Il bello delle primarie
Le primarie, una scossa salutare alla partitocrazia. Eppure il dibattito attorno ad esse è così faticoso, in quanto nasce da un problema vero: il ritardo nell’avere un’idea di società condivisa.
All’indomani delle primarie pugliesi, gli opinionisti hanno fatto a gara nel valutarle un momento negativo, o in ogni caso bizzarramente anomalo; e controproducente per chi le aveva promosse, ossia il centro-sinistra. Non siamo d’accordo.
A nostro avviso infatti, queste primarie, pur nella loro valenza regionale, hanno probabilmente dato una prima scossa salutare a tutto il sistema politico italiano, e in particolare proprio al centro sinistra. Il quale risulta avvolto, anzi vive di paludamenti partitocratici grazie ai quali alla fine le burocrazie romane scelgono e impongono le decisioni sui candidati; in base agli equilibri interni alle nomenklature, talora a prescindere dalle reali chance elettorali del candidato, e in ogni caso prescindendo dalle aspettative degli elettori. Per rimanere al Trentino, come non ricordare la ripetuta imposizione di un candidato come Marco Boato, magari anche bravo parlamentare (quando non flirta con il campo avverso sostenendo il "Foglio" di Ferrara) ma sicuramente inviso all’elettorato locale?
Questo ci sembra poi un aspetto di un discorso più vasto: l’apparire, da parte del centro sinistra, e in buona sostanza l’essere, un ceto politico inamovibile e litigioso, statico e burocratico, autoreferenziale, sostanzialmente vecchio. Il proliferare di partiti e partitini, sigle, formule, contenitori, accordi col bilancino, spartizioni con il manuale Cencelli, appare agli occhi di molti cittadini come qualcosa di incomprensibile e superato. Chi non ricorda le consultazioni al Quirinale quando l’Ulivo si presentava con venti personaggi (tra segretari di partito, portavoce, capigruppo parlamentari) che non riuscivano a essere inquadrati insieme dalle telecamere? "Nel centro-sinistra non ci sono 13 visioni della società diverse, ci sono 13 nomenklature da soddisfare" - disse una volta (quando i partitini erano appunto 13) Giuliano Amato.
Un ceto politico autoreferenziale e - caso forse unico in Occidente - inamovibile: nessuno paga sconfitte ed errori, fa solo un giro in altre cariche. Mentre nel resto d’Europa e in America il leader che perde scompare (o meglio, torna alla vita civile), da noi il burocrate cambia sedia: Massimo D’Alema, ispiratore della suicida linea degli ultimi tre anni di governo ulivista, è passato tranquillamente alla presidenza dei Ds, Rutelli, sconfitto da Berlusconi, a quella della Margherita, comportandosi successivamente sempre allo stesso modo.
Tutto questo, beninteso, in perfetta consonanza con la cultura e gli interessi del personale di partito: nessun apparatnik (usiamo non a caso vocaboli russi) intende il proprio posto come precario, così non deve esserlo quello dei leader. Anche la cosiddetta sinistra radicale o antagonista si comporta allo stesso modo, cercando prima di tutto la propria visibilità e solo in secondo luogo una coesione con le altre forze della coalizione. In una logica tipicamente partitica e proporzionalistica i vari Pecoraro Scanio, Mastella, Di Pietro si cannibalizzano, nella disperata ricerca di visibilità, chi curandosi del cosiddetto elettorato centrista, chi rivolgendosi ai mondi dei movimenti e della sinistra.
Non basta. C’è di peggio: la tendenza di questo ceto ad allargarsi, occupando gli spazi del pubblico e parapubblico. Con le famose "nomine politiche": nelle Asl, nelle municipalizzate, e in genere nel parastato, inquinato così dalla sostituzione del principio di appartenenza a quello di competenza.
