Menù
Home
QT
Questotrentino
Mensile di informazione e approfondimento
Utente
Cerca
QT n. 16, 27 settembre 2003 Servizi

Underground, ultimo atto

Ancora su “Frigidaire”, parlando con due suoi protagonisti: Giacon e Echaurren. E finendo con Fernanda Pivano che ricorda i tempi di “Pianeta fresco”.

Con questo numero concludiamo il nostro viaggio nell’officina- Frigidaire e, più in generale, quello nel panorama delle riviste underground italiane. Della rivista cult degli anni Ottanta-Novanta abbiamo intervistato due illustri illustratori, Massimo Giacon e Pablo Echaurren. Infine, con un ritorno alle origini, parliamo di “Pianeta fresco”, storica rivista beat degli anni Sessanta, con la sua ideatrice, Fernanda Pivano.

Massimo Giacon, 42 anni, è una trasgressiva mente del fumetto, della pittura e del design italiano. Dal 1979 i suoi lavori iniziano ad apparire sulle più importanti riviste del fumetto, da Linus ad Alter, da Dolce Vita a Cyborg, da Nova express a Blue, con una significativa presenza su Frigidaire.

Massimo Giacon, e sotto, uno dei suoi fumetti.

Per la gloriosa Primo Carnera ha collaborato anche alle "riviste-gemelle" Tempi supplementari, completamente dedicata al nuovo fumetto italiano, e Frizzer, oltre a pubblicare nel 1985 l’albo Mecanostorie. Alla produzione di tavole affianca quella di artista-performer, e le sue mostre-evento hanno avuto luogo, oltre che in Italia, in America, Grecia, Portogallo e Giappone, a partire dal 1990. Nel 1985 ha iniziato la sua attività di designer, prima con alcuni degli studi più importanti di Milano (Sottsass, Mendini, Thun), poi disegnando, col suo inconfondibile stile bizzarro, per diversi marchi, dalla Swatch a Memphis, da Artemide ad Alessi. Dal 1994 inizia ad occuparsi di grafica virtuale, creando siti web, personaggi virtuali, sigle televisive, videogiochi e serial d’animazione.

Com’è avvenuto il contatto con l’officina Frigidaire e come ti sei trovato in quel blob di arte, reportages e (sub)letteratura?

"Sono entrato nel gruppo di Frigidaire molto giovane; avevo con loro già dei contatti da un paio di anni, ma evidentemente non ritenevano che stessi producendo ancora qualcosa di sufficientemente buono per la rivista. Dopo la prima pubblicazione delle mie storie su Linus e Alter si riaprirono le trattative: questo fu dovuto a due fattori concatenati: anzitutto al fatto che tra Frigidaire e Alter ( Milano Libri) si era creata una forte rivalità, e le due riviste cercavano di rubarsi reciprocamente i nuovi disegnatori che ritenevano più interessanti. L’altro fattore fu legato all’innamoramento del mio lavoro da parte di Vincenzo Sparagna, e l’ammorbidimento, (o forse il fatto che all’epoca aveva già altri problemi tra i coglioni), delle posizioni di Stefano Tamburini, fino a quel tempo interessato, ma molto critico nei confronti delle mie produzioni. Lavorare per Frigidaire mi faceva sentire parte di una banda, di una ‘élite alternativa’, e mi dava un gran senso di libertà. Per intenderci, non è che acquistassero ogni cazzata che facevo, ma all’interno di quel movimento si avvertiva la possibilità di ‘osare’, e che nessuno si sarebbe mai permesso di porre dei veti in materia di stile, tematiche, idee, cosa che invece avveniva con Milano Libri, che per quanto di tradizione progressista, era piuttosto rigida in materia di violenza, hard core e sperimentazione estrema. Erano due famiglie che offrivano opportunità diverse, e la cosa divertente di quel periodo era che si poteva scivolare dall’una all’altra senza traumi particolari, confrontandosi con diversi stili narrativi.

