L’ora dei Verdi?
Gli ecologisti tedeschi ambiscono a diventare una Volkspartei, ma per ora entusiasmano solo ceti istruiti e urbani
Un’onda verde investe la Germania. Il partito ecologista Bündnis 90/Die Grünen (Alleanza 90/I Verdi) è in costante crescita, al 19 per cento nei sondaggi, secondo solo ai cristiano democratici della cancelliera Angela Merkel. Un exploit confermato dal voto, con i risultati a doppia cifra ottenuti in autunno in Baviera e Assia, che un po’ sorprende se comparati al “misero” 8,5 per cento ottenuto alle ultime elezioni federali del 2017.
Da allora il partito non si è distanziato di molto dalle posizioni centriste che aveva assunto nel tentativo di formare un governo di coalizione con la Cdu/Csu di Angela Merkel e i liberali della Fdp, all’indomani del voto. Un tentativo andato a vuoto, principalmente a causa dei liberali, che ha riconsegnato alla Germania la grande coalizione tra cristiano democratici e socialdemocratici.
Ma se i Verdi non sono cambiati, quali sono le ragioni del loro successo? La risposta sta probabilmente nelle difficoltà che sta attraversando il governo, soprattutto la sua componente socialdemocratica, con la presidente del partito Andrea Nahles e il vice-cancelliere Olaf Scholz che hanno profondamente deluso la base. Non a caso, la maggior parte dei nuovi elettori dei Verdi provengono dall’area dell’Spd e, in secondo luogo, da quella della Cdu/Csu.
In una Germania in cui l’ascesa dell’estrema destra dell’Afd (Alternative für Deutschland, Alternativa per la Germania) preoccupa sempre di più, il successo dei Verdi è l’altro lato della medaglia, la reazione cosmopolita alla deriva nazionalista.
Basterà per diventare il primo partito del paese? Non è detto.
Da sessantottini a borghesi
I Verdi tedeschi sono figli di quella che oggi verrebbe definita “antipolitica”. Nati negli anni Ottanta, capitalizzarono la frustrazione diffusa nei confronti della politica tradizionale. Pacifisti, ecologisti, femministi, sostenitori della democrazia diretta; nel nuovo soggetto politico si riconobbero coloro che in quegli anni temevano il rischio di una tragedia nucleare, ma anche molti ex-giovani del Sessantotto.
Si autodefinirono un Anti-Parteien-Partei, un “partito anti-partiti”. Erano volutamente trasgressivi, nella sostanza ma anche nella forma. Quando Joschka Fischer divenne il primo verde a ricoprire un’importante carica istituzionale, come ministro dell’Ambiente nello stato federale dell’Assia, nel 1985, fece scalpore per le scarpe da ginnastica bianche che indossò in occasione del giuramento. Era l’inizio di una nuova era politica: in aula i deputati verdi sdoganarono uno stile casual, fatto di jeans, barbe, ma anche biberon e animali.
Il movimento maturò insieme ai suoi esponenti. Nel 1998 i Verdi entrarono nel governo federale guidato dal socialdemocratico Gerhard Schröder. Joschka Fischer divenne ministro degli esteri e vice-cancelliere e si trovò a dover sacrificare gli ideali pacifisti, avallando la missione militare tedesca del 1999 in Kosovo. Da ribelle a moderato: la metamorfosi di Fischer fu anche quella del partito.
Una metamorfosi che si intrecciò con l’arrivo di Angela Merkel al potere, soprattutto dopo il disastro nucleare di Fukushima, nel 2011. Da quel momento, la cancelliera divenne apertamente contraria all’energia nucleare e avviò una svolta ecologista.
I Verdi, sospinti dal successo dei loro temi tradizionali, allargarono lo spettro delle loro lotte: non solo questioni ecologiche e cambiamento climatico, ma anche educazione, giustizia sociale e politiche dei consumatori.
Oggi la stella polare è l’accettazione della società multiculturale, vero collante di una base elettorale costituita da un ceto benestante, urbano, con un’istruzione superiore e residente in larga parte nella Germania occidentale.
Un cosmopolitismo che si traduce in progressismo a tutto campo quando si parla di diritti. Gli ecologisti tedeschi, infatti, sostengono senza esitazione pari opportunità per donne e uomini e per gli immigrati, l’abbattimento delle barriere a favore di disabili e anziani, e si oppongono alla discriminazione di razza, di religione e degli omosessuali.
Sul piano economico, invece, mentre una volta i Verdi gridavano contro il capitalismo e i danni ambientali che questo provoca, oggi presentano, con toni pacati, prospettive pragmatiche, centriste, che piacciono all’industria tedesca.
Vogliono la chiusura delle centrali per la produzione di energia elettrica che utilizzano il carbone, ma questo deve avvenire in maniera graduale (entro il 2030) e socialmente responsabile, senza provocare disoccupazione in quelle regioni dove il carbone è ancora centrale. Lo stesso vale per la transizione energetica, con il passaggio al 100 per cento di energia rinnovabile previsto solo entro il 2050.
Obiettivi sui quali parte dei vertici del partito è addirittura disposta a negoziare, come nel caso di Winfried Kretschmann, presidente del Baden-Württemberg, stato federale dove i produttori d’automobili la fanno da padroni, che si è espresso contro la volontà del suo partito di togliere i veicoli alimentati a diesel dalle strade.
Un nuovo Volkspartei?
