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QT n. 4, 26 febbraio 2005 Servizi

La (provvisoria?) rivincita di Bush

Le molte variabili di uno scenario, al momento, (molto relativamente) tranquillo.

Si respira una strana aria di bonaccia in questi ultimi tempi nella Mezzaluna Fertile. Le elezioni in Irak si sono concluse con un sostanziale successo: sciiti e kurdi hanno disciplinatamente votato e stanno preparando il primo governo "libero" dell’Irak occupato… I sunniti, abilmente astenendosi dal voto, hanno alzato il prezzo della loro indispensabile e inevitabile collaborazione. Ora anzi fanno la voce grossa attraverso il Consiglio degli Ulema, che emerge sempre più come il reale antipotere extra-istituzionale allo strapotere sciita incarnato dall’ayatollah al-Sistani e la coalizione sciita vittoriosa.

Irak: sostenitori dell’ayatollah Al Sistani.

Si metteranno d’accordo? Non c’è dubbio. Oggi tutti hanno interesse a farlo, così come c’è da scommettere che la guerriglia rimarrà un elemento endemico della situazione interna irakena e attraverserà fasi alterne di recrudescenze e autospegnimento in funzione dell’evoluzione dei rapporti di forza tra il blocco maggioritario kurdo-sciita e quello minoritario sunnita. Neppure è da escludere un plateale ribaltamento di alleanze. Chi può dire, oggi, se l’orgoglio dei kurdi, musulmani sunniti di orientamemto prevalentemente laico-moderato, premiati dagli americani con un sostanziale riconoscimento della loro autonomia e quasi-sovranità territoriale nel nord dell’Irak, non possa entrare in collisione con la coalizione sciita e la sua segreta vocazione ad affermarsi come potere incontrastato all’interno del paese?

Se la questione mai sopita dell’indipendentismo kurdo divenisse domani terreno di scontro con gli sciiti, potremmo persino assistere ad una inedita alleanza de facto tra kurdi (che - ricordiamolo - sono sunniti nella stragrande maggioranza) e i sunniti arabi rappresentati dal Consiglio degli Ulema, che insieme costituiscono il 40% della popolazione. Ecco, il primo punto interrogativo è questo: si accontenteranno i kurdi di avere la presidenza della neonata repubblica democratica e riusciranno a trovare un soddisfacente compromesso, nella cogestione del potere con gli sciiti di al-Sistani, tale da indurli a rinunciare al sogno indipendentista?

Ma anche in casa sciita le cose non scorrono lisce. La eterogenea coalizione vincitrice ha già indicato in Ibrahim Jaafari, leader del Da’wa, il più antico partito religioso di opposizione anti-Saddam, il futuro primo ministro. Il Da’wa (letteralmente: "appello" nel senso di invito alla fede e alla militanza religiosa) è il partito che, regnante Saddam, esprimeva la ferrea opposizione degli ambienti religiosi sciiti all’ideologia ba’athista, ovvero a tutto ciò che sapeva di socialismo, di marxismo ateo, di visione laica del mondo, di modernizzazione in senso europeo, ecc. Dalle fila del Da’wa sono usciti gli ideologi di quella Rivoluzione Islamica (e di una "economia islamica", di uno "stato dei diseredati") cui ampiamente attingeranno Khomeyni e la rivoluzione iraniana del 1979. L’idea di proporre l’islam come base di riferimento della nuova costituzione per il Da’wa è dunque irrinunciabile e Ibrahim Jaafari lo ha chiarito anche di recente. Al-Sistani, il padre spirituale della coalizione sciita vincente, passa - è vero - per un moderato che ai tempi di Khomeyni si schierò alla parte di coloro che rigettavamo l’innovazione della velayat-e faqih (lett.: "governo dei dottori della legge"), ossia di quella teocrazia che tuttora costituisce il sistema di potere in Iran. Ma oggi che il potere è davvero nelle sue mani e che egli può con un cenno governare gli animi e le azioni degli sciiti (60% della popolazione) siamo sicuri che la pensa ancora così?

