Informatica a scuola: i computer ci sono, il resto manca
I miliardi della Provincia, la confusione degli obiettivi, i volontarismi degli insegnanti innovatori, le resistenze di quelli che temono di essere obsoleti. Un’inchiesta sui tanti problemi che apre l’introduzione dell’informatica nella scuola trentina.
"A scuola abbiamo un laboratorio d’informatica e uno multimediale: bellissimi. Ma alcune classi vi entrano solo per il giro turistico del primo giorno di scuola; in altri casi i professori lo utilizzano soprattutto come una videoconferenza, proiettano sullo schermo grafici ecc, e lo studente sta davanti al monitor a guardare e basta" - ci dice Alessandro del Liceo scientifico Galilei, studente ineccepibile, recentemente premiato alle olimpiadi nazionali di fisica - Nella didattica dell’informatica siamo enormemente indietro."
"E’ vero - conviene Francesco Mulas, docente al liceo Da Vinci e presidente del Git, Gruppo insegnanti per la teledidattica - Purtroppo l’informatica a scuola è spesso utilizzata, quando viene utilizzata, come un mero ulteriore sussidio audiovisivo. Quando invece.."
Quando invece... Il fatto è che la Provincia ha speso miliardi in computer e laboratori; ed ha fatto bene. Ma l’utilizzo di questo ben di dio è lasciato alla spontanea buona volontà del singolo docente, anzi di alcuni docenti, che da soli o in piccoli gruppi si arrabattano su come inserire nella didattica le nuove strumentazioni.
Per approfondire questi problemi abbiamo svolto una piccola inchiesta fra studenti e insegnanti di quattro scuole superiori della provincia, che nel loro insieme forniscono una panoramica della varietà degli istituti: a Trento il Liceo classico "Prati", lo scientifico "Da Vinci", il tecnico per geometri "Pozzo", a Rovereto l’Iti per periti elettronici e informatici "Marconi". Nelle relative quattro schede (nelle pagine successive) sintetizziamo la situazione come noi l’abbiamo rilevata: della dotazione di strutture da una parte, e dell’offerta didattica dall’altra.
Il fatto vero è che grande è la confusione nelle nostre scuole. Innanzitutto confusione di obiettivi: non è chiaro se è utile insegnare l’informatica a scuola, non è chiaro cosa insegnare, non è chiaro come insegnare. Scusate se è poco.
"A usare le macchine gli studenti imparano sostanzialmente da soli - ci dice il prof. Salvatore Magrì, docente al "Prati" - Ed è giusto così; il compito della scuola superiore, soprattutto di un liceo che ha a disposizione studenti mediamente intelligenti, è quello di evolvere le loro capacità attorno a contenuti di un certo livello. Ad aprire e chiudere un file, un ragazzo intelligente ci arriva da solo; noi dobbiamo portarli oltre, a saper ragionare autonomamente."
Il primo livello del problema è l’informatizzazione di base: aprire e chiudere i file, imparare i programmi più semplici. Ma si deve confidare che gli studenti imparino da soli, confidando che abbiano il computer a casa? Se l’informatica è oggi uno strumento essenziale, non è precipuo compito della scuola pubblica fornire queste conoscenze? Non è che altrimenti, dando per scontato l’apprendimento autonomo, si inizia subito con il discriminare i figli dei poveri cristi, che a casa non hanno né il computer, né chi gli insegni ad usarlo?
"Al giorno d’oggi un’organizzazione scolastica al passo con i tempi dovrebbe fornire un’informatizzazione di base nella scuola dell’obbligo - afferma Jacopo, studente del Da Vinci - Questo però attualmente non avviene. Si dovrebbe recuperare alle superiori: ma non sempre succede."
