La Cina sui banchi
Viaggio fra gli studenti cinesi trentini, in bilico fra le dure tradizioni scolastiche del Paese d’origine e quelle, più lasche ed aperte, della scuola italiana.
“Quale registro vuoi che utilizzi per l’intervista? Quello formale, colloquiale, oppure un lessico confidenziale? Attendo i tuoi feedback!”. Rimango per un po’ sospesa, appena leggo il messaggio di Chen Kai, un liceale cinese. Quando incontro figli d’immigrati di seconda generazione (G2), giunti in Italia da bambini o nati qui, capisco quanto è errata l’etichetta di “straniero”, impacciato nei modi e nella lingua. L’sms di Chen Kai mi scuote, so che devo correggere il tiro ingranando un’altra marcia, quella cosmopolita.
Su quest’aspetto ho voglia di frugare, bussando alla porta delle scuole superiori e università, per capire come i ragazzi cinesi di seconda generazione facciano girare dentro questo “frullatore” culture e stili di vita differenti. Perché un banco di scuola diventa un banco di prova: c’è chi cade nel fosso dell’esclusione e chi salta oltre, utilizzandolo come trampolino per l’ascesa sociale.
L’impatto
“Il primo anno di scuola media, ero come invisibile in classe. Non parlavo quasi mai con i ragazzi italiani. Sedevo in ultima fila, all’angolo dell’aula. Se non sai la lingua, non capisci quello che ti dicono, e si fanno beffe di te. Non sai cosa c’è scritto sul libro o sulla lavagna”. Mentre Chen Kai getta l’amo nei ricordi scolastici, avverto il senso di smarrimento e fragilità che esplode planando in un’altra cultura. In classe sono spariti i compagni del cuore, i banchi affollati e le cravatte rosse. L’edificio della scuola non è più lo stesso, magari è pure vecchio, e si marcia con altri ritmi di apprendimento. A casa non ti aspettano più zii e nonni, che ti hanno allevato con cura prima di raggiungere il Paese descritto come l’Eldorado. Qui ti muovi senza coordinate e comunicare ogni bisogno è un problema: “Ricordo la prima volta che mi sono rivolto alla professoressa per chiederle di andare in bagno - rammenta Chen Kai -. Lei mi sorprese riempiendomi di complimenti. Gli altri applaudirono. Che imbarazzo!”.
Senza punti di riferimento ti aggrappi a una ciambella di salvataggio. Spesso sono i coetanei connazionali a farti da unico ponte: “Per fortuna accanto a me sedevano due cinesi, - continua Chen Kai - a loro chiedevo traduzioni su cosa stessimo facendo in classe. Poi alle superiori ero l’unico cinesino della scuola, perché i miei coetanei erano già fuori da un bel pezzo a lavorare”.
Compagni
Mentre scorrono le parole di Wang Jie, un diciassettenne dai cappelli a spazzola, colgo il filo che lo lega alla scuola d’origine. Una scuola che l’ha plasmato alla disciplina e autocontrollo delle emozioni. Per questo alcuni compagni gli creano l’effetto di un ciclone. Lo sento adulto Wang Jie, come se avesse bruciato in fretta le tappe infantili. Ai suoi occhi i “cattivi ragazzi” sono quelli immaturi, troppo spensierati, aperti alle trasgressioni: “Ho avuto alcuni compagni italiani pessimi durante le medie e superiori. Erano delle pesti insopportabili. Piuttosto casinisti, maleducati, nullafacenti. Facevano sclerare di continuo gli insegnanti, costretti a urlare: ‘Adesso basta, vi metto le note sul registro!’. Mi pare siano più diffusi nelle scuole professionali che nei licei, anche se verso i 18 anni migliorano nella maturità”.
Wang Jie ha un altro metro di giudizio su come si deve stare a scuola e non vede di buon occhio le contaminazioni culturali. Non è disposto a mutare la sua corazza, con il rischio di intaccare la propria immagine: “Magari non sono un bell’esempio, perché sono un po’ asociale o un caso raro. Forse sono il tipico studente cinese troppo disciplinato. Sono diverso dai miei connazionali italianizzati che negli anni si sono lasciati influenzare. Ne ho viste abba stanza quando ho seguito i compagni nelle gite di classe a Barcellona e a Malta, non ci stavo dietro, ero troppo a disagio. Ho timore di combinare qualcosa di grosso”.