A gran parte degli elettori tutto questo, comprensibilmente, non va giù. E parte di essi hanno preferito affidarsi a Berlusconi, provando così forse a cambiare anche le abitudini uliviste. Certo, al nuovismo berlusconiano, che destabilizza le istituzioni, che mette l’interesse privato al posto di quello pubblico, che scivola in insulti e tentazioni autoritarie, un cittadino accorto potrebbe e dovrebbe preferire le grigie burocrazie di partito che almeno garantirebbero di non scardinare i valori costituzionali, come sta facendo Berlusconi.
Anche perché, a dire il vero, queste burocrazie in realtà non sempre sono grigie. I governi dell’Ulivo, a fianco dei mille balletti su temi cruciali (per la democrazia e per l’Ulivo stesso) come la giustizia e il conflitto di interessi, hanno pure varato riforme importanti, come la Visco sulla fiscalità, la Bassanini sulla Pubblica amministrazione, la Bersani sul commercio. Di più: proprio per ovviare ai nefasti risultati delle logiche spartitorie negli enti pubblici, hanno abolito gli enti stessi, dando luogo ad una serie impressionante di privatizzazioni; materia questa tutta da discutere, ma che comunque testimonia l’inaspettata capacità di andare contro gli interessi stessi della partitocrazia.
Per questo il giudizio non può essere brutalmente liquidatorio. Ma una cosa è il giudizio storico, un’altra le opinioni dell’elettorato: e oggi migliaia di italiani preferiscono ancora il presunto decisionismo berlusconiano alle partitocrazie uliviste.
Ecco quindi come lo choc della vittoria del comunista Nichi Vendola, in quanto ribellione degli elettori agli equilibri partitici, può servire a svegliare i sonnolenti partiti "riformisti". E il meccanismo delle primarie, proprio perché sottrae potere alle nomenklature e lo affida, in un pur difficile percorso, agli elettori, può segnare una svolta sostanziale dei meccanismi per la decisione e per il ricambio della classe dirigente della GAD.
Tuttavia, in questi ultimi giorni, la discussione (alla lunga sterile ed autolesionista di fronte all’incombere delle elezioni regionali) intorno alle primarie nasconde sì i problemi fondamentali e ancora irrisolti che caratterizzano la compagine, ma al contempo nasce da essi. E’ così arroventata non tanto per suicida insipienza, ma soprattutto perché, oltre le logiche della partitocrazia, ci sono problemi veri.
Sono quelli della costruzione di una linea politico-programmatica che riesca ad unire in maniera convincente e duratura le posizioni di Bertinotti con quelle, se non di Mastella, almeno di Enrico Letta. Cosa non impossibile: lavorare per un’Italia più moderna ma non più ingiusta è un obiettivo comune e realizzabile. Ma appunto, bisogna lavorarci: mettendo in campo idee, scelte forti, persone qualificate.
Se ci sono finalità comuni realisticamente perseguibili, e comprensibili dalla grande maggioranza dell’elettorato, si esauriscono le velleità degli apparati di presidiare il proprio territorio, cioè i propri segmenti di elettorato.
In una situazione come quella attuale, caratterizzata da grandi rivolgimenti planetari, è riduttivo e miope ragionare in termini di porzioncine di elettori, che si presumono ossificate. Le idee forti sono in grado di spazzare questi cascami della vecchia politica.
Certo, questo processo abbisognerebbe di una fusione, non di una separazione delle culture politiche che fanno riferimento all’Ulivo: la cultura socialista, quella cattolica democratica, quella liberal-democratica. Con l’approdo finale più logico: un soggetto politico nuovo, con un nome e un cognome comprensibile (cosa che del resto accade in tutta Europa, dove le varie culture confluiscono in grandi partiti, non si frammentano in un mille micro-organizzazioni).
Ma qui siamo già alla prospettiva, al domani. Per l’oggi sarebbe già un bene per l’insieme della competizione politica, se il dibattito si spostasse sulle idee di società che si intendono mettere in campo. Altrimenti assisteremo, dopo un altro anno di balletti e litigi, all’ennesimo referendum pro o contro Berlusconi, con una quota consistente di elettori di entrambi gli schieramenti che stanno a casa, oppure vanno alle urne turandosi il naso.