochi più famosi del mondo, "The Sims" (leggi scheda per approfondimento).
L’ultimo attacco ai videogiochi lo porta Monica, 32 anni, non giocatrice. "I videogames - sostiene - sono indirizzati ad un pubblico maschile, come si può notare dall’ingente uso di violenza, di contenuti più o meno espliciti e soprattutto dalle tipologie di personaggi e di intrecci. Le donne sono viste solamente come oggetti-premio da dare al giocatore uomo e maschilista".
Questo è evidentemente un pregiudizio, smentito dalle statistiche: le femmine giocano più dei maschi (vedi grafico). Ma non è un pregiudizio storicamente infondato.
"Agli inizi i videogiochi erano in effetti maschilisti. E alle donne interessavano poco o punto – ci risponde Pellitteri – Poi le case produttrici hanno pensato di rivolgersi anche all’altra metà della popolazione. Così si è visto come le donne siano più attratte da giochi di ragionamento (ad esempio, ‘Tetris’, che consisteva nel far incastrare solidi di varie forme cadenti dall’alto), come pure dal potere aggregativo dei videogiochi e dalla possibilità di relazionarsi in tal modo con più persone. Poi ci si è accorti di come anche giochi apparentemente violenti o settoriali, come ‘Grand Theft Auto’ e i titoli sportivi, potessero essere apprezzati dalle ragazze, se modificati in senso umoristico: a una corsa di auto simil Formula 1 non si appassionano; ma se vi facciamo partecipare macchine fantasiose, piloti macchietta, se si sviluppano situazioni comiche, ecco che scatta l’interesse; insomma, vivono la storia in modo differente dai compagni maschi. Per non parlare di quei giochi, come ‘The sims’, basati sul modello del reality show e che permettono alla donna il ruolo di demiurgo: è così che viene appagata la tendenza femminile a dominare e controllare i vari aspetti della vita (in questo caso virtuale), secondo un approccio più schematico ma forse anche più fantasioso ed appagante rispetto alla realtà. Per finire, lo sviluppo di cinema e fumetti giapponesi, ha portato alla ribalta - in contrasto con i concorrenti americani, notoriamente maschili - un universo femminile che si è riversato anche nei videogames".
Insomma, la partita fra videogiocatorie non videogiocatori termina 1-1. Ma il problema resta: come spiegare a genitori, professori, amici, insomma, a tutte le persone che non capiscono i videogiochi in cosa consiste davvero questa realtà? Comunicare le emozioni, i ricordi, le sensazioni è impossibile: l’importante è far capire che il videogioco non è quella bestia corruttrice che spesso si immagina.
La sentenza più autorevole giunge forse da una voce imparziale, perché è sia videogiocatore che persona "informata sui fatti": Jaime D’Alessandro, autore di molti libri sull’argomento videogiochi (di cui l’ultimo uscito nelle edicole è "Play 2.0.") e collaboratore di testate quali il Sole 24 ore e La Repubblica, ma anche accanito giocatore e frequentatore di comunità in rete.
E’ lui a raccontare che i videogiochi sono un’esperienza importante per lo sviluppo della mente, paragonabile a quello che per i nostri genitori è stato il flipper e per i nostri nonni erano i trenini di legno. Insomma, semplicemente un gioco.
E come tutti i giochi può diventare una droga, una sostanza psicotropa se la si usa senza moderazione. Il mondo dei videogames è un abisso agrodolce che può creare dipendenza ma anche tante emozioni e ricordi (virtuali, ma pur sempre ricordi); tutto sta nella capacità di autoregolazione dell’utente.