Due sentenze
Insulti fra automobilisti e traffico d’armi: la Cassazione assolve...
La fattispecie giunta alla Cassazione era la seguente: in
un parcheggio, R.B. era appoggiato alla sua auto ferma. Un’altra auto in manovra guidata da F. B. lo sfiorò pericolosamente. Il primo reagì dicendo: "Ma cosa fai?" L’altro, senza neppure fermarsi, rispose gridando: "Non rompere i coglioni!"
Ingiuria? Insulto? La Cassazione ha risposto di no, annullando la condanna inflitta dal Tribunale. Non costituiscono reato di ingiuria le parolacce tra automobilisti, specie se giovani, perché le frasi volgarisono usate come intercalare, o come rafforzativo di un pensiero (sentenza 33, novembre 2001, settima sez. della Cassazione).
La pronunzia rappresenta una svolta nei confronti dei precedenti orientamenti in tema di offesa all’onore e quindi di ingiuria. In precedenza infatti la Cassazione aveva sempre affermato che dovesse farsi riferimento al valore socialmente diffuso delle espressioni usate, distinguendo fra quelle cariche di offensività e quelle ormai disinnescate. Esse cioè vanno valutate in base al significato che vengono oggettivamente ad assumere (Cassazione, sez. V, 19-XII-2001). Insomma "il fatto che un’espressione ricorra frequentemente nel linguaggio del volgo non vale a privarla del suo contenuto oltraggioso" (Cassazione, sez. VI, 20-XII-1983, n°2044).
Non vi è dubbio che il richiamo ai "coglioni", per il suo duplice riferimento alla sfera intima sessuale e alla stupidità, è carica di offensività in qualunque contesto, che non sia quello scherzoso. Nel nostro caso, la Cassazione ha rovesciato il ragionamento: la volgarità è dovunque; essa rappresenta il nostro pane quotidiano; se tutti sono volgari nessuno lo è; la coscienza sociale tollera ormai il dilagare del turpiloquio e della volgarità, diffusa anche dalla televisone (dove non c’è film in cui non si odano espressioni come vaffanculo, stronzo, ecc.); "non rompermi i coglioni" equivale a "non scocciarmi"; il vocabolario in uso tra i giovani è pieno di parole pesanti o sconce, e quindi, nel contesto, la frase in questione non può considerarsi offensiva.
Alla Cassazione è sfuggito che numerose sono le espressioni per manifestare insofferenza (per esempio: non seccarmi, fatti i fatti tuoi, ecc.) e che l’aver scelto la più spregiativa (non rompermi i coglioni) significa che si tiene a vile l’interlocutore, che lo si disprezza. Non è dunque giuridicamente indifferente aver utilizzato una frase sconcia e sprezzante, che denota la consapevole volontà di offendere. E’ vero che l’espressione va sempre contestualizzata, ma ciò è compito del giudice di merito, che infatti aveva condannato.
La sentenza assolutoria della Cassazione opera un ulteriore passo verso il turpiloquio, rompe l’ultimo argine che ci difendeva (si fa per dire) dalla volgarità dilagante, e favorisce l’inquinamento verbale del linguaggio.
Tale Leonid Minin venne arrestato a Milano con l’accusa di traffico di armi. Aveva venduto nella Sierra Leone centinaia di tonnellate di armi da guerra, munizioni ed esplosivi. In seguito ad appello e successivo ricorso il processo pervenne in Cassazione. Con sentenza 15 novembre 2002 n° 38401 la prima sezione penale ha dichiarato inesistente il reato e comunque non perseguibile il Minin, non già perché mancassero le prove, ma sulla base di due principi:1. la punibilità è esclusa quando il fatto non sia previsto come reato anche dalla legge dello Stato in cui esso è stato commesso; 2. la condotta del Minin e l’evento si erano realizzati interamente fuori del territorio italiano.
Tale decisione suscita perplessità. E’ veramente difficile pensare che il contrabbando di armi non sia penalmente perseguito in Sierra Leone, tanto che la Cassazione non cita le fonti e dà il fatto per scontato. Non conosco la legislazione della Sierra Leone e quindi, per quanto assurda, la cosa potrebbe anche essere vera. Ricordo però che una risoluzione dell’ONU vieta la cessione di armi alla Sierra Leone, e pertanto la Cassazione avrebbe dovuto applicare il diritto internazionale di fonte ONU. Per quanto riguarda il principio di territorialità, la sentenza equivale a legittimare il traffico di armi "estero su estero". La pronuncia giunge ad affermare che la legge penale italiana sarebbe applicabile allo straniero, che ha commesso all’estero il delitto di cessione di armi da guerra, destinate a un altro Stato estero, solo se la condotta delittuosa si è realizzata , anche in minima parte, nel territorio italiano. A me pare che tale decisione sia troppo restrittiva e basata su una interpretazione asfittica delle norme vigenti. Quanto meno ha contraddetto una sua massima di qualche anno fa, che dice:" In tema di efficacia della legge penale nello spazio molti ordinamenti seguono il criterio della personalità attiva della legge, il quale chiama a rispondere il cittadino di ogni Stato dei reati da lui commessi, ovunque egli si trovi. L’orientamento prevalente del diritto internazionale è oggi quello della solidarietà degli Stati nella persecuzione dei reati, ovunque commessi; pertanto il concetto del giudice naturale, inteso come giudice del luogo dove il delitto è stato commesso, non esiste neppure in embrione nel diritto intemazionale vigente" (Cass. Sez. I, 2521/72).
Pensarla diversamente oggi significa oggettivamente favorire il traffico di armi.