Anche l’altro partito dominante della coalizione, lo SCIRI di ‘Abdolaziz al-Hakim, ampiamente sostenuto dall’Iran e persino ospitato oltre frontiera durante il regno ba’athista di Saddam, è un partito di schietta matrice religiosa, pur se ha dato ampia dimostrazione finora di flessibilità politica e di disponibilità a pragmatici compromessi. Al-Sistani poté sopravvivere nell’ Irak di Saddam, a differenza di altri colleghi ayatollah fatti assassinare dal regime, grazie alla sua dichiarata non-ingerenza nelle questioni politiche. Oggi, al contrario, è palese che egli si trova proprio al centro del "sistema politico" irakeno e a capo di una coalizione di partiti sciiti le cui due principali formazioni (il Da’wa e lo SCIRI) sono, almeno nell’ispirazione di fondo, tutt’altro che favorevoli al principio della non-ingerenza.

Insomma un bel puzzle, che al momento è tenuto insieme nella sua apparente "moderazione" e disponibilità a reciproci compromessi (sciiti-kurdi, sunniti-sciiti, varie anime della coalizione sciita) solo dalla presenza dello straniero occupante.

Gli americani sono ben consci che l’equilibrio attuale si regge esclusivamente sulla forza di deterrenza delle loro armi, e che la loro ipotetica uscita di scena scatenerebbe una immediata resa dei conti con inevitabile coinvolgimento delle potenze regionali limitrofe. E si guardano bene, al di là del riaffermato principio che prima o poi se ne andranno, dal fissare una qualsiasi data di abbandono dell’Irak.

Le potenze regionali limitrofe sono evidentemente l’altro corno del problema americano. Come ho già avuto modo di illustrare su questo stesso giornale, gli americani stanno organizzando non la loro uscita dall’Irak e dal Medio Oriente, bensì, al contrario, la loro permanenza per un arco di tempo che si proietta ben oltre la vita terrena di tutti gli attuali protagonisti, attori o spettatori che siano. Lo impongono ragioni di carattere geo-stategico e "imperiale" in senso lato (controllo dei campi petroliferi, contenimento del possibile espansionismo della potenza cinese, acquisizione all’Occidente di un mondo musulmano normalizzato e, col tempo, reso omogeneo all’american style) su cui è stato detto abbastanza. Questo disegno complessivo si inserisce a sua volta in tendenze storiche di lunga durata che hanno inizio già all’indomani della seconda guerra mondiale e della "normalizzazione" dell’Europa nazi-fascista e del Giappone, imperialista concorrente nell’area del Pacifico. L’Impero americano, acquisito al suo sistema di alleanze Europa e Giappone, ha fatto un ulteriore passo in avanti con il crollo dell’Unione Sovietica e la divisione delle sue spoglie: tutta l’Europa dell’Est e, recentemente, anche l’Ucraina, sono entrate nell’orbita dell’Impero, cui persino l’ex-potenza concorrente, la Russia di Putin, è ormai in rapporto di quasi-vassallaggio. La nuova frontiera avanzata dell’Occidente si colloca oggi non più lungo la "cortina di ferro" bensì nel Medio Oriente e nell’Asia Centrale ex-sovietica. Non a caso oggi i paesi turcofoni di quell’area si barcamenano tra il vecchio decaduto zar russo e il nuovo più influente zar americano, ospitando, sin dalla guerra afghana, basi e missioni militari USA.

Questo disegno complessivo di ri-dislocamento dei confini avanzati dell’Impero - in funzione di contenimento della nascente potenza cinese - ha avuto dunque nelle guerre afgana e irakena (e nella pace in Palestina) alcuni tasselli importanti: esso è certamente a buon punto ma è ancora lontano dall’essere pienamente realizzato.

Si intuiscono già le linee d’azione dei prossimi anni. Le due potenze regionali oggi sotto pressione sono notoriamente la Siria e l’Iran. E’ significativo che i media americani e europei stiano oggi battendo la grancassa intorno all’oscuro episodio dell’assassinio dell’ex-primo ministro libanese Hariri - supposto nemico della Siria - attribuendo l’organizzazione del complotto o almeno la responsabilità morale a quest’ultimo paese. Al contempo ritorna il tormentone dell’ "atomica dell’Iran" con una significativa novità: si lascia balenare la possibilità che prima o poi Israele –su mandato degli USA- si incaricherà di una "operazione chirurgica" che farà saltare gli impianti nucleari iraniani.

