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Nuovi fascismi: la Cina

Partito unico, uso sistematico di coercizione e violenza, controllo dei cittadini, culto della personalità, controllo statale di un’economia capitalistica e poi odio per i valori liberali, repressione delle minoranze etniche e Lgbt. Da Una Città, mensile di Forlì.

Jean-Philippe Béja

Tre anni fa ho scritto un articolo intitolato “Xi Jin Ping o un fascismo alla cinese”. Il titolo era una provocazione, perché ovviamente tutti pensano che il fascismo sia legato a un’ideologia di destra. L’analogia col fascismo è ovviamente una semplificazione, tuttavia spesso le scorciatoie sono utili.

Ovviamente l’Italia degli anni Venti e la Cina attuale sono molto diverse; tuttavia, penso che esistano delle tipologie di regimi, e che i confronti tra regimi siano legittimi indipendentemente dai contesti, anche molto diversi.

Prendiamo il culto della personalità. Non è un monopolio di Mussolini: anche Stalin sviluppò il culto della personalità su grande scala e Mao Tse Tung su una scala ancora maggiore.

Ora lo stesso Xi Jin Ping, dopo trent’anni di negazione del culto della personalità e dopo che Deng Xiao Ping aveva cercato di eliminarne l’idea stessa, ha trovato il bisogno di ristabilirlo e di svilupparlo in un modo molto simile a quello di Putin, piuttosto che a quello di Mao.

Altro aspetto: la vittimizzazione. L’Italia nella visione del regime fascista era stata la vittima delle potenze occidentali (dalla “vittoria mutilata” alle “inique sanzioni”). In Cina, non solo il Partito comunista ma anche il Kuomintang parlavano del “secolo di umiliazione”: la Cina sarebbe stata umiliata dalle potenze occidentali fin dalla Guerra dell’oppio del 1840, e poi dal Giappone dopo la sconfitta nella guerra sino-giapponese del 1895, in seguito alla quale perse Taiwan, rimasta colonia giapponese fino al ’45.

Da quando è arrivato al potere, Xi Jin Ping ha ridato grande importanza a quest’idea del secolo di umiliazione, che pesa ancora sui cinesi: l’Occidente non accetterebbe che la Cina torni a essere una grande potenza, e cercherebbe con tutti i mezzi di opporvisi. L’idea di una rivincita è comune sia all’Italia fascista che alla Cina di Xi.

Un altro punto in comune è il machismo. Guardando una foto di Xi Jinping, non viene certo da pensare al machismo, visto che lo chiamano Winnie The Pooh, che non è proprio l’ideale della mascolinità; però, soprattutto da due-tre anni, cioè da quando ha consolidato il suo potere, si è lanciato in invettive contro gli omosessuali, i movimenti Lgbt, gli attori con i capelli lunghi… e ha iniziato a predicare sull’importanza di essere dei veri maschi.

Al suo arrivo al potere nel 2012, Xi Jinping aveva imposto a tutti i quadri del partito comunista di guardare un film sulla fine dell’Unione sovietica di Gorbaciov, dove si raccontava come Gorbaciov, col suo tradimento, portò alla fine dell’URSS: in primo luogo perché aveva abbandonato l’ideologia, e poi perché non si era sollevato, come un vero macho, per difendere il regime. Usa proprio questa parola, nanzi han in cinese. Il tutto per dichiarare che sarà lui il macho che impedirà la caduta del partito cinese.

Nessuna dialettica

La differenza tra Mussolini e Xi Jinping è che il primo è il fondatore del partito, mentre il secondo ne è solo un erede. Però quando Xi Jinping arriva al potere, vede che il partito è in uno stato di grande confusione. Il suo predecessore Hu Jintao, che per dieci anni era stato segretario generale del partito, presidente dello stato e presidente della commissione militare centrale, aveva lasciato il partito in uno stato terribile. Spiegabile, sempre secondo Xi, col fatto che Deng Xiaoping, dopo la morte di Mao Zedong, per impedire il ritorno del culto della personalità e la ripetizione della tragedia della Rivoluzione culturale, aveva imposto una nuova politica basata su due criteri: la direzione collettiva, e quindi la ricerca del consenso, e la separazione fra partito e governo.

Questo, secondo Xi, aveva portato il partito e il governo all’immobilità. Usa proprio la stessa espressione adottata da Gorbaciov quando parla di Breznev: “stagnatzia”, la stagnazione. In Cina nel 2012, subito prima della salita al potere di Xi Jin Ping, si parla proprio di stagnazione.

Una delle caratteristiche del partito leninista è che non ci sono fazioni interne, tutti devono attuare la linea politica decisa dai vertici dell’apparato.

Nel 2012 c’erano invece delle linee diverse a seconda dei vari dirigenti del partito. Ad esempio, il segretario della provincia del Guangdong - la provincia vicino a Hong Kong - praticava una politica di accomodamento con la società civile che all’epoca stava emergendo sfruttando le zone grigie risparmiate dal controllo del partito; penso alle ong di difesa degli operai e agli avvocati difensori dei diritti civili (weiquan lushi). Quando nel villaggio di Wukan, i contadini si ribellarono contro il segretario del villaggio, Wang Yang, segretario del partito del Guandong, invece di inviare la polizia, mandò un vice-governatore della provincia per negoziare con i loro rappresentanti.

