Videogames “critici”
Videogiochi: un passatempo, certo, ma anche uno strumento pubblicitario e un mezzo per diffondere conoscenza su tematiche sociali.
Per i più, il videogame non è che il paradiso artificiale dei giovani meno impegnati, quelli che passando delle ore davanti allo schermo della playstation e sparando a nemici e problemi virtuali, sprecano insulsamente la propria giovinezza. Per altri il videogame è un media come un altro, con finalità ora pubblicitarie, ora reclutative, ora perfino in grado di formare una coscienza politica. Attraverso il ludico, ovviamente. Videogames semplici ed intuitivi, che attraverso il divertimento parlano di problemi di scottante attualità, dal precariato alla Legge 40, come vedremo.
Il videogame, nato nei primi anni Settanta, è oggi in Italia una realtà nel campo dell’intrattenimento seconda (ma per poco) solo al cinema: ben 385 milioni di euro il fatturato annuo solo per il software, e un’età media non più dominata dai teenager. Secondo alcuni studi la media anagrafica si è oggi innalzata ai ventinovenni, ed in effetti i lettori di riviste trash di pettegolezzi ben sanno che tra i più aficionados al genere ci sono quei miti nazionali che sono i calciatori. Ma come abbiamo anticipato l’intrattenimento sembra non essere l’unico fine possibile per questi giochi, che al contrario possono esser considerati dei veri e propri media. Certo, dei low-media, più che mass-media, visto il numero ridotto delle persone coinvolte; sempre comunque in grado di diffondere un messaggio in una forma mediata.
Ci sono casi in cui la palese finalità di un game è di tipo pubblicitario. E’ questo il caso dei giochi che sempre più spesso si possono scaricare sui siti di importanti multinazionali, in special modo di quelle il cui target è più mirato ai giovani. La finalità pubblicitaria è insita anche nei tradizionali videogames sportivi che -due piccioni con una fava - utilizzano degli sponsor per meglio simulare il campo di gioco.
Altro capitolo sono quei videogames che hanno un ruolo fondamentale sia nell’arruolamento, sia nell’addestramento dei marines. Giochi come "America’s Army" o "Full Spectrum Warrior" sono simulatori bellici non a caso finanziati dal Pentagono e distribuiti gratuitamente tra le truppe, e non solo. Non ci si lamenti poi per l’invasamento di questi giovani e soprattutto per i loro grilletti facili: in fondo stanno solo giocando una partita…
Perfino la Chiesa protestante, negli States, guarda al mezzo con interesse: nel 2004 si è svolta a Portland (Oregon), la prima conferenza internazionale di promotori di videogiochi cristiani.
Non da meno la politica: nelle ultime elezioni statunitensi c’è stato un rapido diffondersi di videogiochi nella campagna elettorale, uno dei quali - dal significativo nome di "John Kerry Tax Invaders"- presentava un arzillo Bush munito di cannone attivo nello sparare ai plichi di tasse sganciati dall’odiato rivale. Che sia grazie ai videogames che lo sconcertante numero di non-votanti americani è leggermente calato alle scorse elezioni?
Un capitolo a parte sono i videogames "critici". Questi, oltre a strappare un sorriso di compiacimento, intendono far riflettere - almeno queste sono le intenzioni - su svariate tematiche sociali. Nulla a che vedere con il pretesto politico utilizzato da alcune major dell’intrattenimento per ingrassare i loro affari, giochi ove basta cambiare le divise e gli scenari ai classici games di combattimento per creare teatrini di morte politicizzata: minatori contro padroni, black-block contro multinazionali, partigiani contro fascisti, palestinesi contro israeliani… No, i videogames critici sono tali a partire dalla produzione. Nascono cioè liberati dalle strette maglie del copyright, ed ognuno è libero di scaricarli e diffonderli come meglio crede, purché senza finalità di lucro. Alcuni di questi deturnano videogiochi bellici, mutandone cioè radicalmente il significato. Un classico simulatore di volo diventa così un generatore di immagini astratte e poetiche.
Un altro filone di games simula la miseria della vita quotidiana del precario, fatta di incertezza e continuo cambio di mansioni, ritenendo che una simulazione-rappresentazione sia più immediata ed efficace di una riflessione. E’ questo il caso di "Tamatipico" o di "Tuboflex", ambedue ideati dall’italiana Molleindustria. Il protagonista passa nel gioco dai fornelli di McDonald’s ai telefoni dei call center e così via, di precarietà in precarietà. A proposito di Molleindustria (www.molleindustria.it, sul sito tutti i giochi sono scaricabili e copyleft), questo collettivo di videogamers-attivisti recentemente ha fatto parlare di sé per "Embrioni in fuga", un semplice quanto accattivante gioco per far parlare del referendum sulla legge 40. La protagonista è una ricercatrice che deve portare gli embrioni in un laboratorio, scansando di volta in volta un burocrate e un prete che a suon di "Ora pro nobis" sgancia potenti sberle…
Non sappiamo quanto questo mezzo possa essere utile, e anche dopo aver sentito quelli di Molleindustria i dubbi rimangono. In ogni caso, un media in più su cui riflettere…
Ma diamo la parola a questi insoliti imprenditori.
