Nuovi trentini
Ragazzi cinesi sospesi fra tradizioni familiari conservatrici e voglia di modernità con uno spirito cosmopolita
La macchina del caffé ha una marca italiana ben in vista. Sugli scaffali campeggiano allineati Fernet Branca e Sambuco Molinari. Dietro il bancone non c’è traccia del signore trentino brizzolato, scorgo invece gli occhi a mandorla di una ragazza con capelli lisci e curati. Con un sorriso scolpito da un rossetto acceso e un’aria di sfida sbotta: “Guardami! Ti sembro una cinese chiusa?”. Liu Yang mi ribalta d’un colpo l’etichetta che le stavo per appiccicare addosso. Ora sono io a sentirmi la trentina ingabbiata dai luoghi comuni. Quelli che ci portano a tratteggiare la comunità cinese come impenetrabile e misteriosa. Impossibile da scalfire. La ragazza ha la battuta svelta e ci tiene a dirmi che è una G2, la seconda generazione d’immigrati nati in Italia o approdati con il ricongiungimento familiare. Mi stuzzica subito la voglia di grattare sotto la superficie per capire cosa passa nella testa di questi giovani che stanno crescendo tra noi in modo silenzioso. Ho incontrato alcuni ragazzi nelle scuole e sui luoghi di lavoro e mi hanno aperto uno spiraglio sulle loro vite. Con questi racconti cercheremo di prendere le misure al cordone ombelicale etnico che li lega alla prima generazione.
Muro e conflitti
Mi aggiro in un labirinto, tra merce accatastata sugli scaffali e scatole di cartone. Fra effluvi d’essenze orientali e balsami di tigre, elisir di lunga vita. Il mio sguardo si perde fra pigiami, mutande e tute, appesi ad una valanga di stand metallici. Qualche parrucca biondo platino svetta in alto attirando i miei occhi. Le tinte vivaci e il luccichio delle paillettes ravvivavano l’ambiente spoglio. Pare che i cinesi badino alla sostanza più che all’immagine delle vetrine. Ci sono pochi clienti e Sun Yan mi si avvicina con passo felpato: “Se hai caldaia, questo no bene per te”. La ragazza mi dispensa consigli su tessuti e colori che si addicono ad una signora. Non parla un italiano impeccabile, però ci capiamo bene. La conversazione vira sulla sua parabola migratoria, ma quando le pongo qualche domanda più approfondita e butto lì un’ipotetica intervista, d’un tratto abbassa gli occhi e si chiude a riccio. Il suo viso si contrae in una smorfia con un secco: “No capile!”. Questa scena si ripete quando varco la porta d’altri negozi o ristoranti. Qualcuno di primo acchito accoglie con entusiasmo l’idea di parlare di sé, poi, quando li contatto, il mio telefono squilla desolatamente a vuoto. Corro quindi ai ripari conquistando la loro fiducia con l’aiuto d’intermediari e tutto prende un’altra piega. Capisco che non devo avere fretta se voglio connettermi ai cinesi. Chen Xiang se ne sta per un po’ sulle difensive, poi si lascia andare perché qualcosa di forte gli ribolle dentro: “La prima generazione, in effetti, è più chiusa, anche perché la lingua è un grosso ostacolo per noi. Io ho trascorso in Cina l’infanzia con i miei nonni e sono arrivato qua alle elementari. Per un cinese i legami con la famiglia sono molto forti, mica metti il genitore in casa di riposo. Adesso con i miei sono iniziati molti litigi perché ho una fidanzata italiana. Mi stanno già minacciando, non dico che arriverebbero a tagliare il legame con me, ma quasi. Loro hanno due paure: il non poter comunicare con lei e che le italiane divorziano facilmente, così io perderei tutto, anche se in Cina stanno aumentando le separazioni. I miei vogliono che mi trasferisca a Roma a fare l’Università così ho più possibilità di conoscere una cinese, invece io voglio iscrivermi a Trento o alla Normale di Pisa. Mi sto occidentalizzando e se mi piace l’italiana me la sposo, perché la vita è mia. Loro vedrebbero più di buon occhio che una figlia sposasse un italiano, magari benestante, perché si affida al marito. Il figlio, invece, deve reggere la famiglia”.