Avverto in questi ragazzi un senso d’isolamento, la paura di non essere assimilati al gruppo. Se vuoi che i compagni ti “vedano” devi essere come loro, questo imperativo vale per ogni adolescente. Per un ragazzo di seconda generazione vale di più. Perché c’è tutto un fardello di differenze che iniziano a starti strette. La diversità dei consumi crea voragini. Hai pochi oggetti da mostrare, poche cose da indossare e il tuo involucro esterno, nella società dell’apparire, dice chi sei per gli altri. Wang Wei, uno studente con occhi vispi, mette subito in chiaro questa differenza: “Lo vedi come vado in giro? Mica ho le tute firmate. Anche se m’invitassero, come farei a uscire cosi? A casa non ci possiamo permettere spese superflue. Non abbiamo nemmeno la macchina o una tv tutta per noi”.
Colgo in queste tracce di memoria la voglia di scavalcare il muro che li separa dai compagni italiani, sospesi tra timidezza e aperture: “Cerco di non isolarmi e sono sempre disponibile a dare una mano - spiega Wang Wei -. Quindi non penso di essere vittima di pregiudizi, ma mi pare che i compagni non s’interessino a quello che faccio”.
La distanza per alcuni nasce dalle poche interazioni dopo la scuola. Il peso delle responsabilità familiari, appioppate dai genitori, dediti al troppo lavoro e sacrificio, toglie ossigeno agli spazi di vita: “Vedo i miei compagni in giro nei parchi che fanno due chiacchiere, praticano sport o allenamenti - sbotta Chen Kai -. Io pure il sabato lavoro per raggranellare qualche soldo. Tutte le sere fin da piccolo aiutavo nell’attività i miei. Altro che uscire con gli amici. E spesso in rosticceria facevo anche i compiti”.
La pagella ai prof
Chi non ricorda il film “L’attimo fuggente”? Il protagonista, un eclettico professore di un rigido college americano, fa battere il cuore degli studenti distillando la letteratura in un vortice d’emozioni. Non vuole una scuola piena di nozioni, ma che insegni la vita. Questo trasporto è un aspetto che affascina i ragazzi G2. Lo so, direte voi, è così per qualsiasi alunno. Però ha un peso maggiore per chi in patria ha sperimentato una scuola dove le emozioni sono bandite. Una scuola del rigore dove vige la compostezza. “Là - ricorda Chen Kai - dovevo stare con i gomiti ben appoggiati. Si risponde alle domande dei prof alzandosi in piedi. Si saluta inchinandosi quando entrano ed escono dall’aula”.
Sono le qualità umane a rapire gli studenti cinesi. La vicinanza fatta di gesti calorosi che ti fanno sentire bene a scuola. Che ti fanno sentire amalgamato e protetto dal gruppo. Il tutto condito da una bella dose di empatia. “Qui i professori hanno quasi sempre volti sorridenti - chiarisce Wang Jie -. Ti salutano se ti vedono sui corridoi. Chiacchierano con la classe senza fare la lezione, ti chiedono se hai problemi o come hai trascorso le vacanze. Possono essere molto alla mano. In Cina questi rapporti sono più formali, sembri un esercito che sottostà al comando dei superiori. Poi se ti chiamano negli uffici, non ti aspettano mai cose carine”.
Professori italiani poco bacchettoni che non puntano solo al grado delle prestazioni, ma intravvedono anche altre qualità che possono compensare le lacune: “Alle udienze non ho mai sentito parole dure contro un alunno - esordisce Chen Kai -. Al massimo dicono: ‘È un ragazzo intelligente ma si deve impegnare un pochino negli studi, è un po’ distratto nelle lezioni’...”.
