Problemi veri e false soluzioni
Il problema dell’Europa: si sono sgretolati i livelli di vita del 40% più povero dei cittadini. Le risposte giuste e quelle dannose.
Lo scontro tra sovranisti ed europeisti, è questa oggi la madre di tutte le battaglie in Europa. Una battaglia sacrosanta, che, affinché non sia vinta dai nazionalisti, richiede alle forze composite del fronte europeista non solo di fare fronte comune, ma anche di avere il coraggio di immaginare e lavorare per un’Unione profondamente riformata.
Non c’è dubbio che il processo di integrazione europea abbia portato importanti vantaggi economici. Si valuta infatti che il mercato unico, che fa in modo che il 66% del commercio europeo avvenga tra stati membri, contribuisca ad accrescere il Pil dell’Unione europea del 9% circa. Più in generale, è difficile non riconoscere che, in un mondo dominato da molteplici grandi attori, come Stati Uniti, India, Brasile, Russia, Cina e Giappone, gli stati europei riusciranno a fare sentire la loro voce solo se lavoreranno assieme. Si pensi a questioni come il cambiamento climatico, i flussi migratori, l’evasione fiscale transnazionale, il terrorismo: nessuno di questi problemi può essere risolto singolarmente dagli stati membri.
Come si spiega allora il vento nazionalista che soffia forte nel continente e che ha già fatto una vittima illustre, la Gran Bretagna?
C’è sicuramente molto di falso nel discorso dei nazionalisti. Dire, soprattutto in Italia, che l’Europa è la causa di tutti i mali è una grossa menzogna. L’Italia deve fare i conti con una serie di fattori endogeni che non hanno niente a che vedere con le decisioni prese a Strasburgo e Bruxelles: burocrazia, corruzione, evasione fiscale, inadeguatezza delle infrastrutture, troppe piccole imprese con capitalizzazione insufficiente, grandi imprese che non impiegano abbastanza persone, banche molto piccole e popolazione molto vecchia. Per non parlare delle politiche clientelari con cui è stata costruita la montagna di debiti su cui sediamo.
Detto ciò, sarebbe un grave errore liquidare l’ascesa del sovranismo come il successo di un gruppo di bugiardi nell’abbindolare persone che poco sanno dei meccanismi con cui funzionano le istituzioni europee. Il problema c’è, è l’elefante nella stanza che anche i nazionalisti fanno finta di non vedere: i livelli di vita europei si stanno sgretolando e si sono già per molti versi sgretolati.
Come viene affermato ad esempio nel volume “The New Power Elite: Inequality, Politics and Greed” (“La nuova élite: disuguaglianza, politica e avarizia”) (Anthem Press, 2018): “Siamo nella società del 20-40-40, dove il 20 per cento sta molto bene, il 40 per cento è più o meno stabile e un altro 40 per cento vede le sue condizioni peggiorare”.
Le cause di questa dinamica sono note: i servizi pubblici si sono degradati, è sceso il potere di acquisto e soprattutto, sono state introdotte forme contrattuali che hanno portato ad un aumento della precarietà, in particolare per chi svolge un lavoro poco qualificato. In altre parole, a fronte di un aumento costante del Pil, si è assistito a un peggioramento nella redistribuzione della ricchezza, con un aumento delle diseguaglianze che si è tradotto in una sperequazione economica senza precedenti.
L’Europa ha le sue colpe. All’aggravarsi della situazione ha contributo anche il modo inadeguato in cui è stato gestito l’ingresso nell’Unione dei Paesi dell’Est: nulla è stato fatto per evitare che i nuovi arrivati entrassero in competizione economica con gli altri stati membri. Questo ha così favorito vantaggiose delocalizzazioni per le imprese che cercano e trovano, all’interno della stessa Unione, manodopera a basso costo e minori protezioni sindacali.
O ancora, si pensi alla mancanza di una politica fiscale comune nell’Unione, che impedisce una tassazione armonizzata per le imprese e che, tra l’altro, consente alle multinazionali di pagare le tasse non là dove producono – come fanno tutte le altre imprese – ma là dove sono più basse.
Politicamente, buona parte della responsabilità è dei partiti socialdemocratici, che, con addirittura maggiore convinzione della destra di governo, hanno perseguito, a partire da Blair e Schroeder, una riforma dello stato sociale di cui si è visto solo lo smantellamento e non il rinnovo della componente di solidarietà.