"E’ vero, tanti studenti imparano da soli a usare il computer, ma questo non esaurisce i compiti della scuola - puntualizza il consigliere provinciale (Ds) Vincenzo Passerini, già assessore all’istruzione in una breve stagione riformatrice, accolta con grande interesse dall’insieme della scuola trentina - La scuola questi strumenti deve insegnare ad usarli, né più né meno di come bisogna insegnare ad usare l’enciclopedia e il vocabolario. Altrimenti nei giovani non sviluppiamo lo spirito critico, anche verso il computer e li consegnamo alle mode, sia culturali che consumistiche."
E qui arriviamo al secondo livello del problema: insegnare l’uso critico delle nuove tecnologie. In maniera che esse siano uno strumento, nuovo e potente, utilizzato per far fare passi avanti alla didattica dell’insieme delle altre materie: di queste possibilità diamo alcuni esempi nella scheda qui sopra.
"Bisogna distinguere, tra gli istituti tecnici e i licei - afferma il prof. Enzo Bianchi, del Da Vinci - Nei primi ci sono materie in cui l’uso degli specifici programmi informatici dovrebbe essere obbligatorio: per esempio AutoCad per i geometri o i fogli elettronici per i ragionieri (per chi non padroneggiasse la terminologia, vedi la scheda soprastante) sono i nuovi strumenti di lavoro, oggi assolutamente imprescindibili. Poi ci sono i licei, le materie umanistiche, dove le innovazioni didattiche sono meno stringenti e immediate. E lì tutto è lasciato alle singole capacità, creatività, buona volontà dell’insegnante."
Scindiamo anche noi il problema. E vediamo un istituto tecnico come i geometri, dove l’insegnamento del disegno tecnico elettronico (AutoCad) è oggi indispensabile: i diplomati che non lo padroneggiano, se vogliono lavorare nel settore devono poi arrancare seguendo corsi privati dal costo di alcuni milioni. La scuola si è trovata in difficoltà; alcuni insegnanti proprio non volevano saperne di imparare/insegnare a disegnare con il computer, sono sorte fortissime tensioni, e alla fine si è arrivati a una soluzione che in qualche maniera salva capra e cavoli: i docenti tradizionalisti continuano a usare solo matita, china e squadretto, AutoCad viene insegnato in qualche altra materia e\o in corsi pomeridiani appositamente costituiti.
Nelle altre scuole, in cui non c’è, stringente, la pressione del mercato del lavoro, il problema-informatica si pone in altri termini. Più blandi, ma anche, purtroppo, meno chiari.
Perché oggi la chiarezza inizia ad esserci nei docenti che più si sono spesi in proposito: "Il discorso non è più l’introduzione dell’informatica, e meno che mai l’introduzione della programmazione - ci dicono con analoghe parole sia i professori del Git (gruppo insegnanti per la teledidattica) che l’ex-assessore Passerini - il punto è arrivare ad un’utilizzazione degli strumenti informatici all’interno delle varie discipline" (per gli esempi, vedi ancora la scheda).
Il fatto è che nelle scuole ci sono esperienze anche significative cui poi accenneremo, ma nell’insieme manca la consapevolezza che questo sia l’obiettivo. Anche perché la confusione è venuta dall’alto, dai programmi ministeriali: esiste un Piano Nazionale dell’Informatica, che prevede l’insegnamento, nelle varie scuole, della programmazione, attuata soprattutto attraverso il linguaggio Pascal. E qui proprio non ci siamo, perché la disciplina è impegnativa e al contempo assolutamente inutile: il futuro medico, ingegnere, ragioniere, deve saper usare i programmi, non costruirli; sarebbe come se nella scuola guida insegnassero a progettare un’automobile.
"Non sono d’accordo - obietta il prof. Magrì del Prati - l’insegnamento della programmazione è formativo, costringe al rigore logico."