Un approccio diretto con i professori che crea sorpresa pure in chi è balzato ai gradi più alti degli studi, ma che porta dentro sé l’impronta indelebile di un insegnamento tutto regole e disciplina: “In Cina non interrompi un insegnante, perché è un tuo superiore - rammenta Wang Wei -. È maleducazione. All’Università ho parlato con Mario Monti persino sul corridoio. Ancora adesso sono stupito quando vedo prof e alunni che gridano assieme nelle manifestazioni portando gli stessi striscioni”.
Per quanto provi ad agire di punteruolo, nessuno studente si sbilancia parlando male dei professori, che ottengono buoni voti in pagella per le loro capacità. Chen Kai glissa sulla mia domanda cogliendo altre sfumature, dalle frasi epiche che sfoderano i professori al loro diverso tono di voce. Solo Wang Wei fa venire a galla, parlando a mezza bocca, qualche ombra: “Ho intuito in qualcuno, anche se non lo dice apertamente, scarse aspettative per il mio futuro. Ti vedono alle professionali perché parli maluccio la lingua oppure già in rosticceria a girare involtini e pollo alle mandorle”.
Tra due scuole
Le immagini sono più efficaci delle parole. Chen Kai m’invia una foto eloquente: una classe di ragazzi cinesi china sui banchi che si prepara al test prima della maturità (foto in alto). Balza agli occhi il cumulo di fogli, dietro al quale s’intravvedono solo chiome scure. Non distingui se sono maschi o femmine, né i contorni dei loro visi. Come se fossero tutti uguali di fronte all’impegno, ma senza identità. “Restano a scuola fino alle 19, - spiega Chen Kai - per fortuna non ho vissuto sulla mia pelle una cosa del genere, perché è da impazzire. In Italia non vedi cosi tanti libri e quaderni, neanche nei licei. Uno studente bocciato, da noi, è una specie di scandalo”.
Conosco diversi ragazzi cinesi, giunti in Italia col ricongiungimento familiare, che hanno fatto un percorso scolastico in Cina. Tutti mi hanno descritto la scuola italiana come una sorta di paradiso. Uno spazio rilassante, dove poter marciare liberamente negli studi. Qui si sentono alleggeriti dal peso di una scuola troppo competitiva: “Da noi la scuola è una cosa molto seria, che stressa parecchio gli studenti, penso sia per questo che uno su due porta gli occhiali - soggiunge Chen Kai -. Alle elementari facevo lezioni fino alle 17 e tornavo con un bel po’ di compitini. Tutto è una gara fin dall’inizio. La frase di moda è: ‘Non perdere il tuo bambino dalla partenza’. Gli studenti cinesi sono eccellenti e rigorosi, non a caso sono i primi in matematica. Non vorrei essere presuntuoso, ma la matematica qui è una cosa penosa, molti la masticano poco perché non hanno basi solide. Ricordo che alle medie facevano ancora le addizioni e sottrazioni, mentre là alle elementari avevo fatto tutta la geometria. Mi veniva da ridere”.
Ma della scuola italiana i cinesi non apprezzano solo il clima libero e spensierato. Mettono in primo piano il privilegio di una scuola pubblica che garantisce le stesse possibilità ai nastri di partenza. Perché il diritto allo studio non può essere sbarrato dal capitale economico della famiglia: “Da noi le scuole sono quasi tutte private, quindi le tasse, vitto e alloggio sono a carico della famiglia - precisa Wang Wei -. Chi ha un basso strato sociale è penalizzato”.
Cupido
“Ti piacerebbe innamorarti di una compagna di scuola?”. Chen Kai trova molto imbarazzante la mia domanda. Per un po’ prova a sciogliere l’impaccio, raggirando il quesito e raccontandomi la storia di un amico cinese che ha una fidanzata italiana, ma non sa com’è andata a finire.
Sui banchi non fluttuano solo numeri e nozioni, ma anche le prime intense passioni. Passioni più difficili da gestire se senti il peso dei retaggi culturali. In bilico fra emozioni soffocate e voglia di farle uscire fuori: “Le coppiette nelle scuole italiane sono ammesse - spiega Chen Kai -. In Cina i dormitori maschili e femminili sono separati. Mica puoi andare da una parte all’altra. È vietato avere relazioni amorose, almeno fino alle superiori”.