Una volta che gli effetti della deregolamentazione del mercato si sono fatti sentire, le forze socialdemocratiche non sono riuscite a gestire le paure, ed ecco che molti che appartenevano alla base tradizionale della sinistra sono stati intercettati da una destra che propone uno stato sociale nativista e xenofobo. Una destra che illude i cittadini di proteggerli escludendo gli intrusi, ma che in realtà vuole solo bloccare la libertà di circolazione delle persone e non ha alcun progetto per migliorare la distribuzione della ricchezza.
La redistribuzione della ricchezza può avvenire più facilmente in una cornice europea. È sì vero che la globalizzazione e di conseguenza il processo di integrazione europea, che fa parte di questo fenomeno, ha favorito la diffusione della concorrenza sleale tra stati sul piano sociale e quello fiscale. Ma è anche vero che l’Unione europea ha in sé il potenziale per chiudere il vaso di Pandora e stabilire degli standard comuni che fermino questa corsa al ribasso.
Non è certo la situazione attuale, ma qualcosa, non abbastanza, si sta muovendo in questa direzione: si pensi ad esempio alla decisione del 2016 della Commissione europea di denunciare l’accordo (obbligando anche al pagamento delle tasse arretrate) tra Apple e lo Stato irlandese, che permetteva alla multinazionale di pagare meno dell’1% di tasse sui profitti.
Il destino della sinistra e quello dell’Unione europea sono quindi strettamente legati tra loro: la sinistra sarà europea o non sarà, l’Unione europea sarà più sociale o non sarà più.
Più Europa
Ma come passare dalle parole ai fatti? Bisogna procedere convintamente verso la trasformazione dell’unione economica e monetaria in un’unione politica e sociale. Le idee concrete sul da farsi non mancano: dare più poteri al Parlamento europeo, tassare effettivamente le imprese (gli stati membri dovrebbero avere aliquote fiscali uniformi), introdurre dei titoli comuni europei, un’assicurazione europea contro la disoccupazione, dei fondi di investimento per i cittadini, sviluppare una politica comune in materia di asilo e immigrazione, creare un esercito comune (con scopi esclusivamente difensivi). Tutte cose che necessitano un’ulteriore cessione della sovranità. È disperante pensare che si debba attendere che tutti gli stati membri si mettano d’accordo, soprattutto oggi che i nazionalisti hanno il vento in poppa.
Per questo, ritengo che la più grande speranza per l’Unione di uscire dall’attuale palude sia la cosiddetta “integrazione a più velocità”, formula che indica la volontà di alcuni stati membri di cooperare al di fuori dei trattati per integrarsi ulteriormente. È quello che Germania e Francia stanno già facendo, con la firma nei mesi scorsi del trattato di Aquisgrana, che aumenta la cooperazione in campo economico e militare tra i due paesi.
È attraverso l’integrazione a più velocità che l’Europa sociale può trasformarsi da vuota promessa in progetto per il futuro. In questo senso, una proposta molto concreta per risolvere al contempo il deficit democratico delle istituzioni europee e aggredire la questione delle diseguaglianze è contenuta nel trattato “Per democratizzare l’Europa”, documento recentemente elaborato da un gruppo di esperti che fa capo all’economista francese Thomas Piketty. Questo documento, al quale gli stati membri possono scegliere di aderire senza modificare gli altri trattati che li legano, propone, tra le altre cose, l’istituzione di un bilancio europeo quattro volte superiore a quello attuale, attraverso imposte sui benefici delle multinazionali, sui redditi elevati e i grandi patrimoni, oltre che sulle emissioni di CO2. Un bilancio che dovrebbe servire principalmente per affrontare la transizione ecologica, gestire il fenomeno migratorio e investire in formazione e ricerca.
Quale gruppo di stati sarebbe davvero pronto ad appoggiare un tale piano? Con l’Inghilterra alla porta e l’Italia in mano ai sovranisti, Francia e Germania sono la coppia che può ancora dare una spinta al progetto in integrazione. Che le potenzialità si traduca in azione, però, è tutto da vedersi. La Germania di Angela Merkel ha bloccato a lungo uno sviluppo dell’Europa in chiave federativa e solidale. In Francia Macron, anche di fronte alla protesta dei gilet gialli, sembra più disposto a spingere per una riforma in chiave sociale.
La speranza è che il costo ormai sempre più difficilmente sopportabile dello status quo, convinca soggetti europeisti, anche se di colore politico differente, a fare un passo verso un’unione sociale e politica. È un cammino lungo e stretto, ma l’idea europea, ovvero il sogno di una società aperta, plurale, più giusta e meno diseguale, sarà, per coloro che vorranno seguirla, la stella polare in un’epoca in cui il buio dei nazionalismi minaccia di calare di nuovo.