Lavoro, lavoro, lavoro
Zhou Jie non ha un minuto da perdere e me lo dice con occhi sinceri: “Come posso rispondere alle tue domande se entro in questo bar alle sette e chiudo a mezzanotte?”. Sarà per la freschezza dei suoi vent’anni, ma il suo viso non tradisce nessuna fatica tanto è lucido e levigato. Mi chiedo se questa ragazza dai lineamenti raffinati, matura e spigliata, non abbia voglia di divertirsi. Di vivere. Mi sorge il dubbio che non ci sia alcuna differenza con la prima generazione sbarcata qui negli anni ‘90. Gente laboriosa fedele alla filosofia di Confucio che bandisce ogni forma d’ozio e non lascia che la stanchezza prenda il sopravvento. Macchine da lavoro che sono riuscite ad accumulare un bel gruzzolo sfornando involtini primavera e pollo alle mandorle. Wang Wei mi aiuta a cogliere qualche sfaccettatura perché vuole prendere le distanze dalla generazione del sacrificio. Figlio di ristoratori non disdegna l’odore del fritto, ma ha deciso di fare il balzo studiando all’Università: “Per il futuro, anche se avessi un lavoro autonomo, voglio un giusto equilibrio tra lavoro e divertimento. Se studio è proprio perché voglio migliorare la qualità di vita e non fare la strada di mio padre. Certo vedo molti ragazzi che seguono le orme paterne e lavorano un sacco. Hanno davanti un modello di successo e un’attività avviata, quindi si fermano lì. La colpa però è dei loro genitori che non sanno proporgli nessun modello alternativo. Un cinese, oggi, se ha le competenze, ha le stesse possibilità di carriera di un italiano, anzi di più, perché conosce una lingua che diverrà indispensabile”.
Trapela dal vissuto di questi ragazzi il peso precoce delle responsabilità. Un macigno che li fa sentire “troppo cinesi” rispetto ai loro coetanei. Un intoppo che frena l’energia che pulsa in loro. Un’ energia che vorrebbe sprizzare fuori ma è ingabbiata dai doveri appioppati dai genitori. “Da bambino - rammenta Chen Xiang - i miei avevano un ristorante ed ero penalizzato. Tutte le sere dovevo essere lì almeno a tenere d’occhio la situazione e intanto facevo i compiti, invece i miei coetanei andavano a giocare. Cresciuto, il sabato sera ero sempre lì, mica uscivo con gli amici, a parte rari casi concessi se avvisavo con un bell’anticipo”.
Numeri e disciplina
Quasi tutti i cinesi sbarcati da bambini in Trentino hanno ricordi vaghi dei loro trascorsi scolastici. Alcune immagini però fluttuano nitide in questa nebbia. Wang Wei ricorda il suo sguardo sempre chino sui libri e quella voglia di gioco con i compagni che i grandi riducevano all’osso con orari stabiliti. La scuola cinese ha fama di essere tutta regole e disciplina, intenta a sfornare studenti brillanti nelle materie scientifiche. Silvia esce da questo cliché e ha scelto studi umanistici. A dispetto dei suoi tratti somatici ha un nome molto italiano, ma mi assicura che è cinese al 100%, e la sua mail zeppa d’ideogrammi suona come garanzia. La incontro in città, ha l’aria della studentessa seria e precisa con un bel pacco di libri in mano. Studia all’Università di Trento e accetta volentieri di fare due chiacchiere con me perché vuole perfezionare in fretta l’italiano. Il suo è un affacciarsi timido ai nostri metodi scolastici, ove aleggia un’abitudine alla libertà di pensiero mai sperimentata: “A Shanghai nessuno osa interrompere il docente durante la lezione come succede qui, perché è visto come autorità. Le domande si fanno personalmente e a lezione finita. Siamo stati abituati ad ascoltare le opinioni degli altri, ma non ad esprimere le nostre in pubblico. Anzi, temiamo che gli altri sorridano per ciò che pensiamo. Ieri in piazza Duomo ho visto un corteo No Tav. Anche noi cinesi non siamo d’accordo con molte cose che il governo decide, ma non siamo ancora pronti per manifestare. L’italiano prima di fare non pensa molto, noi siamo fin troppo riflessivi ed equilibrati. C’è un detto cinese che dice: ‘Meglio una cosa in meno che una cosa in più’”.
C’è un aspetto che i giovani cinesi apprezzano nelle scuole italiane: non è la classe sociale a sbarrare la strada della carriera formativa. Il principio d’uguaglianza batte forte nel cuore di questi adolescenti sospesi fra genitori d’umili origini e voglia di riscatto: “In Italia - spiega Li Ming - la scuola è pubblica e le tasse sono basse, quindi tutti possono avere le stesse opportunità. In Cina le superiori sono per lo più private, vi si accede con delle graduatorie. C’è una forte selezione in base ai voti e quelle prestigiose costano moltissimo. Quasi tutti pagano per avere favori dai professori, per accedervi”.
