Una boccata d'ossigeno per l'America Latina
La vittoria di Gabriel Boric in Cile
Oltre che manifestazioni trionfanti in tutto il Cile, l’affermazione di Gabriel Boric ha provocato una notevole euforia anche negli ambienti democratici e progressisti dentro e fuori dell’America Latina. Quasi che fosse stato in qualche modo ribaltato il tragico golpe, nonché il sacrificio di Salvador Allende del lontano settembre 1973. Il tutto nonostante il paese andino abbia già conosciuto governi regolarmente eletti, prima democristiani (Patricio Aylwin e Eduardo Frei) e poi socialisti (Ricardo Lagos e Michelle Bachelet), all’indomani della “abdicazione volontaria” del generale Augusto Pinochet del 1990. Che rimase a capo dell’esercito (per poi essere nominato senatore a vita) lasciando intatto uno schema di potere imperniato sulla sua costituzione, ancor oggi vigente, e sullo “stato minimo”, nel paese che inaugurò in Sudamerica la stagione dei chicago-boys (gli economisti cileni degli anni '70-'80, formatisi presso l'Università di Chicago, alla scuola dell’ultraliberista Milton Friedman). Che a sua volta ha assicurato al Cile un primato duraturo di stabilità e ricchezza nel subcontinente, ma al contempo livelli di disuguaglianza fra i più macroscopici.
Ci sono poi una serie di ragioni e analogie che fanno pensare a una vera svolta. Anzitutto il 35enne Boric (il più giovane capo di stato latinoamericano, prima ancora del twittero salvadoregno Nayib Bukele) ha già una storia di sostanziosa (nuova) sinistra, inaugurata come leader delle contestazioni studentesche a Santiago del 2011; per poi fondare il Frente Amplio (alleato del Partido Comunista) ed essere stato da ultimo fra i protagonisti della rivolta popolare di fine 2019. Con uno spirito aperto e pragmatico e dopo aver prevalso nelle primarie del giugno scorso come candidato presidente (cui all’inizio non voleva partecipare per “inesperienza”) è riuscito ad aggregare i settori meno abbienti, giovanili e delle donne; oltre che a guadagnarsi l’appoggio della composita Concertación de Partidos por la Democracia.
Non è un caso che Boric (già deputato), dopo essere arrivato secondo al primo turno, abbia ottenuto più voti di ogni altro suo predecessore con un balzo record dell’affluenza al ballottaggio fino a sfiorare il 56% delle preferenze. Dunque molto più legittimato dello stesso Allende, che nel 1970 (con la sua Unidad Popular e una legge elettorale ben diversa) vinse sulla destra di un soffio col 36% nell’unico turno, senza oltrepassare la necessaria soglia del 50%; e che per diventare presidente dovette riunire poi i voti di tutta l’opposizione in parlamento.
Certamente Boric è stato aiutato dalla nostalgica campagna elettorale impressa dal suo antagonista Josè Antonio Kast (figlio di un reduce nazista) del Frente Socialcristiano, all’insegna di “patria, famiglia, ordine e libertà”; e che era arrivato spudoratamente a ostentare a un certo punto che “Pinochet, se fosse vivo, mi voterebbe”. Spaventando così i moderati e ottenendo solo il voto degli ultraconservatori e delle aree rurali. A differenza del presidente uscente Sebastian Pinera, sostenuto da una destra più composita e scampato per un niente all’impeachment per essere coinvolto nei Pandora Papers.
Sta di fatto che da un punto di vista generazionale sono i nipoti dei nonni (e non i figli) a ricomporre mezzo secolo dopo un quadro di unità e di riscatto in questo caso nel paradigmatico Cile, che ha segnato la storia moderna della sinistra ben oltre i propri confini. Tanto che il giovane Boric ha subito parlato di “speranza che ha battuto la paura”. Per poi riprendere una storica frase di Allende: “I grandi viali si riapriranno affinché uomini e donne liberi possano percorrerli nella costruzione di una nuova società”.
Ma archiviare definitivamente il pinochetismo non sarà facile per lui, che quando il dittatore militare si “ritirò” aveva appena quattro anni; e che si insedierà nel Palacio de la Moneda l’11 marzo prossimo.
Le aspettative sono elevatissime, visto che dovrà accompagnare anzitutto il decisivo processo di riforma costituzionale che culminerà con un plebiscito entro la fine del prossimo anno e che è gestito dalla Convención Constituyente, presieduta dalla professoressa indigena mapuche Elisa Loncón. Dovrà poi tenere insieme (come Allende) una compagine di centrosinistra che va dai comunisti ai democristiani. Con questi ultimi che hanno annunciato che in principio si collocheranno all’opposizione, costringendo la coalizione di Boric, “Apruebo Dignidad”, a trovare ogni volta, soprattutto al senato, una maggioranza parlamentare.
Al di là delle problematiche economiche e di bilancio che dovrà affrontare, aggravate dalla pandemia, Boric è atteso al varco su due questioni emblematiche nella storia di un paese che inaugurò le ricette selvagge del neoliberismo in Latinoamerica: il superamento del sistema pensionistico gestito di fatto da soli privati; e il condono dei debiti di studio accumulati dai giovani per frequentare le università.
Per il resto il successo di Boric è un’incoraggiante boccata d’ossigeno per l’America Latina intera che vedrà il prossimo anno le elezioni in Colombia ma soprattutto nel Brasile (con Lula al momento in testa nei sondaggi) e dove timide quanto fragili compagini progressiste stanno governando in Argentina, Perù e Messico (e dal gennaio prossimo in Honduras); oltre ai governi bolivariani di Venezuela, Bolivia e Cuba; nonché del Nicaragua del nefasto Daniel Ortega, dal quale il neoletto presidente cileno ha preso più volte seccamente le distanze.