Nel 2010 ci furono grandi scioperi nelle fabbriche della Honda, in Guandong, e invece di reprimere il movimento, Wang di nuovo lasciò che i rappresentanti degli operai negoziassero le loro rivendicazioni con i dirigenti dell’azienda. Questa era la sua linea.

Allo stesso tempo, a Chongqing, l’enorme metropoli del sudovest della Cina, un altro dirigente, Bo Xilai, applicava una politica neomaoista: in nome della lotta contro la corruzione denunciava gli imprenditori privati, li accusava di essere mafiosi e riabilitò le canzoni rivoluzionarie. Il motto era: “Cantare rosso, colpire il nero” (chang hong da hei), con il nero a rappresentare le mafie.

Due linee molto diverse. Ecco, per Xi Jinping bisognava porre fine a questa situazione e per farlo ci voleva un uomo forte. Xi Jinping si presentava dunque come il macho che avrebbe impedito il crollo del regime. Per creare l’immagine dell’uomo forte, ha mobilitato le risorse della propaganda lanciando un culto della personalità: la sua foto compare tutti i giorni sulla prima pagina del Quotidiano del popolo.

Certo, Xi non può presentarsi come un uomo forte nello stile di Putin, che è cintura nera di karate. Allora, si è ispirato al populismo di Bo Xilai, il numero uno di Chongqing, che appena salì al potere, andò a mangiare delle brioche in un quartiere di Pechino per far vedere che era vicino al popolo, che non usava i privilegi della sua funzione. Poi lanciò una grande campagna contro la corruzione per sbarazzarsi dei suoi rivali all’interno del partito e stabilire la sua egemonia.

Tuttavia, a differenza di Mao, che usava le masse per abbattere i suoi rivali come durante la Rivoluzione culturale, Xi Jinping è più simile a Stalin: usa l’apparato del partito (nello specifico la commissione di controllo della disciplina) come una sorta di Nkvd, per sbarazzarsi dei suoi avversari.

Xi ha posto fine a un’altra delle eredità di Deng Xiao Ping, la separazione fra il partito e il governo. Mentre sotto Mao il partito dirigeva tutto, sotto Deng Xiaoping e durante i trent’anni della riforma e dell’apertura, questa divisione del lavoro fra i due ha funzionato, e i “competenti” dello stato potevano svolgere una funzione molto importante.

Xi Jinping ha invece deciso che il partito deve dirigere tutto. Anche questo mi sembra un tratto comune col partito fascista. Xi Jinping è diventato presidente di tutte le commissioni responsabili della realizzazione delle diverse politiche. Lo dice lui stesso apertamente: a nord, a sud, a est, a ovest, al centro, il partito dirige tutto.

Un ulteriore aspetto in comune col fascismo, più ideologico, è il nazionalismo. Xi Jinping, un po’ come Mussolini, recupera l’eredità dell’impero. Se Mao aveva creato un nuovo sistema, e sosteneva di voler costruire una grande Cina popolare, la Mecca del movimento rivoluzionario, Xi Jinping sostiene invece che la Cina è l’erede dell’impero e vuole realizzare il grande risorgimento della nazione cinese. In questo assomiglia anche a Putin e, ovviamente, ci ricorda qualcosa del “Mare Nostrum” fascista. Ma questo impero è un impero Han, (l’etnia maggioritaria), non è l’impero Qing, l’impero Manciu, che lasciava libertà alle diverse etnie, perché non era uno stato nazione.

Dal 2016, dopo aver sottoposto il Tibet agli ordini del partito, Xi ha lanciato un’enorme campagna in Xinjiang contro le minoranze turcofone, proibendo di usare i nomi musulmani, di portare l’hijab, di far crescere la barba, obbligando le famiglie uigure a bere alcol e a mangiare maiale.

Se non è un genocidio volto all’eliminazione fisica, è comunque il tentativo di distruggere culturalmente uiguri e kazaki.

E infine la lotta contro i valori universali. Quando Xi Jin Ping è arrivato al potere, già nel 2012 una delle sue prime azioni è stata l’adozione di un documento del partito che proibiva ogni riferimento ai “valori universali”, quindi società civile, separazione dei poteri, libertà di stampa, erano termini che non potevano essere menzionati nella stampa o nelle università.

Questa negazione dei valori liberali è abbastanza simile a quella in vigore sotto il fascismo e ovviamente nello stalinismo. In entrambi i casi il partito cerca di eliminare la società civile. Quindi questo regime si caratterizza per autoritarismo, egemonia del partito e nazionalismo.

A tutto questo va aggiunto una novità rispetto al passato: l’importanza della sorveglianza della società. Xi Jinping ha a disposizione dei mezzi che né Mao, né Stalin, né Mussolini avevano. Oggi con l’alta tecnologia, e soprattutto dopo il Covid, il controllo dell’insieme della società, di tutti gli individui, è diventato possibile.

Ci troviamo di fronte a un totalitarismo 2.0, dove non è necessario ammazzare, commettere massacri su grande scala (anche se non si esita a incarcerare centinaia di migliaia di persone) perché si può comunque imbavagliare la società civile.

* * *

Jean-Philippe Béja è ricercatore presso il Centre d’études français sur la Chine contemporaine di Hong Kong e direttore di ricerca al Centre national de la recherche scientifique di Grenoble.