Proviamo ora a spostarci sull’apprendimento acquisito sui banchi italiani. Se diamo un’occhiata ai numeri la realtà è eloquente. La gran parte dei cinesi di seconda generazione getta la spugna appena terminate le medie inferiori, pochi proseguono con indirizzi superiori o professionali. Rari sono gli studenti che approdano all’Università e spesso si concentrano alla Bocconi. Un tasso d’istruzione inferiore rispetto alla media totale dei figli d’immigrati. Una realtà che è ben fotografata da un’insegnante trentina, la professoressa Sogno, che individua diverse crepe alla base dell’insuccesso scolastico: “C’è una gran mobilità di questi ragazzi in regioni diverse, causa il lavoro dei genitori, specie nelle manifatture. Succede che non conosciamo la loro storia scolastica ed essi faticano ad adattarsi a nuove regole. Non è facile capire chi è il referente adulto, poiché talvolta i figli sono affidati ad amici o parenti. I genitori cinesi, come per altre etnie, affidano il ragazzo completamente all’autorità dell’insegnante. Spesso ci chiedono di essere più severi, perché sono abituati all’educatore che tiene a bada 40 alunni con la bacchetta o l’uso del fazzoletto rosso per i più bravi. Con i mediatori, la comunicazione con loro è molto migliorata. Molti non proseguono gli studi non solo perché i genitori investono sui figli meritevoli, ma perché la scuola non riesce a supportarli adeguatamente, ad esempio nello studiare i libri di testo. Alcuni suoni nella lingua cinese non ci sono e la struttura della frase è totalmente diversa”.
“Guanxi”
“Guarda come ho trasformato questo bar: il bancone di marmo, i colori vivaci, ma io non ci ho messo niente, dietro c’è tutta la mia famiglia con i parenti, siamo tanti”, esordisce Zhou Jie orgogliosa. Mi ronza in testa la frase letta in un libro: “In Cina è l’individuo che esiste per perpetuare la famiglia e non viceversa. L’individuo è la propria famiglia”. È palpabile dal racconto dei ragazzi cinesi quanto questo guscio sia il perno della loro vita. A quest’ombelico ci si avvinghia ancor di più quando si sono recise le proprie radici. Conta molto l’autorità del capofamiglia, ma ogni relazione con parenti e amici ha il suo peso. Da quest’intreccio dipende la scalata sociale d’ogni migrante. E più la rete, in gergo mandarino guanxi, è fitta, più dispone di capitali per lanciarti verso il business. Una specie di bancomat a tasso zero, un gruzzolo da restituire col sudore della fatica, pena l’onta d’insolvente appiccicata dalla comunità. Un welfare efficiente dentro le mura domestiche che soccorre anche chi naviga in cattive acque e lo allontana dalla vita di strada. Forse per questo non ho mai visto un cinese chiedere l’elemosina.
Colgo nel racconto di Li Ming quanto l’assenza di questa rete faccia lievitare le difficoltà e la fragilità del progetto migratorio: “Quasi tutti i miei cari sono in Cina. Senza relazioni non festeggiamo le feste tradizionali, l’unica abitudine è il cibo cinese. I miei non hanno un’azienda propria e quindi non abbiamo un’abitazione stabile. Mia madre sta con me per garantire continuità ai miei studi. Prima abitavamo in Emilia, mio padre ora lavora a Verona e torna solo una volta la settimana. Mia madre vuole guadagnare per comprarsi la casa in Cina, perché l’abbiamo venduta per venire qua. La nostra situazione economica ci permette raramente spese straordinarie, non abbiamo mai avuto la tv o la macchina. Io sono l’unico che può fare da interprete e risolvere i problemi. Diciamo che la vita per noi è un po’ monotona, perché non abbiamo né tempo né soldi per fare delle cose insieme”.