Una buona parte dei tuoi lavori apparsi su Frigidaire ricordano - in un acido cromatismo - le forme graffianti della xilografia espressionista svolte con modi neo-pop, e neo-futuristi, alla Donald Baechler. Quali sono i tuoi riferimenti più diretti nel campo della storia dell’arte?

"Nel mio lavoro e in quello di tutto il gruppo Valvoline (per non parlare di Massimo Josa Ghini) sono state riscontrate influenze artistiche-pittoriche legate al Futurismo che bisognerebbe un po’ sfatare. Gli artisti futuristi e le avanguardie storiche erano da noi conosciute, ma non erano certo il perno della nostra vena creativa. Poi, all’inizio degli anni Ottanta, ci fu la riscoperta e la grande rivalutazione del Movimento Futurista, per cui io mi divertii a giocarci un po’... Ma la verità è un’altra: per la prima volta si affacciava al mondo del fumetto una generazione che aveva una cultura variegata e contraddittoria, stracolma di fumetto d’autore e di largo consumo, cinema colto e di serie B, arte, musica punk e new wave, letteratura raffinata e di genere, e che amava questo alto-basso con la stessa passione. Questa cultura io volevo fortemente innestarla con il fumetto che facevo all’epoca, a volte anche dando libertà ai miei sedimenti inconsci. Più che di influenze pittoriche (Depero in testa), io parlerei di influenze cinematografiche, cartoonistiche e fumettistiche, ma non molto precise; mi piace essere una specie di ‘discarica dell’immaginario’ dove ogni tanto recuperare qualche oggetto prezioso irrimediabilmente corrotto dalla sporcizia. Ecco perché gli autori che stimo di più sono David Lynch, Federico Fellini, i Residents, Tim Burton: dei collezionisti di stracci, riesumatori di cadaveri della psiche, con una visione politica del Kitsch".

Fra le tue produzioni, assai significative sono quelle di design industriale. Tra l’altro, tu stesso hai tenuto un corso di merchandising trasgressivo. Quanto trovi artistica la società dell’iperconsumo vista da molti come il trionfo del banale e del kitsch?

"Il mio ingresso nel mondo del design industriale è stato decisamente anomalo, aiutato da uno che nel design è sempre stato una anomalia storica, ovvero Ettore Sottsass. Purtroppo il suo approccio da viaggiatore e reporter nel mondo del prodotto è stato travisato e rivoltato da molti giovani designers che pensano che l’oggetto sia una barzelletta colorata, a volte pure sporca. D’altra parte l’approccio quasi religioso e ascetico al progetto che potevano avere Mari o Castiglioni negli anni’60, oggi sembrerebbe ingenuo, se non ridicolo. Io fin dall’inizio ho dichiarato la mia estraneità al design, ma non al progetto, che è la base di ogni lavoro che rispetto. I miei oggetti sono pensati come personaggi di una storia che si allarga piano, piccole sculture a buon prezzo, frammenti di un discorso che viene contagiato e contagia a sua volta il resto della mia variegata produzione. Il problema della ‘artisticità’ dell’oggetto di consumo è un problema legato alla critica e non all’immagine; il pubblico è sempre meno critico, e la patente d’artista viene data sempre più spesso a personaggi che sarebbe più giusto definire con le parole appropriate, ovvero sarti, geometri, arredatori ed illustratori, parole tra l’altro che non sono per niente offensive e che sanciscono delle sane differenze".

Dal fumetto agli acrilici su tela, quanto è importante nei tuoi lavori il linguaggio scritto?