Il presidente siriano Bashshar Assad

Che accadrà ancora? Si potrebbe dire che la Siria oggi costituisca un boccone relativamente facile per l’Impero: circondata da fedeli alleati americani (Israele e Turchia) e confinante con la colonia americana dell’Irak "libero e democratico", il paese di Bashshar Assad continua non di meno a giocare un ruolo ambiguo: secondo l’intelligence americana sosterrebbe tuttora la guerriglia sunnita in Irak. Se si tiene presente il riasserito programma imperiale di voler diffondere libertà e democrazia in tutta l’area - e si considera che certo il regime siriano è un esempio da manuale di autocrazia mediorientale - si comprende bene che ci sono tutte le premesse e discreta abbondanza di pretesti per una nuova avventura dell’armata americana. Manca il casus belli, ma non sarebbe un grande problema: all’occorrenza, basterebbe sostenere che una colonna di terroristi è stata avvistata dai satelliti mentre entrava in Irak attraversando la frontiera siro-irakena… A un simile scenario oggi si oppone solo la considerazione che la diplomazia americana, in piena azione per favorire la pace israelo-palestinese, sconsiglia certamente dall’intraprendere nell’immediato nuove avventure militari che potrebbero danneggiare i negoziati e soprattutto alimentare ulteriormente l’odio antiamericano tra gli arabi. Insomma, un passo alla volta…

Diverso il caso dell’Iran. Gli USA stanno svolgendo una pressione inaudita su questo paese, anche per ragioni che sono, a dire il vero, più che comprensibili. Oggi nell’area le due potenze nucleari esistenti sono Israele e il Pakistan, ossia due alleati degli Stati Uniti. L’atomica all’Iran significherebbe che poi non si potrebbe più dire di no all’atomica dell’Egitto, dell’Arabia Saudita o della Turchia. Insomma, il rischio di proliferazione di armi nucleari in una zona calda del pianeta è realissimo e non lascia certo dormire sonni tranquilli a nessuno. Detto questo, occorre anche dire che l’Iran ha sempre avuto sin dall’epoca dello shah ambizioni a ricoprire un ruolo forte di potenza regionale, ruolo che non può decollare finché il paese non avrà acquisito lo stesso status di potenza nucleare che hanno i vicini Pakistan e Israele. Quest’ultimo è comprensibilmente preoccupato di uno sviluppo simile, tanto più che l’Iran già oggi dispone di una autonoma industria militare che produce missili a medio raggio in grado di portare ogive nucleari.

Vladimir Putin.

Lo sviluppo prevedibile? Gli USA saranno tentati di sfruttare un fallimento degli attuali colloqui sul disarmo tra Iran e Unione Europea per dare il via libera agli israeliani. Dicevo saranno tentati, perché esiste un rischio. L’attuale programma di sviluppo nucleare (formalmente solo a scopi pacifici) è fornito all’Iran dalla Russia di Putin, e questo tipo di accordi potrebbe anche comprendere una sostanziale garanzia di copertura politico-strategica. In altre parole, una azione militare israeliana come quella prospettata potrebbe spingere l’Iran nelle braccia della Russia di Putin, ossia indurlo a stringere accordi di protezione militare (oggi, dopo tutto, la Russia non è più in mano agli atei marxisti…) e di alleanza strategica. Sviluppo che risulterebbe oltremodo interessante per Putin, alla ricerca, anche ad uso interno, di un rilancio del ruolo internazionale del paese, ma che certo non potrebbe piacere all’Impero di Bush.

Un Iran che cerca protezione in Russia non è una novità: sin dal XIX secolo russi e inglesi si disputavano una interessata "protezione" del regno degli shah Qajar. La Russia di Putin potrebbe abilmente e fruttuosamente inserirsi nella situazione per mettere i paletti allo strapotere USA (e contentare così la frustratissima gerarchia militare della decaduta ex-Armata Rossa ) e insieme per proporsi come "disinteressato protettore" di genti musulmane di fronte alla aggressiva avidità dei nuovi crociati…

Anche Putin ha bisogno di rifarsi l’immagine col mondo islamico: dopo il disastro della guerra contro gli indipendentisti filo-islamici della Cecenia, sarebbe davvero un colpo da maestro.