Contatti
Ci scambiamo lunghe mail io e Li Ming prima di dar corpo all’intervista. È titubante, poi si butta dicendomi: “Queste sono proprio le domande che avrei voluto sentire da qualcuno, magari dai miei compagni”. Percepisco che ha una marcia in più, è molto riflessivo. So che a scuola è uno studente modello. Padroneggia bene l’italiano. Non ha l’aria di un adolescente ma di un adulto. Forse è proprio questa sua maturità che non gli permette di scavalcare completamente il muro con i coetanei. Ci tiene a dire che non è mai stato vittima di bullismo o discriminazioni, eppure le sue parole tradiscono un certo disagio. Un isolamento che lo lacera dentro. È fatto di tutt’altra pasta rispetto alla spensieratezza dei compagni: “Faccio fatica a capire i loro discorsi stupidi, preferisco quelli dei professori. Forse per gli insegnamenti in Cina, vedo i ragazzi italiani molto trasgressivi, poco seri e maleducati. Sarò anche chiuso, ma pretendono di avere sempre ragione loro. A parte alcune ragazze, sono svogliati nello studio, copiano spesso, fanno il minimo per avere la sufficienza. In gita scolastica hanno dormito 4 ore al giorno! La sera leoni, la mattina coglionii. Loro non capiscono l’importanza della scuola e pensano che io non sia normale perché studio troppo. Certo, mi dicono che mi vogliono bene, non gli sono antipatico, però mi conoscono poco e mi tengono poco in considerazione. A parte la scuola non ho nessun altro luogo d’incontro coi coetanei italiani, non ho il coraggio di andare a sballarmi in discoteca e non faccio nessuno sport. È triste non riuscire a trovare buona compagnia, spero di trovarla all’Università, mettendo un po’ da parte i libri”.
In bilico
“Spero che la Cina diventi il più grande Paese al mondo”, mi dice con orgoglio Silvia. Hanno mille sfaccettature questi ragazzi di seconda generazione. Hanno lasciato sullo sfondo la loro patria che oggi scintilla macinando record economici, mentre la nostra produzione stagna sempre più. Qui si rendono conto che possono rischiare di vivere peggio dei loro padri, ma il loro spirito cosmopolita li rende ottimisti. Sono abituati a fare armi e bagagli e adesso la Cina può diventare una terra promessa. “A Pechino o Shanghai ci sono ottime offerte di lavoro. - spiega Wang Wei - Lavorarci per un periodo non mi dispiacerebbe. L’unica cosa che mi spaventa è che hanno un’alta selezione del personale. Un cinese ha le stesse possibilità di carriera di un italiano, perché tutto dipende dalle competenze e dalla personalità”.
Alcuni guardano al Paese d’origine con un senso di straniamento. Sembrano quasi anestetizzati. Il loro tempo è qui ed ora e se ne fanno un baffo delle crepe della Cina. Quando parli loro del capitalismo che crea disastri ecologici, di sfruttamento del lavoro e di libertà d’espressione negata, niente li fa sobbalzare. “Io qua mi trovo bene perché Trento è pulita e tranquilla, della Cina non mi frega nulla, - sbotta Chen Xiang - neanche se diventa una super potenza. Nel futuro, se ci saranno dei vantaggi, magari andrò anche all’estero, ma non per forza là”.
Altri oscillano fra sguardi di diffidenza, perché della Cina qui si conosce solo mafia, falsificazioni e criminalità, e la voglia di sentirsi a casa ed essere riconosciuti come cittadini italiani. Sono in continuo equilibrio fra la famiglia assorbita dalla fatica, che non ha creato molti ponti all’esterno, e il desiderio d’affrancamento sociale, maneggiando meno ideogrammi e più verbi italiani. Con uno sguardo aperto sul mondo che trascina i genitori fuori dalla spirale dell’isolamento, perché non basta tradurre il buongiorno dal mandarino per sentirsi integrati. “Non esco quasi mai con la mia famiglia, - mi dice Chen Xiang con occhi languidi - vorrei solo che i miei si aprissero un po’ di più”.
Quanti sono
In Italia 209.934 (108.418 maschi e 101.516 femmine)
In Trentino 1069 (569 maschi e 500 femmine). Oltre la metà (547) ha meno di 29 anni.
I gusti di Li Ming
Nel mio paese, Wenzhou, mi piace:
- buon cibo fresco e tipico
- vita notturna (le luci, le strade affollate, i negozi, i ristoranti)
- cose a buon mercato (shopping)
- paesaggio urbano (parchi, piazze enormi, luoghi turistici)
- belle costruzioni moderne (grattacieli ovunque)
- feste e festeggiamenti
In Italia mi piace:
- aria ed acqua pulite
- tranquillità (soprattutto di notte)
- sicurezza e ordine pubblico
- welfare (scuola, sanità, sussidi)
- clima
- prodotti ed alimenti sani e sicuri
- codice stradale
- raccolta dei rifiuti
Paura dei cinesi?