"Molto; a volte penso che sia la ciambella di salvataggio che mi impedisce di scivolare nella retorica del Neo-Pop ( tra l’altro non è sempre detto che il gioco riesca...). Quando, negli anni Ottanta, mi chiedevano perché non mi mettevo a dipingere come molti miei colleghi fumettisti, io dicevo che la qualità del mio lavoro trovava la sua giusta sede e il suo esaurimento nella carta stampata. Molto spesso le aspirazioni pseudo-artistiche del fumettaro con senso di inferiorità nei confronti della cultura ‘alta’ lo portano a realizzare niente più che delle grandi illustrazioni su tela, e io non volevo fare gli stessi errori: il fumetto, la sua storia, le sue tecniche, erano cose che conoscevo bene, e mi permettevano di giocare, innovare, sperimentare... ma l’arte contemporanea era tutto un altro mondo. Poi la storia ha deciso questa contesa. All’inizio degli anni Novanta non c’erano più spazi, se non quelli autoprodotti, per fare ricerca nel mondo del fumetto, per cui mi sono affacciato alle gallerie, e ho provato a vedere se potevo continuare i miei esperimenti in un altro ambito, senza rinunciare alla mia storia, anzi dichiarandola in modo molto evidente. In effetti i miei progetti per le gallerie non sono né arte né fumetto, ma narrazioni ibride ancora tutte da esplorare".

Dal 1981, assieme a Piermario Ciani e Vittore Baroni, hai partecipato al network project Trax, precursore del caustico Luther Blissett: una miriade di micro e macroproduzioni nelle quali il confine tra generi (dalla musica alla fotocopia, dall’arte alla scrittura) ed autori (oltre 500 artisti) è dissolto. Quali sono stati i lavori meglio riusciti del progetto, oltre al progetto stesso nella sua complessità?

"Credo che l’idea più bella del progetto sia la stessa che poi è stata perfezionata da Luther Blissett, ovvero il non essere, la generosità di darsi al mondo e permettere che chiunque cagasse sulla tua opera, brano musicale, disegno che fosse, e vedere cosa succedeva, producendo altra merda o sporcando lavori di altri. A volte sembrava che tutto ciò avesse a che fare più con il vandalismo nichilista che con il mondo dell’arte, eppure alle volte ne scaturivano progetti molto ordinati. Il progetto che più ho amato è stato Traxtra, il disco contenente nastri manipolati a più mani da passaggi successivi... Peccato all’epoca non aver avuto a disposizione la tecnologia odierna. Allora, dopo tre passaggi, tutti i nastri tendevano a somigliarsi in un magma magnetico e opaco, mentre oggi avremmo la possibilità di assemblare un numero infinito di tracce con risultati sicuramente imprevedibili... ma qui stiamo parlando veramente di archeologia sonora... In teoria oggi qualunque brufoloso in possesso di un pc e di un programma di audiomixing crackato potrebbe fare mille volte tanto, però in genere si tratta di operazioni molto solipsistiche, da cameretta, con l’e-mail a portata di mano, mentre noi usavamo un mezzo farraginoso come le Poste Italiane degli anni’80, un po’ come costruire un campionatore a vapore".

Pablo Echaurren, 52 anni, è un artista quanto mai completo. I campi da lui sperimentati vanno dalla cartellonistica al design industriale, dalle copertine di dischi a quelle di libri e riviste (come il settimanale Carta), dai francobolli alle tarsie su stoffa, dalle ceramiche - apprezzate tra l’altro da Ernst Gombrich - al collage, dal fumetto fino - ovviamente - alla pittura, della quale uno dei primi estimatori fu Arturo Schwarz, tra i più importanti studiosi e galleristi del surrealismo. E poi l’uso della parola scritta: dalla saggistica underground ("Volantini italiani", "Parole ribelli", "Controcultura in Italia" e molti altri ancora) al romanzo ("Delitto d’autore"), dai libri d’artista ("Nel segno del libro") alla trasposizione letterario-visiva della vita di poeti ed artisti.

Pablo Echaurren, e sotto, uno dei suoi fumetti.