I videogames sono media in rapida espansione. Sia dal punto di vista quantitativo che da quello qualitativo. Un fenomeno relativamente di nicchia e dominato da un’utenza adolescenziale è diventato in poco più di un decennio un’industria del calibro di Hollywood che sta rapidamente conquistando un pubblico generalista. Inoltre i videogiochi ‘altri’, quelli in cui l’intrattenimento non è l’unico fine, non sono più così rari come un tempo: il panorama attuale offre infatti sia giochi pubblicitari, sia giochi per il reclutamento militare, sia giochi per l’evangelizzazione, sia ovviamente – e di questo noi ci occupiamo - giochi con finalità politiche".
Quanto pensate sia possibile dare un significato "sociale" al videogame?
"Tutti i videogames, come tutti i prodotti culturali, hanno un significato sociale: rispecchiano i valori di un’epoca e le idee degli autori, anche se questi ultimi non sono intenzionati a comunicare messaggi particolari".
Non credete che ci sia una certa incompatibilità tra chi passa solitamente delle ore con una playstation e chi passa delle ore nell’attivismo sociale?
"Gli attivisti non vengono da un altro pianeta, sono studenti, lavoratori o disoccupati che giocano alla playstation come tutti gli altri. Ad ogni modo non fa bene dedicare troppo tempo ad una sola attività sia per quanto riguarda la playstation sia per quanto riguarda l‘attivismo: è finita l’ora delle sette".
Altra questione. I vostri games sono certamente apprezzabili. Tuttavia non ritenete che per porre dei ‘virus di riflessione’ all’appassionato tradizionale occorra realizzare un prodotto multimediale d’alta qualità, solitamente realizzabile dalle sole major dell’intrattenimento con forti investimenti e ancor più colossali ricavi?
"L‘appassionato di videogame, il cosiddetto ‘hardcore gamer’, è veramente esigente, bada solo alla qualità tecnica ed è un po’ come quelli che valutano i film solo in base agli effetti speciali. Sono un’utenza forte ma fortunatamente minoritaria. Il pubblico di massa è più interessato ad altri aspetti. Infatti i giochi per EyeToy o per Nintendo ds, i videogames online e quelli per cellulari che si rivolgono ad un pubblico più ampio non hanno standard tecnici elevati. Insomma, i più si accontentano".
Se sul piano sociale ci sono iniziative interessanti come le vostre, cosa potete dirci di quei videogames "antisociali", ad esempio utilizzati per arruolare i giovani nell’esercito o nei gruppi d’estremismo religioso?
"Le connessioni fra esercito ed industria dell’intrattenimento ci sono sempre state. Ultimamente (con giochi come ‘America’s Army’) si sono fatte più visibili, e per questo se ne sente più spesso parlare. Ovviamente ci sono dei pericoli dovuti al fatto che la gente non è ancora alfabetizzata a questo linguaggio-icona, assolutamente immediato (e quindi non-mediato). Mancano ancora seri studi sul problema, e potrebbero crearsi situazioni simili a quelle dei primordi della televisione, in cui tutto ciò che appariva sullo schermo era dato assolutamente per vero. Comunque sono ottimista e spero che questo uso controverso dei videogiochi ponga fine alle solite annose polemiche sulla violenza e porti ad una discussione sul loro impatto culturale in senso lato".
Quanti dei vostri lavori sono nati dal confronto con associazioni-gruppi di studio-movimenti?
"Alcuni, come ‘Embrioni in fuga’ o la ‘Mayday netparade’ sono stati fatti in vista di eventi particolari (il prossimo referendum e le scorse manifestazioni del primo maggio, n.d.r.) ed abbiamo contattato i gruppi che portavano avanti le attività di comunicazione per integrarci meglio nelle campagne. Di solito proponiamo un appoggio a chi consideriamo affine alle nostre idee e al nostro stile, perciò ci siamo affiancati a collettivi dinamici e avanzati come Chainworkers di Milano (sulla tematica del precariato) e Sexyshock di Bologna (sulla libertà d’espressione sessuale)".