Secondo noi (con tutto il rispetto per Magrì, che nella sua scuola si sta adoperando per innovare la didattica) questa però è ancora una visione tradizionale, soprattutto italiana, del sapere, una sorta di culto dell’inutile, per cui si ritiene formativo soprattutto ciò che non serve, a iniziare dalle lingue morte da qualche millennio. Ma se questa impostazione, pur con affanni vari sopravvive ancora nella cultura umanistica, frana invece, alla prova dei fatti, nell’impatto con le discipline tecniche. L’insegnamento della programmazione è stato infatti un fiasco clamoroso: "La programmazione ci è stata insegnata tendendo soprattutto allo sviluppo delle capacità logiche: il corso veniva tenuto da una prof di matematica, in maniera del tutto astratta, e difatti anche lei con il computer aveva scarsa dimestichezza. Non è stata un’esperienza positiva" ci dice Jacopo del Da Vinci; "Al biennio c’era programmazione attraverso il linguaggio Pascal: la prof era preparata, ma si trattava di un argomento poco concreto, di cui non si vedeva alcuna finalità; la classe si è messa a fare casino e la prof, dopo un certo periodo, è tornata alla matematica" - raccontano Carlo e Andrea del Pozzo; "Anche noi al ginnasio abbiamo avuto delle lezioni in aula computer per imparare il Pascal - ci dice Elisa del Prati - Risultato zero: non solo non abbiamo imparato a programmare, ma nemmeno alcun rudimento sull’uso delle macchine."
Il Piano Nazionale dell’Informatica è stato quindi un fallimento totale. Probabilmente perché, con l’insegnamento della programmazione, pensava di risolvere il problema dell’informatica recintandolo, ed eludendo invecedue ordini di problemi, grandi come una casa.
Il primo problema è il superamento della secca separazione - tutta italiana, risalente a Benedetto Croce - tra cultura tecnica e cultura umanistica: se l’informatica deve contaminare le altre discipline, modificandone la didattica, questo implica un mutamento di mentalità. "E’ dura - ci dice Anna, studentessa del Prati - Tra i prof il computer viene visto come nemico dell’uomo, che ne diventa schiavo; come banale facilitazione, perchè secondo loro se faccio una ricerca su Internet devo solo cliccare copia/incolla; come macchina diabolica che soppianta il buon vecchio libro. Ora a me i libri piacciono, e più sono grandi e antichi più hanno fascino; ma il computer ti apre altre possibilità... Questo rifiuto da parte della maggioranza dei docenti è scarsamente comprensibile; in realtà temo che, almeno nella mia scuola, sotto sotto ci sia una repulsione per tutto quanto è moderno."
Correlato a questo c’è il secondo problema, l’aggiornamento degli insegnanti, le resistenze al nuovo. Resistenze a rimettersi in discussione, a dover imparare di nuovo, da capo.
"E’ una questione di età, non riescono a imparare... - sorridono dei loro docenti con un tocco di paternalismo Jacopo e Alice del Da Vinci - Da noi c’è l’insegnante che non riesce neanche a usare il videoregistatore..." "A dire il vero i prof sono abbastanza attratti dalle nuove prospettive didattiche che gli offrirebbe il computer - affermano gli studenti del Pozzo - i più però sono sostanzialmente impreparati: conoscono solo approssimativamente l’uso del software, e soprattutto non sanno insegnarlo."
A volte sono problemi drammatici. Se mi è concesso il ricordo di un’esperienza personale, quando insegnavo Topografia, rammento i miei colleghi più anziani, austeri ingegneri che identificavano se stessi nella rigorosa conoscenza della Tecnica; si opposero ferocemente all’automatizzazione del calcolo, all’avvento delle calcolatrici elettroniche che soppiantavano le tavole dei logaritmi; ovviamente persero, la battaglia e la guerra; diventarono loro obsoleti e probabilmente, identificandosi con la Tecnica, si sentirono inutili: e nel giro di pochi anni sparirono tutti. Il patrimonio culturale, l’identità delle persone è una cosa dannatamente seria.
Lo sanno bene al Ministero dell’Istruzione: e per non incorrere in troppi ostacoli (a inziare da quelli - tenaci - messi in campo dai sindacati) quando varano un’innovazione la fanno sempre aggiungendo. Non si sopprime mai niente, si aggiunge: programmi, materie, ore; tutti i corsi cosidetti "sperimentali" hanno l’orario dilatato al pomeriggio.
