Prova giudiziaria e prova storica
Giulio Andreotti: mafioso a metà?
Giulio Andreotti, uno dei più eminenti uomini politici dell’ultimo mezzo secolo, è stato mafioso o no? La domanda sembra risalire all’epoca della scomparsa dei dinosauri, tanto veloci ed efficaci sono stati i tempi mediatici rispetto a quelli processuali. Quando Andreotti fu inquisito per la prime volta erano decenni fa. Un bambino nato allora, oggi ha almeno 25 anni. La risposta alla domanda non interessa più nessuno, se non forse gli storici. Tuttavia è opportuno ricordare ogni tanto agli italiani che la risposta giudiziaria è stata finora abbastanza convergente.
La sentenza di 1° grado nel 2000 ha risposto con formula dubitativa ai sensi dell’art. 530 comma 2°. Gli elementi di prova ci sono, e consistenti, ma non sufficienti e quindi si impone l’assoluzione. La sentenza di 2° grado, il 2 maggio 2003, ha per metà ribaltato il giudizio del tribunale: Andreotti è stato un mafioso almeno fino alla primavera del 1982, ma i reati sono prescritti; per il periodo successivo che va dal 1982 al 1992 viene confermata l’assoluzione per insufficienza di prove.
Il divo Giulio è stato dimezzato: per metà mafioso, per metà no. Colpito sulla via di Damasco, sarebbe ritornato sulla retta via e anzi avrebbe favorito più severe normative antimafia. Il confine fra i due comportamenti è segnato, secondo la Corte, dall’incontro avvenuto nella primavera del 1982 fra Andreotti e l’allora capo di Cosa nostra Stefano Bontade, all’indomani dell’omicidio di Piersanti Mattarella per mano della Mafia. La Corte ritiene dimostrati altri incontri: con lo stesso Bontade nel 1979, con Tano Badalamenti pure nel 1979, con Andrea Manciaracina nel 1985 a Mazara del Vallo.
Ora sul piano giudiziario non resta che aspettare la decisione della Cassazione. Ma credo che resterà la notizia di un giorno, specie se, come è probabile, confermerà la sentenza di Appello. E il divo Giulio avrà nuovi giorni di gloria televisiva.
Ma gli italiani, almeno gli storici, non potranno dmenticare quanto scrive la sentenza di appello: "Nella configurabilità del reato di associazione a delinquere, il senatore Andreotti ha avuto piena consapevolezza che i suoi sodali siciliani intrattenevano rapporti amichevoli con alcuni boss mafiosi. Ha quindi a sua volta coltivato amichevoli rapporti con gli stessi boss; ha palesato agli stessi una disponibilità non meramente fittizia, li ha incontrati; ha interagito con essi; ha loro indicato il comportamento da tenere in relazione alla delicatissima questione Mattarella; ha indotto i medesimi e a fidarsi di lui e a parlargli anche di fatti gravissimi (come l’assassinio del presidente Mattarella) nella sicura consapevolezza di non correre il rischio di non essere denunciati; ha omesso di denunciare la loro responsabilità".
Il sen. Andreotti aveva l’obbligo di denunciare mandanti e manovali, prima e dopo l’assassinio: perché non l’ha fatto?
Questa domanda lo inchioda per sempre. Tutti questi fatti - conclude la sentenza - "indicano una vera e propria partecipazione all’associazione mafiosa, protrattasi nel tempo".
Nel suo delirio, Silvio Berlusconi, il 4 settembre 2003, riferendosi proprio alla sentenza di Appello su Andreotti, ha parlato di giudici "mentalmente disturbati" e "antropologicamente diversi dalla razza umana". Si tratta appunto di deliri. Prima ancora della giurisdizione la storia ha dato il suo giudizio, che vale anche per Andreotti: dai tempi dei tempi il potere politico è intrecciato col potere criminale e gronda di sangue e di menzogne.