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A proposito di regole

La nuova forma di governo del Trentino fra transizione e assestamenti.

Francesco Palermo

Finita la luna di miele con il suo nuovo sistema elettorale e la sua nuova forma di governo, il sistema politico e istituzionale trentino si trova a dover gestire la convivenza non sempre facile con le nuove regole. Così il passaggio (istituzionalmente traumatico, per quanto politicamente obbligato) da un sistema fortemente assembleare ad una forma di governo prevalentemente (ma non esclusivamente) presidenziale inizia a creare qualche malumore, e si profilano ipotesi di ulteriore riforma.

Nulla di sensazionale, nel complesso. E’ caratteristico delle transizioni che le regole appena approvate vengano nuovamente sottoposte a un processo di revisione, fino a produrre assestamenti sempre minori per poi completare un quadro che si ripresenti come definitivo, almeno fino alla transizione successiva. Al di là delle motivazioni e dei mal di pancia politici che comunque sono inevitabili perché qualcuno è sempre scontento, occorre cercare di analizzare alcuni nodi di natura istituzionale per spiegare le difficoltà di assestamento della nuova forma di governo, provando infine a tratteggiare possibili percorsi per gli sviluppi futuri.

L’evoluzione che ha portato al quadro normativo attuale è nota. Dopo quasi un decennio di stallo e di instabilità, la spirale riformatrice si è messa in moto con la norma transitoria inserita nella riforma dello statuto del 2001, rapidamente superata dalla legge cd. "statutaria" (l.p. 2/2003, la prima approvata in Italia, è bene ricordarlo) ed integrata da altre leggi di sistema (in particolare quella sulla disciplina referendaria, l.p. 3/2003), cui sono destinate ad aggiungersi altre profonde modifiche della forma e della funzione di governo della e nella Provincia (in particolare l’assai innovativa "legge sul governo dell’autonomia del Trentino", un testo che, se approvato, porrà per molti aspetti il Trentino all’avanguardia in Italia e non solo).

In questo rapido ma profondo percorso si possono identificare due elementi portanti. Il primo - e il più consolante - è il progressivo miglioramento della qualità e della tenuta sistemica delle norme. A una norma transitoria scritta in fretta e male è seguita una legge elettorale migliore, ma anch’essa non priva di contraddizioni. La legge sulla democrazia diretta è, per quanto imperfetta, qualitativamente migliore delle precedenti (per rendersene conto basta considerare le difficoltà che l’approvazione di un analogo testo sta incontrando in Provincia di Bolzano) e la futura legge sul governo dell’autonomia è ancora (e decisamente) migliore. La qualità e le prospettive di successo di un processo di transizione si giudicano anche (e non è un dato marginale) dalla qualità della legislazione, e su questo fronte sembrano esservi numerose ragioni di ottimismo.

Il secondo elemento determinante (questa volta in negativo) è la presenza di norme in contraddizione tra loro, com’è appunto caratteristico delle transizioni. L’esempio più eclatante è dato dalle regole che presiedono alla composizione della Giunta provinciale, ai suoi rapporti con il Consiglio e al ruolo degli assessori. L’opzione per l’elezione popolare diretta del Presidente è stata sì accompagnata da altri elementi caratteristici di modelli presidenziali (in particolare la posizione preminente del Presidente all’interno della Giunta, o il suo potere di nomina e revoca degli assessori, anche esterni al Consiglio), ma per contro non si è scelto un assetto nettamente presidenziale. Così è rimasto un legame istituzionale molto forte tra Presidente (e Giunta) e Consiglio: il premio di maggioranza (e i voti di preferenza), la sfiducia cd. distruttiva e il potere di ricatto reciproco (il cd. "simul-simul"), l’obbligo per il Presidente (e il vice-Presidente!) di essere membri del Consiglio, la limitazione del numero degli assessori esterni e la figura quanto meno "ibrida" dei consiglieri in surroga, cioè quelli subentrati a quelli nominati assessori, e che perderebbero il posto qualora per qualunque motivo (politico o personale) l’assessore-consigliere decidesse di lasciare la Giunta e di tornare tra i banchi del Consiglio. Ne esce insomma un modello che non è né carne né pesce, che necessariamente funziona in maniera strana e a volte schizofrenica, prevalendo ora gli elementi presidenziali, ora quelli consiliari.

Per il momento il sistema co-munque ha tenuto, garantendo il conseguimento degli obiettivi principali che si era posto: stabilizzazione dell’esecutivo e governabilità.