Al momento, i Verdi sono partner di coalizione in più della metà dei governi degli stati federali tedeschi ed esprimono anche un presidente, nel caso del già citato Kretschmann, che governa insieme ai cristiano democratici.
L’ambizione dichiarata è quella di diventare una Volkspartei, un partito di massa, capace di estendere la sua base elettorale al di là dei confini attuali. Come? Abbandonando un approccio per certi versi elitario, concentrato sulla dimensione culturale e dei diritti, e corteggiando la classe operaia e i precari, tradizionale zoccolo duro della Spd. In altre parole, includendo i perdenti della globalizzazione. Un’operazione sulla carta estremamente ardua per un partito che deve il suo recente successo alla capacità di entusiasmare e unire ideologicamente chi dalla globalizzazione e dalla modernizzazione ha tutto da guadagnare.
La nuova bussola dei Verdi, come ha dichiarato Robert Habeck, uno dei due leader del partito, filosofo prestato alla politica, “prende in considerazione gli interessi di coloro che fanno fatica a far fronte al cambiamento. I pescatori, i contadini, gli agricoltori che hanno difficoltà ad accettare le idee dei Verdi, per ragioni totalmente comprensibili”.
Il problema è che i Verdi non sono ancora riusciti a tradurre questa linea strategica in proposte praticabili; e rimane quindi aperto il problema di come riconquistare i voti di quei ceti poveri, costituiti da persone che abitano perlopiù nelle aree rurali e nell’est del paese, che hanno abbandonato i partiti di sinistra per abbracciare l’estrema destra dell’Afd.
Nelle ultime elezioni, secondo il quotidiano tedesco Die Welt, la Spd ha perso 470mila voti a favore dell’Afd, e 400mila ne ha persi la sinistra radicale Die Linke.
Per non parlare della Cdu/Csu che ne ha persi un milione. Nessun progetto che si pretenda egemonico può prescindere dalla riconquista di una parte di questi voti. Cosa che i Verdi, opinioni di voto e dati elettorali alla mano, non sembrano essere ancora in grado di fare.
Il test europeo
Le elezioni europee di maggio metteranno alla prova le ambizioni dei Verdi, non solo in Germania. Al momento, gli ecologisti europei costituiscono uno dei gruppi più piccoli nel Parlamento di Strasburgo, con solo 50 seggi sui 751 disponibili. Questa volta, tuttavia, con gli altri gruppi politici europeisti in affanno, il peso dei Verdi potrebbe aumentare in maniera esponenziale, fino ad essere determinante nello stabilire chi sarà il vincitore.
Certo è che l’onda verde ha lambito solo alcune parti del continente. Mentre in Germania, Paesi Bassi e Belgio gli ecologisti se la passano bene, negli altri paesi la situazione sembra più difficile. In Italia la maggior parte delle preoccupazioni ambientali sono appannaggio del Movimento Cinque Stelle. Un discorso diverso vale per gli ecologisti francesi, che sembrano ormai lontani dai fasti del 2009, quando ottennero il 16 per cento dei voti in occasione del voto europeo. L’aver sostenuto l’impopolare governo di François Hollande e la difficoltà a rimpiazzare un leader carismatico come Daniel Cohn-Bendit limitano l’appeal del partito, che deve far fronte anche alla concorrenza posta da La Republique En Marche, il movimento del presidente francese Emmanuel Macron, che ha il baricentro del suo bacino elettorale proprio tra i ceti istruiti e urbani.
La Francia è interessante anche da un altro punto di vista, quello della protesta dei gilet gialli, scoppiata con il pretesto dell’aumento del prezzo del diesel, che il governo francese aveva giustificato con la necessità di raggiungere gli obiettivi in materia di lotta al cambiamento climatico. A Macron è stata imputata la mancanza di meccanismi di compensazione per chi avrebbe dovuto pagare di più per la nuova tassa, ovvero i ceti medio-bassi che vivono nelle zone rurali e sono obbligati a usare la macchina tutti i giorni per andare al lavoro, dal medico o fare la spesa.
Per evitare questa deriva, in Germania il già citato Habeck ha avanzato la proposta di una sorta di reddito di base, e così aiutare i più colpiti dalla transizione energetica. Comunque per ora la classe operaia e i precari continuano a preferire i populisti di estrema destra e, in parte, la sinistra radicale.
Quel che è certo è che finora nessun partito ecologista in Europa è riuscito a restare in maniera consistente al di sopra della soglia del 20 per cento. L’ambizione di contribuire a determinare gli equilibri nel continente potrebbe quindi apparire più come un obiettivo di lunga durata che un’opzione raggiungibile nei prossimi mesi.
Per i più ottimisti questo è comunque un destino inevitabile. Come afferma Mark Blyth, professore americano di politica economica alla Brown University, “la sinistra morirà, a meno che non approfitti della capacità dei Verdi di generare entusiasmo, soprattutto tra i giovani”.
In tal senso, il successo dei Verdi è un segno dei tempi. Oggi si assiste infatti a una crescente polarizzazione tra globalizzazione e nazionalismo, che favorisce sia i Verdi sia l’estrema destra. Questo perché alla tradizionale divisione sul piano economico tra destra e sinistra se ne sovrappone una, sempre più forte, sul piano dell’ecologia e dell’identità culturale, che rende la scena politica più complessa e impossibile da decifrare attraverso le sole categorie novecentesche.