Le coop non si autoriformano
Dalpalù ormai impresentabile, viene avanti Giorgio Fracalossi. Non rinnoverà alcunché, ma – proprio per questo - attorno a lui si coagulano i dirigenti della Cooperazione.
È stato Questotrentino a dare una scossa alla Federazione delle Cooperative. “Ho consumato un toner nel fotocopiare il vostro articolo” ci ha rivelato un cooperatore (giustificandosi: “Beh, in edicola non si trovava più...”) ed altri invece duplicavano e inoltravano il pdf. Il che non ha giovato alle nostre sempre asfittiche casse, ma ha sicuramente diffuso le nostre idee e la nostra denuncia (QT di maggio: “Rimpiangere Schelfi?!”) sulla nomenklatura cooperativa, che aveva “ripescato nella propria cerchia il successore più immeritevole, Renato Dalpalù, responsabile della crisi del Sait e del crack della BTD”.
In via Segantini è così apparso chiaro un dato: l’impresentabilità della candidatura Dalpalù non poteva essere nascosta sotto il tappeto. E con il fallimento della BTD ormai ufficiale e sempre più devastante (52 dipendenti disoccupati, i creditori furibondi, il Tribunale ormai pienamente coinvolto anche con indagini di natura penale) sostenerne ancora il responsabile più in vista nella corsa a presidente dell’intero movimento cooperativo, era semplicemente un suicidio.
E così Dalpalù è passato prima a una “pausa di riflessione”, poi alla “decisione sofferta” di ritirarsi dalla corsa alla presidenza, “per evitare strumentalizzazioni”. Vediamo qui, oltre le troppe parole di rito che si sono spese, il senso di questo ritiro e le sue conseguenze dentro il movimento cooperativo e la sua profonda, sottaciuta crisi.
Dalpalù alla BTD
Renato Dalpalù nemmeno nel ritirarsi ha compiuto un’operazione trasparente. Anzi, ha palesemente, pubblicamente mentito. Ha dichiarato infatti (vedi L’Adige del 19 maggio): “In BTD ho avuto un ruolo di controllo, non di gestione”, concetto poi ribadito in un’intervista: “All’interno di BTD Servizi Primiero ho ricoperto sempre e soltanto il ruolo di presidente del comitato di controllo senza aver mai avuto alcun ruolo operativo nella cooperativa”.
Ora, a parte il fatto che essere “soltanto” presidente dei controllori in una società che repentinamente va a catafascio pone serissimi interrogativi sulla propria attività, su cui confidiamo che il Tribunale faccia piena chiarezza; a parte questo, dunque, nei registri della Camera di Commercio è scritta un’altra verità. Risulta che in BTD il 4 maggio 2007 Renato Dalpalù era sì stato nominato membro del comitato di controllo sulla gestione (formato da 2 persone, è in pratica il collegio sindacale), ma anche consigliere d’amministrazione, che nel 2010 viene confermato in entrambe le cariche, e così ancora nel 2013. Solo nel novembre del 2014, quando la società cambia assetto, sostituendo al comitato di controllo il collegio sindacale, lui ne diviene presidente, contemporaneamente abbandonando la parallela carica di consigliere di amministrazione.
Quindi se essere “solamente” a capo del collegio sindacale costituisce un attestato di verginità, questo vale solo a partrire dal 24 novembre 2014.
Il caso però è ancora più spinoso. Il crollo della BTD è infatti troppo repentino: il bilancio 2013 si chiudeva come i precedenti in buona salute, con un utile di 360.000 euro, eppure dopo pochi mesi ecco arrivare il crack, non si riesce a chiudere il bilancio 2014, Dalpalù in fretta e furia si defila (l’1 dicembre viene nominato, per altri 3 anni, presidente del collegio sindacale, ma si dimette dieci giorni dopo, l’11 dicembre), e nei primi mesi del 2015 vengono chiusi i cantieri e portati i libri in Tribunale.
Come è possibile? Quanto erano attendibili questi bilanci che dicevano che tutto andava bene? C’è stata una tenuta scorretta dei libri contabili?
Di questo interrogativo è stato appunto investito il Tribunale, e già L’Adige ha pubblicato la testimonianza di un fornitore che lamenta una gestione allegra delle sue fatture. Di certo, se irregolarità ci sono state, il primo responsabile sarebbe Dalpalù, che come amministratore redigeva i bilanci, e come controllore (la sovrapposizione dei due ruoli è abnorme, ma tranquillamente ammessa nella cooperazione, dove gli stessi soggetti accumulano cariche a bizzeffe) li verificava. Anzi, il caso va oltre la BTD e coinvolge la Cooperazione. La quale, proprio per tutelare soci e partner economici, sottopone i bilanci delle coop alla Revisione Cooperativa, presieduta dal dott. Enrico Cozzio, noto peraltro ai lettori di QT per la severità con cui ha censurato i recenti bilanci della LaVis. Ora, se in BTD bilanci allegri ci sono stati, di chi è la responsabilità? Dell’amministratore Dalpalù, del controllore Dalpalù, del revisore Cozzio? Si sono tutti sbagliati?