C’è chi si sente un italiano a pieno titolo e quando arriva Cupido, coglie l’occasione per dare un taglio al cordone ombelicale etnico. La relazione con la coetanea italiana ha il sapore di una sfida alle tradizioni famigliari conservatrici. È prendere in mano le redini della propria vita: “Non esiste che i miei si mettano in mezzo, se mi va l’italiana, me la faccio e me la sposo, - sbotta Wang Jie - perché fuori sono l’orientalino con gli occhi a mandorla, ma dentro sono un o c c i d e n t a l e! Che lo vogliano o no”.
Altri avvertono passioni che battono forte, ma decidono di metterle per un po’ in stand by. Sentono i laccioli culturali d’origine troppo stretti. Tagliarli accenderebbe troppi conflitti, difficili da gestire se non si è ancora ben attrezzati: “Ci sono dei ragazzi che mi piacerebbero, - chiarisce Liu Sisi - ma so che i miei non sarebbero d’accordo, perché lingua e cultura sono troppo diverse. L’opinione dei genitori conta molto per me”.
Differenze
Nelle parole di Wang Wei, percepisco gli equilibrismi che si mettono in atto a cavallo tra due culture. Si sta sospesi, tra la famiglia legata alle tradizioni d’origine e i nuovi stili di vita appresi sui banchi di scuola. Ognuno si allena come può, per gestire le due realtà. C’è chi si sente un camaleonte e decide di spazzare via le differenze sui banchi, perché essere omologati al gruppo dà un’iniezione di sicurezza. Essere “come loro” è una buona scorciatoia per non incappare nel dileggio. Wang Wei lo spiega in modo chiaro: “A casa faccio il cinese a 360 gradi, a scuola copio i comportamenti dei compagni, come se cambiassi involucro. Ho il timore di mostrare certe differenze. Se portassi le bacchette alla mensa scolastica, qualcuno ne sarebbe incuriosito, altri magari mi darebbero dell’idiota. Quindi cerco di essere ‘normale’ e poco vistoso”.
A casa si parla il mandarino, e si discute dei comportamenti che si fatica a metabolizzare: “Racconto spesso - commenta Chen Kai - delle piccole diversità tra me e i compagni italiani. A loro piacciono musiche assordanti, balli, alcolici, fumo, tipi e tipe, look perfetti e vestiti scollati. Io non mi sento molto adatto per queste cose. Mi stupisco quando soffiano il naso a volume alto, bevono l’acqua dal rubinetto, salutano le ragazze con bacetti, usano il bidet, vanno in giro abbronzati anche a rischio scottatura”.
C’è una domanda che ha un effetto soporifero in questi ragazzi cinesi: come vivi a scuola l’impatto con una fede diversa? Avverto sguardi smarriti e una presa di distanza nel definire il proprio credo. Qualcuno rammenta reminiscenze un po’ cristiane e un po’ buddiste del paese d’origine, ma senza snocciolare riti e dogmi. La Cina è un Paese ufficialmente ateo, e il multiculturalismo delle fedi a scuola non crea sussulti. Anche per Chen la religione non occupa un ruolo importante: “La scienza vale più della religione. Se un malato prega tutti i giorni, non avrà una guarigione miracolosa. Solo col progresso scientifico si potrà vivere sempre meglio. In aula hanno messo il crocefisso per i patti col Vaticano. La fede dovrebbe essere un fatto privato, esporre cose del genere in luoghi pubblici potrebbe dar fastidio”.
Pure Wang Jie è sulla stessa lunghezza d’onda e mentre chiudo il taccuino dell’intervista, rovista frettolosamente nelle sue tasche. Mi porge in dono un piccolo amuleto di pietra, con un augurio: “Non so se Dio esiste, ma sono un po’ superstizioso, e questo è il mio modo per dirti buona fortuna!”.
Cina o Italia?