Non invece la semplificazione del panorama politico-partitico, ma al di là di alcune dichiarazioni di facciata non va dimenticato che questo non era un obiettivo delle riforme sinora approvate. Sarà interessante capire quale anima del sistema prevarrà in futuro, se quella presidenziale o quella consiliare, o se magari si svilupperà un nuovo genere in grado di costituire una tipologia a sé, una sorta di anfibio che non è né terreste né acquatico, ma un po’ l’uno e un po’ l’altro.

A ben vedere, la soluzione "anfibia" è anche la più plausibile. Una scelta completamente presidenziale, ossia un sistema in cui non vi sia un rapporto di fiducia tra Presidente e Consiglio, e nel quale legislativo ed esecutivo camminino ciascuno per la sua strada in forza delle rispettive legittimazioni democratiche (un sistema all’americana, per intenderci), per quanto astrattamente possibile in base alla Costituzione, appare altamente improbabile sotto il profilo politico. Essa richiederebbe inoltre la modifica della legge di attuazione dell’art. 122 della Costituzione da poco approvata dal Parlamento (e recentemente fatta valere dalla Corte costituzionale con sentenza 378/2004 nei confronti della proposta di statuto della Regione Umbria, che intendeva introdurre l’incompatibilità della carica di assessore con quella di consigliere).

Parimenti, il ritorno ad un’opzione completamente assembleare quale quella precedente la stagione delle riforme andrebbe a contraddire le ragioni che hanno indotto a cambiare, e non appare sostenuto dalle forze politiche. Per cui assai probabilmente si andrà avanti così, con delle necessarie scosse di assestamento del sistema, nel quale dovranno comunque prevalere, sotto il profilo del funzionamento concreto delle dinamiche della forma di governo, o gli elementi presidenziali o quelli assembleari.

Su questo occorre concentrare la riflessione. Da molte parti giungono lamentele più o meno esplicite per il sostanziale assoggettamento del Consiglio e persino della Giunta al Presidente, dovuto anche al potere politico che al Presidente deriva nei confronti del Consiglio dalla presenza in Giunta di assessori-consiglieri, in quanto la dinamica Presidente-assessore può riflettersi anche pesantemente (con la perdita del posto) sui consiglieri in surroga.

D’altra parte si invoca la necessità di questo sistema in quanto garantisce il Trentino contro i fantasmi del suo recente passato, l’instabilità e l’ingovernabilità, concedendo il massimo possibile al Consiglio (aumento del numero dei consiglieri attraverso il meccanismo della surroga e potere di sfiducia nei confronti del Presidente, sia pure al prezzo di decadere anch’esso).

Su questo anche il Trentino, come le altre regioni italiane, sconta un deficit di cultura istituzionale. Il Consiglio tende infatti a vedere il proprio ruolo solo attraverso il proprio (leggasi: dei partiti) rapporto fiduciario nei confronti dell’esecutivo: diminuendo questo potere, il Consiglio si ritiene emarginato. Ma in realtà il compito di controllo affidato alle assemblee è ben poca cosa se questo si limita all’ipotesi (politicamente poco plausibile) di sfiducia nei confronti di un esecutivo espressione della stessa maggioranza che controlla l’assemblea.

Sono ben altre le funzioni che il Consiglio dovrebbe svolgere, che passano in primo luogo da una rifondazione della funzione di controllo politico, che potrebbero riguardare molti aspetti sinora trascurati, come ad esempio l’esame delle candidature alle cariche per le nomine dell’esecutivo, la previsione di pareri obbligatori sulle decisioni della Giunta, funzioni di vigilanza, di controllo, di indagine, meccanismi che garantiscano maggiore e più continua informazione, specie di natura finanziaria, monitoraggio delle politiche dalla fase della concezione a quella di esecuzione, strumenti per coinvolgere nel processo decisionale i saperi diffusi, ecc. E soprattutto la funzione di monitoraggio della legislazione, specie attraverso la verifica costante della sua applicazione e dei suoi risultati concreti.

L’efficacia e l’autorevolezza dell’assemblea aumentano infatti in proporzione non già al potere di ricatto politico o alla conservazione di nicchie di potere, ma all’efficacia degli strumenti di cui questa sa dotarsi in tema di controllo sull’esecutivo.

E’ su questo che si giocherà la battaglia dell’efficienza e dell’equilibrio del sistema. Ma naturalmente per arrivare a soluzioni soddisfacenti sul punto che conta davvero occorre un ripensamento complessivo degli strumenti di controllo politico, che passa inevitabilmente per una riorganizzazione del sistema della legislazione, una modifica del regolamento consiliare e infine (ma forse per primo) una riforma dello statuto. Il silenzio su questo tema sembra preoccupante soprattutto perché in mancanza di interventi sistemici sul contenitore i contenuti rischiano di rimanere sempre disorganici.