Intervista a Daniele Brigadoi Cologna
Piccole formiche che colonizzano le nostre città a suon di contanti. Imprenditori rampanti che pensano solo a far soldi. Dietro a tutto ciò l’ombra della mafia gialla che allunga le sue radici. Tutte queste immagini assumono contorni alquanto sbiaditi dopo una conversazione con uno dei massimi esperti d’immigrazione cinese in Italia. Daniele Cologna, sinologo e sociologo, autore di diversi libri sul tema, ha lavorato a stretto contatto con questa comunità e la prima stilettata la lancia proprio ai giornalisti: “All’inizio, la stampa dipingeva il cinese come l’immigrato modello che lavorava sodo senza delinquere. Poi, uscite le storie legate al traffico dei clandestini, i media hanno virato sul mandarino chiuso e losco, attingendo a piene mani alla visione americana delle Chinatown. Ma queste in Italia non esistono, ci sono invece concentrazioni funzionali d’impresa, quali il pronto moda o l’ingrosso. I cinesi hanno un certo riserbo quando li coinvolgi di persona, sono riluttanti a parlare, specie con i giornalisti, perché sono stufi di essere rappresentati in un certo modo. Loro sono sempre clan, tribù. E noi? La chiusura c’è quando si parla di economia prevalentemente etnica, invece loro offrono servizi a tutti, quindi diventano motori d’aggregazione, sostanza viva della città”.
Sorride Cologna, quando bollo come aggressiva l’imprenditoria cinese, perché proprio la paura di essere espropriata nella mia identità italiana può offuscare la realtà: “Più che invasione dei centri loro tengono in vita negozi che sarebbero morti o affidati a grossi marchi. A Milano, se non ci fossero, non avremmo il lattaio sotto casa. Ad esempio, quasi mai comprano il bar che va bene, lo acquistano dall’italiano che vede decrescere i profitti e ha figli che non vogliono continuare questa strada. Il cinese acquista in ogni caso a prezzi superiori perché intravede delle attrattive: lo gestisce in famiglia pagando meno tasse e cerca subito d’intercettare nuove clientele. A lui interessa prima sopravvivere, poi massimizzare i profitti. Accetta di mettersi in tasca per un servizio pochi centesimi perché non può perdere il permesso di soggiorno, l’italiano no. La diversificazione d’impresa è ampia. Dalla manifattura e ristorazione dei primi anni ‘90, si è passati al commercio all’ingrosso e dettaglio. Ciò non è solo indice della loro creatività ed innovazione. Il lavoro autonomo è l’unico che garantisce introiti per tenere a bada il debito che hanno contratto”.
Le nuove generazioni come vivono il contesto familiare e sociale?
“La seconda generazione, come per tutti gli immigrati, soffre molto di più della prima. Sono loro che incendiano le periferie. Si ritrovano qui senza averlo scelto e non accettano i compromessi di papà e mamma. Spesso i genitori provengono da realtà culturali conservatrici e ingeriscono troppo nella vita dei loro figli, ad esempio nei matrimoni precoci o nella scelta del partner, perché conta molto il lignaggio patrilineare. Col ricongiungimento può scattare la disaffezione dei ragazzi verso i genitori, percepiti come estranei. Nel loro Paese con le rimesse inviate hanno avuto soldi senza faticare con una vita serale vivace. Qui trovano poco divertimento e tutt’altro potere d’acquisto. Questo brodo di coltura può esplodere nella devianza di gang giovanili che arrivano a compiere delitti efferati peggio dei camorristi di Scampia”.
Quanto è diffusa la mafia gialla in Italia?
“Alla base dei soldi che girano c’è il credito fiduciario fra cinesi più che la mano della mafia. Prostituzione, traffico di stupefacenti, gioco d’azzardo, estorsioni, rapine, furti ed omicidi, sono realizzati da cinesi che delinquono, prevalentemente gang giovanili, ma con numeri molto contenuti (in Trentino, nel 2010, sono solo 9 le denunce a carico dei cinesi ed i reati in Italia - 9.082 - sono per lo più ascrivibili alla contraffazione di marchi e ricettazione, n.d.r.). Detto ciò, non c’è una cupola organizzata con controllo del territorio assimilabile alla nostra mafia. Stupefacenti ed armi vengono comprati dagli italiani. Certo, questo non esclude il fenomeno per il futuro”.