Appena Chen Kai scopre che non ho mai messo piede in Cina, m’invia un sacco di foto scattate nel suo ultimo rientro in Patria. Giunto in Italia da bambino, è palpabile nel suo entusiasmo il cordone ombelicale che lo lega alle origini. Quando vola in Oriente sembra immergersi in un bagno d’euforia, perché la Cina è piena di vita e colore, ci sono le sue radici, la sua lingua, il suo cibo. Si sente a casa. È un Paese che marcia alla velocità della luce e ogni volta sa stupirlo: “Nell’ultimo viaggio - narra Chen Kai - non riconoscevo più la mia città. Era interamente cambiata, con tutte le vie rifatte e grattacieli al posto delle vecchie case. Con strade super trafficate, caos dappertutto, bei negozi, parchi artificiali e ristoranti. Però c’è più criminalità e la città è meno sicura”.
Chen Kai va oltre le apparenze e c’è qualche crepa della Cina che non riesce a digerire. È di ceto medio, e le differenze di classe gli danno allegria: “I soldi fanno funzionare quello che vuoi e la Cina è un caso tipico. Dicono che è un’economia pianificata, io la vedo molto capitalista, con ricchi imprenditori che guadagnano tantissimo e spendono altrettanto, vivendo in lussuosissimi mega appartamenti. Mentre gli operai hanno un misero stipendio. Il costo della vita lì è altissimo e ci vuole tempo per guadagnarsi una casa!”.
Eppure Chen Kai non è disposto a tagliare le sue radici. Stringe i denti per finire l’università, sbarcando il lunario con qualche lavoretto, anche per fare contenta mamma. Poi chissà, la sua rotta potrebbe virare a Oriente: “Con l’economia stagnante, come molti connazionali, sto pensando che non vale più la pena di rimanere qui o in altri paesi dell’Eurozona. Potrei tornare, dopo aver imparato bene l’inglese”.
Per i ragazzi G2, nati in Italia, la Cina è distante e non suscita batticuore. Lo leggo nello sguardo assente di Chen Xiang, che mi descrive il suo Paese come da una cartolina. Spende poche parole, perché si sente molto italiano e poco cinese: “Non sono orgoglioso se la Cina ha successo economico. Al massimo la visiterò come turista. Dopo gli studi è qui che avrò dei figli e troverò un impiego. Magari che mi dia soddisfazione, ma soprattutto tempo libero. Perché non farò la fine dei miei, dall’alba al tramonto al lavoro”.
Alunni con cittadinanza cinese nelle scuole trentine nell’anno scolastico 2013-2014
Scuola dell’infanzia: 51 (di cui 47 nati in Italia)
Scuola elementare: 84 (di cui 70 nati in Italia)
Scuola media: 45 (di cui 27 nati in Italia)
Scuola superiore: 25 (di cui 5 nati in Italia)
Centri/istituti di formazione professionale: 30 (di cui 3 nati in Italia)
Una scuola caotica
Intervista a Daniele Brigadoi Cologna
Alla porta di Daniele Cologna, sinologo e sociologo, autore di diversi saggi sulla comunità cinese con cui è sempre connesso, bussano molti giornalisti in cerca di un faro che li illumini su questa realtà. Ma lui usa la bacchetta se nella conversazione scova troppi stereotipi.
Che problemi vivono i ragazzi cinesi nella scuola italiana?
“Gli studenti che arrivano qua in prima media o superiore vedono un gruppo indisciplinato. Non trovano l’organizzazione gerarchica, con capofila e capoclasse che c’è in Cina, che dà una certa sicurezza. Un mediatore culturale dovrebbe subito spiegargli che in Italia si privilegia innanzitutto la responsabilità del singolo. Spesso il ‘casino’ in classe crea loro disagio. Alcuni sono molto frustrati perché vorrebbero impegnarsi al massimo negli studi, ma pensano che non ci siano le condizioni per imparare; ciò li disorienta e li spinge all’abbandono. Qui trovano insegnanti poco capaci nel mantenere l’ordine, che esprimono un registro troppo emotivo. Li vedono ‘appiccicosi’, magari ti abbracciano pure. Sono molto distanti dall’autorevolezza degli educatori che hanno lasciato e che non hanno mai messo in discussione. Però dopo un po’ gli studenti riconoscono che allentando la pressione si possono liberare molte energie represse e arrivano a dare il meglio di sé. Anche la scuola cinese ha i suoi limiti: ogni manifestazione scolastica fuori dagli schemi è derubricata come disordine, quindi non è certo un luogo di attivismo sociale o politico. C’è molta enfasi sulla memorizzazione, quindi sono portati a ragionare in modo meccanico di fronte ai problemi, con poca critica e creatività”.
