Il nuovo mondo tripolare
L'aggressività americana, la cautela russa, l'espansionismo cinese. E l'irrilevanza europea.
Questo fine anno 2021, funestato dalle nuove ondate pandemiche, forse ci lascia sperare in prospettive migliori sul piano della politica internazionale. Il mondo presenta vari punti di crisi, due principalmente preoccupano: il Donbass, pomo della discordia tra Russia e Ucraina, e motivo di una forte campagna di minacce e sanzioni anti-russe promosse dagli Stati Uniti (subito appoggiata dai paesi europei); e poi Taiwan, l’altra Cina, quella nazionalista gelosa della sua indipendenza e prosperità, al centro dalla presidenza Trump in poi di polemiche roventi tra gli USA e la Cina. Questi due problemi si sono per così dire incancreniti e non mancano voci pessimiste tra gli analisti che prevedono persino un possibile scontro aperto tra le tre superpotenze in gioco: Cina, USA e Russia.
L’altro grande eterno scacchiere di scontro (indiretto) tra superpotenze è il Medio Oriente, dove pure negli ultimi tempi si sono viste novità almeno per una volta incoraggianti (negoziati di Vienna sul nucleare iraniano, accordi di Baghdad tra Arabia Saudita e Iran). Questi tre grandi teatri della geopolitica odierna hanno in comune l'onnipresenza di un attore, attivo su tutti e tre: gli Stati Uniti. Nella questione del Donbass gli USA (con la Gran Bretagna, fedele servo sciocco) sono intervenuti sostenendo l’Ucraina con il peso della loro tecnologia, dell’intelligence e persino inviando consiglieri militari, ma soprattutto lasciando intendere che non sarebbero rimasti con le mani in mano in caso di invasione da parte dei Russi. La Russia di Putin è, non a torto dal suo punto prospettico, allarmata dalla costante espansione della NATO nel suo ex-cortile di casa, con missili e basi stazionati in Polonia e nei paesi Baltici, cioè a ridosso della frontiera, qualcosa che richiama, ma a parti invertite, la famosa crisi dei missili russi a Cuba negli anni '60. E Putin ha fatto capire che l’Ucraina è la sua linea rossa: non sarà tollerato che l’Ucraina venga accolta come membro della Nato o che a qualsiasi titolo essa ne possa ospitare postazioni missilistiche o basi militari. Questo significherebbe che l’Ucraina verrebbe invasa e riportata manu militari nell’ovile russo. Sul secondo teatro, quello mediorientale, USA e Russia sono pure in posizioni confliggenti. Gli Stati Uniti, dopo la ritirata ingloriosa dall’Afghanistan, sono impegnati a mostrare i muscoli per far capire che gli interessi americani (e israeliani) nell’area saranno difesi se necessario con la forza. Di qui le manovre navali congiunte delle marine militari israeliana e degli Emirati Arabi, col pieno supporto americano. In effetti l’America di Biden ha oggi un grosso problema di credibilità, soprattutto con i paesi arabi del Golfo che, dopo la ritirata dall’Afghanistan, dubitano che l’America li difenderebbe in caso di attacco proveniente dal loro storico avversario, l’Iran.
Quanto alla Russia, dopo l’eclissi patita nel periodo di Eltsin, è da tempo tornata in forze in Medio Oriente. Essa sostiene militarmente dalla sue basi in Siria il regime di Assad, che ha ormai avuto partita vinta, grazie all’aiuto dell’aviazione russa e dell’esercito iraniano, sulla insurrezione interna innescata ad arte dalla Francia e dagli USA e poi per un certo tempo egemonizzata dall’ISIS. Oggi l’ISIS in Siria è sconfitto, ma truppe USA continuano illegalmente a occupare la Siria orientale (quando mai se ne parla nei nostri tg?) per i suoi campi di petrolio, in collaborazione con movimenti armati kurdi. Nel frattempo Israele bombarda giornalmente (sempre nel totale silenzio dei media mainstream) le posizioni dell’esercito siriano e delle milizie filo-iraniane presenti nel paese.
La Russia si muove in questo scacchiere con cautela e molto calcolo, lasciando via libera alle milizie pro-Assad che attaccano i convogli militari USA per indurre gli americani, considerati predatori del petrolio siriano, a lasciare il paese. Al contempo però i Russi non fanno granché per fermare i raid dell’aviazione israeliana, che sono serviti a rallentare, ma non a fermare l’espansione dell’influenza iraniana nel paese. Il gioco russo è molto ambiguo, ma non indecifrabile: il sistema bancario d’Israele, con la sua cospicua e potente presenza di ebrei russi, costituirebbe secondo alcuni osservatori uno dei gangli vitali della strategia anti-sanzioni americane messa in atto da Putin, che di conseguenza non avrebbe interesse a guastarsi con il governo di Tel Aviv, né a passare per un difensore ad oltranza della politica espansiva degli ayatollah.
Infine nel terzo teatro, quello di Taiwan, gli USA stanno portando avanti una politica di provocazione anti-cinese a più livelli: manovre militari nel mare che separa le due Cine, sfruttamento strumentale della questione dei diritti umani a Hong Kong e delle minoranze uighura e tibetana, blocco della importazione di tecnologie sensibili (si ricordi il caso Huawei) e via dicendo.
Tirando le somme di questa breve e sommaria rassegna, appare evidente un dato: la politica estera americana è all’attacco su tutti fronti per cercare di contenere la Russia e la Cina con ogni mezzo a disposizione: da quelli militari a quelli diplomatici (politiche di ricatto verso gli alleati europei recalcitranti), dalla politica delle sanzioni a quella del blocco tecnologico.
