Cosa ti porti in Europa?
Uno sguardo fra gli oggetti dei migranti tra sud e nord del Mediterraneo.
Che cosa portare in un viaggio costellato da immani tragedie, grandi speranze e profonda commozione per l’abbandono della propria terra e dei propri cari? Questa la domanda che, da archeologo, ricorreva tra i miei pensieri ogni qual volta mi imbattevo nelle notizie che i media davano sulle grandi migrazioni in corso tra sud e nord del Mediterraneo.
Per trovare la risposta mi sono mescolato a loro, ai migranti, nel viaggio che nell’estate 2015 li ha condotti ad attraversare le Alpi, diretti verso l’Europa settentrionale. Ne è nato il progetto di ricerca “Cosa mi porto in Europa?”, svoltosi nelle stazioni ferroviarie di Bolzano e del Brennero, dove spesso i profughi di passaggio, in gran parte Eritrei di confessione cristiana copto-ortodossa, riposano nei locali dell’associazione Volontarius, prima di ripartire per la Germania. Qui ho realizzato una cinquantina di interviste, documentate da foto e video girati con Monika Weissensteiner della Fondazione Langer, ponendo diverse domande, una delle quali piuttosto inconsueta: Cosa ti sei portato per il viaggio?
Lo studio del materiale ottenuto - che confluirà nel sito curato da Matteo Moretti dell’Università di Bolzano e dal giornalista Massimiliano Boschi - permette di considerare i migranti non solo come profughi, ma come persone con storie e prospettive, interrogandosi sul futuro di un’Europa che sempre più si dovrà confrontare con tali fenomeni.
Gli Eritrei partono principalmente a causa della dittatura militare che rende asfittica la vita nel loro paese. Il viaggio che affrontano è lunghissimo e non solo in termini geografici. Il primo passo è quello di superare illegalmente il confine col Sudan, trovare un lavoro e riuscire, di solito entro cinque-dieci mesi, a guadagnare il necessario per proseguire. Poi inizia la parte più pericolosa: affidarsi a dei passatori, attraversare il Sahara e giungere in Libia, sperando di non essere intercettati dall’ISIS o da altre milizie armate. Arrivati a Tripoli, salgono, assieme ad altri sub-sahariani di diverse nazionalità, sui barconi diretti a Lampedusa. Da qui proseguono per la Sicilia, per Roma e, valicato il Brennero, per la Germania o la Svezia, dove sperano di ottenere asilo.
Dato che durante il viaggio sono stati derubati di borse e zaini, del bagaglio di partenza non rimane molto: di solito gli effetti personali più stretti, riferibili soprattutto alla famiglia e alla religione.
Moltissimi hanno la croce al collo: in Eritrea, dicono, è diffusissima, in quanto necessaria per assicurarsi una certo grado di protezione nella vita quotidiana. Alcuni hanno dei bellissimi medaglioni in legno, simili a delle piccole icone, raffiguranti gli Arcangeli. Ci sono anche molte Bibbie, scritte in tigrino, con diverse rappresentazioni di carattere religioso.
I tatuaggi sono una testimonianza molto importante, perché vengono fatti a mano, con ago e inchiostro, da amici o parenti. Un ragazzo mi mostra fiero la scritta “Mia Madre”, realizzata dalla madre stessa sull’avambraccio sinistro. Altri due hanno una croce sulla spalla, mentre uno ha la scritta “I love you mother”, fatta da un compagno di cella durante la detenzione in un carcere eritreo.
Moltissimi hanno lo smartphone, molto diffuso nei paesi del cosiddetto terzo mondo, dove la rete della telefonia fissa è poco sviluppata e dove i dispositivi wi-fi sono abbastanza accessibili. Nel cellulare hanno le fotografie dei propri cari e la musica preferita da ascoltare. Tutti conoscono il cantante reggae etiope Jacky Gosee, che canta la disperazione dei migranti che, come loro, viaggiano dal Corno d’Africa verso l’Europa. Inoltre, con lo smartphone scrivono a casa, spesso via Facebook, e comunicano con amici e parenti sparsi in Europa.
Alla stazione del Brennero, presso il confine di Stato, dove un gruppo di migranti è appena stato respinto, assisto ad un frenetico giro di telefonate in cerca di informazioni con chi, mi dicono, aveva avuto più fortuna ed era passato nei giorni precedenti. Uno di loro mi passa il fratello, che parla un ottimo italiano. È piuttosto agitato. Mi prega di leggere sul tabellone gli orari delle partenze successive e poi mi chiede di ripassargli il fratello. Dopo circa un’ora un nuovo treno giunge al binario. La tensione cresce, ma questa volta i migranti riescono a salire. Li guardo mentre si siedono e mi avvio verso l’uscita, alzando il braccio per salutarli. Loro mi rispondono e mi scattano felici delle fotografie.
Mentre torno a casa ripenso, come tutte le volte, alle persone, ai visi, al nostro parlare in inglese stentato e a tutte le cose che i ragazzi, come insistentemente continuo a chiamare i profughi, mi hanno mostrato un po’ stupefatti. “Sono un archeologo - continuo a ripetere - mi interessano gli oggetti”.
Nel mare magnum di queste migrazioni epocali agli oggetti è affidato un compito importantissimo: quello della consolazione. Lo sguardo alle foto dei parenti, il pregare consultando la Bibbia e l’ascolto della musica preferita sono gesti quotidiani che danno la forza necessaria ad affrontare le condizioni durissime del viaggio e placano la nostalgia di casa e famiglia.
A noi che osserviamo, gli oggetti servono invece per ricostruire la cosmologia di chi arriva, probabilmente non troppo diversa da quella di noi Europei, dove Illuminismo e Rivoluzione industriale hanno messo a dura prova famiglia e religione, ma non sono riusciti a scardinarle. Una buona base di partenza per una discussione relativa ad un fenomeno, quello delle migrazioni e delle società multiculturali, col quale siamo inesorabilmente destinati a confrontarci.