Una recente indagine Istat evidenzia come i cinesi subiscano discriminazione a scuola in misura superiore rispetto alle altre nazionalità. Qual è il suo parere?
“Spesso le barriere alla comprensione reciproca sono di tipo linguistico, specie se lo studente arriva qua alle scuole elementari o medie. C’è una fase piuttosto lunga di silenzio, che non ha specificità culturali, utile per apprendere i nuovi codici linguistici. L’errore è che insegnanti e compagni leggono questo silenzio come problema e lo accentuano d’ansia. Per sentirsi meno sotto pressione, lo studente tende a fare gruppo con i connazionali, un ripiegamento che lo porta a non integrarsi. Invece andrebbe coinvolto nel gruppo, anche se parla poco l’italiano.
Nella mia esperienza di mediatore ho notato come gli insegnanti enfatizzano le differenze culturali dei cinesi, li considerano un altro pianeta. Un ragazzo pakistano, anche se non parla bene la lingua, appare meno distante dalla cultura occidentale nei codici comportamentali, perché a livello storico c’è un’influenza anglosassone (secondo l’ultima indagine Istat, gli studenti che dichiarano più frequentemente di aver subìto discriminazioni a scuola sono i cinesi col 17.8%, seguiti da ucraini - 14,7% -, rumeni - 13,14% -, albanesi - 13,1% - e marocchini - 9,1% - n.d.r.).
Tutto si ripercuote anche nella formazione. Ho spesso sentito insegnanti orientare alle professionali cinesi con ottimi voti, perché parlavano maluccio la lingua; all’italiano con gli stessi risultati avrebbero consigliato il liceo. Su questo incide anche la mentalità della famiglia, che investe al massimo sugli studi del figlio solo se vede che è tra i migliori della classe, altrimenti col pragmatismo della prima generazione lo mettono a lavorare in negozio o nella manifattura”.
Quale approccio hanno le famiglie cinesi con la scuola italiana?
“Si sentono molto spiazzati. Hanno aspettative alte verso gli educatori, i quali non devono solo far acquisire abilità, ma anche competenze sociali, di etica morale e buon comportamento. Vorrebbero una scuola più severa, con tanti compiti. Non premiano il figlio con lodi, perché lo studio è un suo dovere. Hanno spesso l’idea che la scuola italiana sia una perdita di tempo, perché non è presa sul serio e non educa all’impegno. Gli insegnanti non sanno fare il loro mestiere e le classi sono un caos. Come mediatore ho sperimentato quanto è importante parlare con loro, per fargli capire che trattare argomenti che esulano dal programma, aiuta a stimolare il pensiero critico”.
Sui banchi italiani non ci sono solo i figli d’immigrati, ma anche molti studenti cinesi che arrivano nelle nostre università per seguire stage e dottorati. Che idea hanno del nostro Paese?
“Lo vedono come un posto curioso, affascinante, ma molto più arretrato di quanto immaginassero. Spesso lo paragonano a un villaggio, perché non c’è traccia dell’urbanesimo che è la cifra della Cina. Per loro l’Italia non è una prima scelta, magari arrivano dopo esser stati rifiutati da università prestigiose di altri paesi, e non è detto che siano gli studenti più brillanti. Non hanno una pallida idea della politica italiana e non gli frega più di tanto: a loro interessa molto il mondo anglosassone. Noi siamo solo la periferia”.
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Daniele Brigadoi Cologna è ricercatore di cinese presso l’Università dell’Insubria e fondatore dell’agenzia di ricerca sociale Codici.