Ma si può andare avanti così? No, e a Roma lo sanno. E confidano nella nuova, feroce concorrenzialità fra le scuole: l’autonomia scolastica unita al calo demografico stanno spingendo le scuole a disputarsi gli studenti; l’aggiornamento di programmi e docenti sarà imposto dalla forza delle cose.
In effetti non mancano le esperienze positive. Al Da Vinci in Filosofia e Storia si sono fatte ricerche confrontando e traducendo documenti su Internet su grandi argomenti tipo la pena di morte, o l’Olocausto, o la Resistenza, pubblicando poi i risultati e diffondendoli via Hot-mail. Analoga esperienza, sempre sulla pena di morte, al Pozzo, nelle ore di Religione. E ancora al Pozzo è stata aperta una bacheca elettronica, cui possono accedere gli studenti dai vari computer nei laboratori, in biblioteca, e si sono sviluppati dibattiti, referendum (con nuovi problemi: in un dibattito sull’immigrazione, è opportuno diffondere un intervento esplicitamente razzista, peraltro firmato con il nome e cognome dello studente?) e più prosaicamente annunci compro\vendo.
L’esperienza però più significativa è quella di un istituto apertamente orientato all’informatica, l’Iti Marconi di Rovereto (vedi scheda). E’ proprio questo specifico orientamento che ha concentrato nell’istituo studenti e docenti orientati alla materia e all’innovazione.
I risultati sono notevoli: abbiamo trovato docenti motivati e alunni interessati che - separatamente - ci hanno raccontato di varie esperienze di rapporti con le aziende locali (presso cui si fanno stage, e dalle quali praticamente tutti gli studenti trovano subito lavoro), le realtà culturali del territorio (cui la scuola fornisce materiali progettati ad hoc, un ipertesto sulla storia del volo per il Museo Caproni, una gestione automatizzata degli archivi per una biblioteca...), altre scuole a livello nazionale (con cui gli studenti scambiano, via Internet, lezioni su specifici argomenti tecnici, reciprocamente corrette e commentate). Ma queste esperienze sono per forza destinate a rimanere recintate a un Iti dedicato all’informatica?
"Credo che ogni stagione culturale tenda a produrre un suo modello formativo; e che l’attuale stagione possa produrre un modello che unisca lo studio umanistico - che è il notro patrimonio - e l’uso intelligente delle nuove tecnologie" - risponde Passerini. Certo, c’è il problema dell’aggiornamento degli insegnanti "che non può essere più lasciato alla casualità dei corsi di aggiornamento, globalmente risultati inadeguati. Io avrei un progetto: formare una trentina di persone, soprattutto insegnanti distaccati per 3-4 anni, che da insegnanti, in modo sistematico, scuola per scuola, aggiornino i docenti. Non solo. Per uscire dall’attuale fase di spontanee esperienze isolate, andrebbe istituito un Polo della Formazione degli Insegnanti, a Rovereto: in cui, accanto all’Università e all’Iprase, dovrà esserci un Centro di Documentazione, che da un lato dovrà fornire la documentazione di tutto quanto di innovativo si produce nel campo della didattica, dall’altro servirà a confrontare, sedimentare i progetti e le esperienze. Lì le scuole, gli insegnanti troverebbero un punto di riferimento, questa sarebbe la grande innovazione della provincializzazione della scuola."
Queste le idee di Passerini, ex-assessore. Su questi temi abbiamo chiesto un colloquio con l’assessore in carica, Molinari: si è dichiarato interessato, abbiamo concordato l’appuntamento e i dati che avrebbe chiesto ai funzionari; poi non siamo più riusciti a parlare con lui: l’abbiamo rincorso per una settimana tramite il suo segretario particolare, ma l’assessore era irraggiungibile.
Forse il neo-assessore, inopinatamente catapultato all’istruzione, con il tempo si farà.
Spes ultima dea.