L’Europa, superpotenza mancata, si trova a mandare giù un boccone amaro dopo l’altro: dopo aver dovuto rinunciare a buona parte dei suoi affari con la Russia - frutto di una saggia politica di apertura verso est, che partiva dalle aperture di De Gaulle e dalla Ost Politik di Willy Brandt – si è dovuta rassegnare alla irrilevanza strategica su tutti i principali tavoli: dal Donbass al Medio Oriente, solo per limitarci a quelli di più immediato interesse. Particolarmente umiliante è la sua irrilevanza proprio nel mondo mediterraneo e mediorientale, dove sono emerse altre potenze regionali, Israele certamente, ma anche la Turchia e l’Iran, due paesi che oggi dispongono persino di tecnologie militari di tutto rispetto (si pensi ai droni militari turchi, venduti all’Azerbaijan e persino all’Ucraina, o ai missili iraniani, da quelli militari a quelli che lanciano in orbita satelliti). Gli USA oggi trattano in Medio Oriente solo con Israele e Arabia Saudita, non certo con l’Europa. A Vienna, dove il 27 dicembre è ripreso l’ennesimo giro di negoziati tra Iran e USA sulla questione nucleare, gli europei fanno solo da spola tra i negoziatori americani e quelli iraniani che sinora si sono rifiutati di sedere allo stesso tavolo con gli americani finché Biden non sospenderà le sanzioni. Insomma, questo fare da spola fotografa perfettamente lo stato della diplomazia europea. Gli iraniani si erano recentemente presentati a Vienna con nuove proposte, respinte dagli americani, e agli europei, come sempre servilmente appiattiti sulle posizioni americane, avevano chiesto in sostanza: cosa ci state a fare se non siete in grado di proporre uno straccio di proposta di mediazione? Pare ora che una proposta di mediazione sia stata prodotta infine, ma viene dalla Russia, non dall’Europa.
Le ragioni di questa debolezza per non dire impotenza assoluta degli europei sui tavoli che contano sono molteplici, basterà qui soltanto ricordare che l’Europa non ha una politica di difesa comune e tanto meno un esercito comune; e che l’ “Alto commissario per la politica estera” dell’Unione Europea non decide nulla, ma soltanto ascolta i paesi membri (i più forti naturalmente), tentando quando può di arrivare a una di solito debole sintesi.
La politica estera europea ai tempi di De Gaulle, Willy Brandt e del buon vecchio Andreotti aveva due direzioni: est e sud. Guardava a est, alla allora Russia comunista, con cui al di là delle differenze ideologiche conveniva fare affari (si ricordi la famosa Togliattigrad, la città della Fiat russa, costruita anche con i buoni uffici del PCI che trattava sottobanco con quel vecchio capitalista di Gianni Agnelli); e guardava a sud, alla Libia di Gheddafi, al Maghreb, all’Egitto di Nasser e di Sadat. Questa politica estera permetteva all’Europa di restare nella NATO ma salvaguardando la sua autonomia; anzi, persino la nostra Italietta poteva liberamente fare affari con la Russia sovietica e con i vari dittatori arabi della riva sud del Mediterraneo. Questa politica estera autonoma, portata avanti anche da Craxi e Berlusconi (chi non ricorda gli affari con Putin nella sua dacia o quelli con Gheddafi tra un bunga-bunga e l’altro?), ha avuto il suo mesto epigono nell’accordo stretto dal primo governo Conte con la Cina per il porto di Trieste, che poco dopo fu messo in naftalina e definitivamente cancellato da Draghi.
È notizia di poche settimane fa che la Russia di Putin, prendendo l’iniziativa, ha proposto un nuovo patto di non aggressione alla Nato. Una mossa intelligente che ha messo in crisi l’apparato propagandistico degli USA-NATO tutto imperniato sull’idea che “i Russi ci minacciano”, a cui peraltro la propaganda russa ha avuto gioco facile nel rispondere più o meno: noi non abbiamo messo i nostri missili ai confini americani, sono i missili NATO che stanno ai nostri confini. Comunque gli USA hanno abbozzato perché hanno capito che in questa fase è l’Orso russo che dà le carte e nuovi colloqui si preparano partendo proprio dalla proposta russa. Se prenderanno una piega positiva, è probabile che anche le questioni irrisolte nel Medio Oriente rientreranno nel tavolo delle trattative e che ne possa derivare una spinta decisiva verso un nuovo, si spera più pacifico assetto, in quel tormentato teatro.
Resta il nodo dei nodi, quello dei rapporti USA-Cina. La Cina è ormai dilagata a livello planetario come superpotenza tecnologica, finanziaria, industriale e commerciale. Le sanzioni e i blocchi tecnologici non servono a bloccarne l’avanzata inesorabile e gli USA ne sono consapevoli. Lo stesso Trump, dopo aver scatenato un boicottaggio su scala globale della tecnologia cinese, fece parzialmente marcia indietro. Biden si trova ora a decidere se riprendere con altri mezzi relativamente pacifici questa politica di contenimento dell’espansionismo cinese o se cercare una nuova Pearl Harbour a cui si presterebbe egregiamente, secondo certe analisi, un eventuale attacco cinese a Taiwan. Il cosiddetto“teorema di Tucidide” ci dice che la potenza dominante che vede un’altra potenza crescere e minacciare il suo dominio, tenderà ad attaccarla e distruggerla prima che ciò avvenga. Oggi tuttavia i tavoli di discussione tra USA e Cina sono ancora aperti e anche qui un compromesso è possibile secondo alcuni, difficile secondo altri. Chi vivrà vedrà.