La novità dell’era Biden: un bluff?
Il ritorno del militarismo USA e i pericoli per la pace mondiale
L’elezione di Joe Biden alla presidenza degli Stati Uniti, salutata in un primo momento con un gran sospiro di sollievo dai commentatori di mezzo mondo, si è rivelata a pochi mesi di distanza alquanto deludente, almeno per chi nutriva forti aspettative su una nuova politica estera a Washington.
Un mutamento era atteso su molti fronti: un miglioramento dei rapporti con la Cina anzitutto, il ritorno all’accordo sul clima, una revisione della politica mediorientale, un riavvicinamento all’Europa, tanto bistrattata da Trump. Come gli osservatori più scaltriti hanno fatto notare, alcune linee di fondo della politica estera americana non cambiano semplicemente perché c’è stato un avvicendamento alla Casa Bianca tra un repubblicano e un democratico. Sulle alleanze fondamentali e sui “nemici” di sempre la politica americana mostra di avere al massimo cambiato i toni, ma non la sostanza.
Prendiamo per esempio la Cina: presa di mira dall’ex presidente Trump con un profluvio di aumenti di dazi e sanzioni, resta l’avversario strategico numero uno degli Stati Uniti. Nessun dazio o sanzione è stato sinora tolto e anzi, la politica di Biden e del suo ministro degli esteri Blinken segue esattamente la linea trumpiana di contenimento, a tutti i costi, della crescente potenza economico-commerciale e tecnologico-militare di Pechino che – in assenza di contromisure – è destinata a superare gli Stati Uniti in un decennio.
Con la Russia le cose sono cambiate nello stile: se Trump, dovendo difendersi dall’accusa di essere stato aiutato dai servizi russi nella campagna elettorale che lo aveva portato al potere, aveva dovuto mostrare una (apparente) freddezza con Putin, ora Biden può invece liberamente dare sfogo alle tradizionali tendenze anti-russe dell’establishment democratico. Così Biden ha accentuato oltremodo la pressione propagandistica sulla Russia “nemica dei diritti civili”, pericolo per la pace, arrivando a dare del killer allo stesso Putin, con uno strappo al galateo diplomatico che nessun presidente americano aveva osato prima.
Ma è in Medio Oriente che la politica estera americana mostra con evidenza i suoi tratti di continuità con le amministrazioni precedenti. Anzitutto il patto d’acciaio con Israele e l’Arabia Saudita non è stato mai messo in discussione, anche se i sauditi si sono visti decurtare le forniture di armi destinate alla guerra contro lo Yemen, che Biden aveva promesso “per motivi umanitari” di non alimentare più allo stesso ritmo di prima.
Quanto a Israele, è vero che Netanyahu si è visto snobbato nel primo giro di telefonate che Biden aveva fatto a gennaio ai grandi della Terra dopo la sua elezione. Ma il primo ministro israeliano è rientrato comunque nel secondo giro, e ci è rientrato alla grande, in pratica riuscendo a bloccare il progettato ritorno degli USA all’accordo nucleare con l’Iran, l’arcinemico di Israele, una delle promesse elettorali di Biden. Il quale a suo tempo, stigmatizzando l’uscita unilaterale (nel 2018) di Trump dal trattato nucleare del 2015, aveva più volte lasciato intendere che appena eletto vi sarebbe tornato senza porre condizioni, e anzi sospendendo le sanzioni economiche pesantissime imposte da Trump all’Iran.
Come sappiamo, così non è avvenuto, perché adesso gli USA per rientrare nel trattato del 2015 pretendono di porre ulteriori condizioni all’Iran invece di levare le sanzioni di Trump, cosa che ha fatto dire ai vertici iraniani che per ora non si vedono differenze tra la politica del nuovo e del vecchio presidente.
Un ulteriore aspetto di continuità si è visto palesemente nella politica dei vaccini anti-Covid. E qui sono cadute molte illusioni europee: fidandosi dell’amico americano i paesi dell’Unione Europea hanno stretto accordi di importazione dei vaccini prodotti dalle aziende del Big Pharma targate USA o Regno Unito, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. I vaccini l’America di Biden se li tiene stretti, bloccando le esportazioni verso la imprevidente Europa, il tutto in perfetta continuità con il motto trumpiano “America first!”. Questo motto significa non solo prima l’America e poi gli altri, ma anche e soprattutto che gli americani manderanno i vaccini come, quando e soprattutto a chi vogliono, secondo una visione che privilegia una scala di priorità di tipo geopolitico, non certo umanitario.
Alla fine, forse l’unica novità dell’era Biden è il ritorno all’accordo sul clima di Parigi. Ma sarà un semplice ritorno, o Biden porrà condizioni anche per questo? Comunque sia, oggi è il clima generale dei rapporti tra USA, Russia e Cina a risultare pericolosamente avvelenato, è il clima dei rapporti USA-Europa a risultare quanto mai sfilacciato e deteriorato. E non basterà certo una conferenza a distanza per tornare a rapporti più distesi tra i grandi del pianeta, per ristabilire quel bene inestimabile che è il clima di fiducia tra le parti.
Torna la guerra fredda?