Con Frigidaire ha collaborato assiduamente, e il suo stile è inconfondibile: evocazioni cubo-futuriste e costruttiviste shakerate con l’imaginerie pop del fumetto, un effetto risultante dalla forte ironia che sdrammatizza gli imperativi delle avanguardie.

Echaurren, come ha sottolineato Achille Bonito Oliva, "celebra l’accoppiamento tra l’estenuato gioco combinatorio di Arcimboldo e le barbare forme futuribili di Depero". La sua non è un omaggio a, né un opera d’après: piuttosto un cannibalismo che sa divorare le rigidità delle avanguardie, digerendole col sorriso dell’ironia.

I tuoi primi lavori, riferibili al "ciclo dei quadratini", che molti conoscono per le copertine da te eseguite per la Savelli, presentano, come ha sottolineato Claudia Salaris sulla tua monografia (edita dalla AAA edizioni), riferimenti sia al pop dei fumetti, sia al tema marxista dell’alienazione. Cos’ha segnato il passaggio alla fase cubo-futurista che troviamo in Frigidaire?

"La riscoperta personale del futurismo italiano. Sai, io, come molti della nostra generazione, guardavo solo a dada, al massimo al surrealismo. Ma il futurismo…. Puah, spazzatura dell’Italietta fascista… Scoprii che non era così, che l’avanguardia era già tutta lì, poi ripresa, copiata, dagli altri movimenti. Per cui mi tuffai a risciacquare i panni, i pennelli e i pennarelli in Mari-netti. Dagli indiani metropolitani ai poeti degli aeroplani".

Tra i tuoi riferimenti artistici più espliciti c’è Fortunato Depero. Cosa ti ha attratto maggiormente di quest’artista?

"Il fatto che, anche in questo caso, la palma del precursore va a lui. Non sono gli ammerecani ad aver inventato la Pop art. E’ stato lui, Fortunato. Altro che balle! Lui ha mescolato per primo alto & basso, high & low. Lui ha spaziato fra arti maggiori e minori, arti applicate. E’ lui l’artiere da cento e un mestiere. Nel mio piccolo, pure io ho zompettato da un genere degenere a un altro, senza badare alle differenze, agli steccati, ai confini troppo ben delineati".

Da buon conoscitore e collezionista di riviste d’avanguardia quale tu sei, è una forzatura inserire tra queste il trio Cannibale -Il Male-Frigidaire?

"Nessuna forzatura. Come ti dico, non ci sono linee di divisione, controlli di dogana, posti di blocco. Tutto fa brodo. Anzi io vedo un filo rosso che conduce dalle riviste futuriste ai fogli dei gruppi creativi degli anni Sessanta-Settanta (tipo Re nudo, per intenderci), alle fanzine degli indiani, dei trasversalisti e dei maodadaisti del ’77, fino alle autoproduzioni mail-artistiche et similia. In questo senso, se un senso esiste, è concepita la mia collezione. Il Novecento visto con l’occhio dell’autoproduzione".

Cos’ha significato per il tuo divenire artista essere il figlio di una grande figura del surrealismo come Sebastian Matta?

"Non molto, nel senso che io ho vissuto la mia vita del tutto autonomamente. Le mie influenze mi sono venute da altre direzioni, da altre stimolazioni, da altre frequentazioni. Comunque il DNA è quello che è e a lui non si comanda. Naturalmente, a casa mia, circolava un certo venticello e già da giovane masticavo qualcosa… ma la mia ambizione sarebbe stata quella di essere un grande bassista. Ahimè, così non fu".

Cosa c’è nel ‘prossimamente’ di Pablo Echaurren?

"Una mega mostra antologica al Chiostro del Bramante, a Roma, per il 2004. Nuovi quadri ultra spruzzati di colore, mucho incasinati e tanti romanzi manzi. Il primo è uscito or ora da Shake e si intitola Delitto d’autore. Leggetelo, ne vale la pena! Parola di untore, di dipintore, di provocatore professionista".