Le favole e la realtà
Ci hanno raccontato che Afghanistan e Irak si stavano normalizzando. E invece...
Come sarebbe bello se fosse vero ciò che ci dicono! Dopo le elezioni in Afghanistan, che portarono al potere Hamid Karzai, in quel povero paese martoriato dai talebani è cominciata la nuova era della democrazia. In Irak la consultazione popolare del gennaio scorso ha finalmente posto le basi per un governo non dittatoriale e gradualmente la situazione si avvia alla normalità, tanto che la coalizione dei volonterosi, Italia compresa, sta per considerare l’ipotesi di ritirare le truppe che vi si trovano in missione di pace a cominciare dai primi mesi dell’anno prossimo.
Questo è ciò che ci dicono. Ma purtroppo le notizie che malgrado tutto continuano a filtrare su ciò che accade in quella contrada giustificano un ben radicato scetticismo.
La falsa notizia, pubblicata da Newsweek, che a Guantanamo venivano buttate nel water le pagine del Corano, scatena rivolte furibonde in molti paesi islamici ed in Afghanistan la repressione provoca 16 morti. Sempre in Afghanistan è stata rapita una volontaria italiana, Clementina Cantoni, non si sa ancora se da malavitosi comuni o da gruppi politicamente motivati.
In Irak ogni giorno è un’ecatombe: in due settimane, le ultime, si sono contati 400 morti fra civili e militari irakeni. Il numero dei morti fra le truppe di occupazione americane è tenuto segreto, ma sicuramente ammonta a più di 1.500, la maggior parte caduti dopo la fine vittoriosa della guerra.
Vediamo le crudeltà degli insorti, mentre le operazioni repressive delle forze di occupazione sono riferite con formule asettiche ed inoffensive. Ogni tanto apprendiamo che è stato ucciso un ministro del nuovo governo democratico o un generale dei reparti irakeni addestrati dagli americani. Non occorre molto di più per capire che in Irak è in corso una vera e propria guerra civile.
Ci mostrano gli orrori del terrorismo, attribuendoli ai perversi piani dei residui seguaci di Saddam e ai protervi fanatici guerriglieri di Bin Laden. Ma una guerriglia persistente così tenace e di così vaste dimensioni ha motivazioni più profonde.
Proviamo a metterci nei panni di quei popoli. E’ vero che erano stati dominati da un dittatore spietato. Ma si sono visti invadere da una potenza militare con pretesti falsi, hanno subito morti innocenti a decine di migliaia, si sono sentiti dire che sono un popolo arretrato, povero, incivile. Che le forze militari occupanti portavano la libertà, il progresso, la civiltà. Che dovevano accettare il dono della democrazia offerto con metodi sbrigativi, ma necessari per liberarli dalla loro congenita barbarie...
Non vi pare che un simile affronto sia più che bastevole per suscitare la fiera reazione di un popolo a difesa della propria identità? Non capire le ragioni profonde che animano gli insorti, siano pure una minoranza ma assai consistente di un popolo, significa perpetuare ed aggravare gli effetti tragici di un errore colossale quale è stato la guerra, sia in Afghanistan che in Irak.
La verità è che il presidente degli Stati Uniti, del resto sorretto dal consenso della maggioranza del suo popolo, è stato mosso nella sua strategia non da una lucida visione della realtà, ma da una torbida coscienza ottenebrata dal terrore: il terrore provocato nel popolo americano dall’attentato dell’11 settembre.
Un simile terrore inoculato nella cultura del ceto dirigente della più grande potenza del mondo ha prodotto effetti devastanti. Non solo le guerre preventive contro Kabul e Baghdad, ma anche la minacciosa pressione su Corea del Nord ed Irak, con la pretesa di impedire a questi paesi di dotarsi di armi nucleari. E’ certamente condivisibile un serio programma mondiale di totale distruzione degli ordigni micidiali quali sono le bombe atomiche; ma è almeno sconcertante che a pretenderlo in modo unilaterale sia l’unica potenza al mondo che nella storia dell’umanità abbia adottato la tremenda decisione di scaricare due bombe atomiche su due città giapponesi.
Pare che Condoleezza Rice, il segretario di stato americano, abbia detto che per risolvere la terribile situazione creatasi non bastano le armi, ma occorre una politica. Ebbene, il ritiro del contingente italiano di Nassirya potrebbe essere un atto politico leale per aiutare il grande alleato a rinsavire.