Ma forse il tratto più preoccupante della nuova era Biden è la politica militare. Trump, pur attraverso dichiarazioni contraddittorie, aveva avviato il ritiro dell’esercito americano dall’Afghanistan, dopo un faticoso accordo raggiunto con i Talebani. Persino in Irak e Siria l’ex presidente aveva iniziato un ridispiegamento delle truppe, eufemismo per “ritirata”, suscitando tra i Democratici e il cosiddetto Deep State (“Stato profondo”, che ricomprende i militari, lo spionaggio e l’apparato industriale-militare) molte critiche e perplessità. Ora Biden, appena installatosi al potere, ha dato il segnale di dietrofront a questa politica di sia pur graduale disimpegno militare da certe aree calde come il Medio Oriente, e non solo. Navi USA o della NATO sono entrate di recente nel Mar Nero a fare esercitazioni militari di fronte alla penisola della Crimea, una provocazione in piena regola secondo i russi, che lamentano anche ben altro. La NATO aizzerebbe l’Ucraina a una avventura bellica nel Donbass russo o nella stessa penisola di Crimea, mentre nel frattempo gran parte dei paesi dell’ ex-Patto di Varsavia di sovietica memoria sono entrati nell’orbita politico-militare degli Stati Uniti.
Alcuni di questi paesi ospitano già basi americane, praticamente a due passi dal confine russo. E i nuovi missili “ipersonici” americani, secondo gli esperti, potrebbero arrivare su Mosca in meno di 10 minuti.
La Russia ha risposto facendo sapere che i suoi sottomarini lanciamissili (nucleari) sono stati mandati a stazionare al largo della costa atlantica americana. I russi hanno persino lasciato filtrare una notizia su una nuova arma dalla potenza apocalittica: un gigantesco siluro teleguidato a propulsione nucleare, moderno Leviathan che può girare per anni indisturbato nelle profondità degli oceani e, producendo una esplosione atomica a poche miglia dalla costa, generare un vero tsunami in grado di seppellire sotto una montagna d’acqua le città della costa atlantica degli Stati Uniti.
Siamo così ripiombati in un clima da crisi di Cuba: oggi Russia e USA dispiegano minacciosamente la loro potenza nucleare, un po’ come farebbero due bulli del quartiere intenti a mostrarsi i muscoli.
Una analoga politica di provocazione militare è in atto in Estremo Oriente, nel Mar Cinese, ossia a due passi dalle coste cinesi, con periodico invio di navi lanciamissili e portaerei americane a pattugliare quei mari per “salvare la libertà di navigazione”. Più o meno con la stessa scusa, squadre navali americane, ogni tanto rinforzate da navi inglesi e francesi, pattugliano il Golfo Persico e il Mar Arabico. Di recente, tra la fine del 2019 e l’inizio del 2021, le marine militari di Russia, Cina e Iran hanno svolto esercitazioni militari comuni sotto il naso della U. S. Navy (la marina militare americana) in quelle stesse acque, per segnalare che gli americani non hanno più il monopolio della potenza marittima. Si aggiunge a questa sequela di notizie poco rassicuranti quelle della Nord Corea e dell’Iran che ultimamente, sperimentando nuovi e più perfezionati modelli di missili balistici, hanno voluto segnalare all’amministrazione Biden (e ai suoi alleati locali: il Giappone e Israele) che non si lasciano intimidire dallo strapotere militare USA.
Come si vede, alle manovre provocatorie dei comandi militari USA e NATO nel Mar Nero, nel Golfo e nei mari orientali, corrispondono contro-manovre del blocco avverso Russia-Cina-Iran-Nord Corea.
Si dirà che si tratta di semplici manovre militari, ma il punto è un altro: queste esibizioni muscolari, prima episodiche, ora sono diventate di routine e segnalano un peggioramento sensibile dei rapporti tra i due blocchi, alimentando in alcuni osservatori il timore che un confronto militare su scala globale sia ormai all’orizzonte di questo nuovo inquietante millennio.
Siamo tornati alla Guerra Fredda? Sì e no.
Certamente ormai vi sono, come allora, potenze che si fronteggiano brandendo armi nucleari; ma la novità è che non abbiamo più due soli paesi nucleari, la Russia e gli USA, ma due blocchi contrapposti in cui anche potenze minori (Israele e Nord Corea) posseggono armi nucleari, e minacciano di usarle senza chiedere il permesso a nessuno. Le notizie non di oggi della massiccia corsa al riarmo in USA, Cina e Russia, la forsennata sperimentazione di armi missilistiche ipersoniche, di bombe atomiche “tattiche” (faranno meno male?) e di siluri-monstre, non sono segnali che lasciano tranquilli.
Alcuni analisti divergono ormai solo sulla individuazione dei “Balcani del XXI secolo”, l’incidente che potrebbe scatenare un conflitto su larga scala: succederà in Ucraina-Crimea, o nel mare fra Taiwan e la Corea del Nord, oppure nel Golfo Persico?
Un errore di calcolo potrebbe accendere la miccia della santabarbara nucleare, per esempio una provocazione israeliana o nordcoreana cui rispondesse una ritorsione esagerata della parte lesa. E purtroppo i piromani non mancano né intorno alla Crimea, né dalle parti del Medio Oriente o del Mar Cinese.