Interrogativi molto gravi. E allora il punto non sono più le bugie di Dalpalù. Al quale non auguriamo certo male, e di cui anzi possiamo capire il disorientamento di fronte al precipitare di avvenimenti avversi e forse rovinosi. È il solito discorso di Petrolini, che a fronte dello spettatore che da un palco rumorosamente lo contestava, ebbe a dire: “Non ce l’ho con te; ma con quell’imbecille del tuo vicino che non ti butta giù”. Così noi non ce l’abbiamo con Dalpalù, che annaspando si difende come può, ma con gli altri, gli alti papaveri di Federcoop.
Costoro, di fronte ad una tale situazione, che rischia di incrinare la credibilità del movimento, di fronte alle devastanti relazioni della propria Vigilanza cooperativa, non trovano di meglio che esprimere “solidarietà” al povero Dalpalù, quasi fosse vittima di un incidente stradale. Sentite cosa dice Schelfi: “Mi fido ciecamente di Dalpalù, sia dal punto di vista morale ed etico sia professionale”.
Lasciamo il commento a Marina Mattarei, anche lei del cda di Federcoop: “Qui si confondono due piani che occorre tener distinti. Una cosa è la solidarietà personale (ma forse si dovrebbe iniziare a solidarizzare con le decine di famiglie che in Primiero ora sono senza lavoro); un’altra quella istituzionale. Da questo punto di vista Renato Dalpalù non è difendibile. E se altre sono le sedi deputate a decidere su sue eventuali responsabilità penali, dal punto di vista politico-istituzionale le sue responsabilità oggi sono chiarissime, le sue dimissioni un atto dovuto”.
Ma per i papaveri di via Segantini, questo conta zero. Dalpalù era uno del loro giro, per questo lo avevano scelto alla successione di Schelfi, indipendentemente dai suoi meriti (nulli nella fallimentare presidenza di Sait); ora che è scoppiato lo scandalo BTD, non lo possono più spendere pubblicamente, ma attorno a lui, con perfetto spirito di casta, si chiudono a riccio.
Lo sbandamento
Il colpo comunque lo accusano. Di fronte ai problemi del movimento, tre anni fa, non sapendo che pesci pigliare, si erano inventati il quarto mandato a Diego Schelfi, risoltosi in un immobilismo che oggi tutti, magari obtorto collo, riconoscono disastroso. A febbraio avevano incaricato uno di loro, il Renato, per succedere al Diego, senza alcun mandato, progetto, prospettiva, che non fosse la successione di un decisionista rampante ad un bonaccione ormai spompato. Precipitato il rampante, sono rimasti spiazzati. Anche perché la finora debole fronda interna è riuscita a coagulare attorno a un candidato credibile, il direttore del Dipartimento di Economia Geremia Gios, i dubbi, le scontentezze, i desideri di rinnovamento di un movimento in evidente crisi.
E allora la nomenklatura prende tempo. Istituisce al suo interno un “Comitato di saggi” con l’incarico di sbrogliare la matassa. E i saggi convocano due volte Gios per dirgli di essere d’accordo su 9 punti su 10 del suo programma; e contemporaneamente gli chiedono di ritirarsi.
Naturalmente si beccano delle pernacchie. Allora ipotizzano di rinviare la data - incombente, il 12 giugno - dell’assemblea per l’elezione del presidente; o in alternativa di prorogare, per tre mesi ancora, l’esausto Schelfi... Una serie di trovate penose, a indicare uno stato di sbandamento. Anche perché Gios nel frattempo va avanti con la sua campagna, mette in chiaro che la Federazione è da rivoltare come un calzino, a iniziare dai suoi costi, i suoi stipendi, i suoi incredibili ed indecenti cumuli di cariche. E si inizia a temere che queste cose ora le dice, e poi magari, se vince, le fa anche.
Poi i boss trovano la quadratura del cerchio. Dopo mille pressioni riescono a convincere a candidarsi il presidente del credito cooperativo, Giorgio Fracalossi. E questa sembra essere la mossa giusta. O meglio, attorno a Fracalossi serra le fila il grosso dell’establishment.
Chi è Fracalossi, e come mai c’è questa nuova fiducia in lui?
Prima di rispondere a questa domanda, vediamo la situazione del movimento, i problemi cioè che il nuovo presidente dovrebbe affrontare.
I guai della cooperazione
Famiglie cooperative. Il settore versa in progressiva crisi. Nell’ultimo anno le 76 cooperative di consumo hanno perso il 4,54% del fatturato, e di esse ben 32 sono in perdita. Colpa della crisi, si dice. Ma in contemporanea la crisi non ha impedito ai concorrenti Supermercati Poli, come pure alla centrale d’acquisto Dao (cooperativa anch’essa, ma “eretica”, malissimo vista in via Segantini) di aumentare fatturati e punti vendita, con un’espansione anche fuori provincia.
Il punto debole delle coop sembra essere la propria centrale d’acquisto, il Sait (presidente proprio Dalpalù), che ha perso oltre il 6% di fatturato, e che scarica sulle Famiglie Cooperative i deficit dei Superstore, un’avventura ormai fuori dalle logiche economiche. A questo si aggiunga il problema dei piccoli punti vendita periferici e della loro diseconomicità complessiva unita all’evidente utilità sociale, cavalcato però in maniera strumentale per ottenere agevolazioni urbanistiche nei fondovalle o, peggio, stop urbanistici ai concorrenti. Insomma, il settore risulta gestito molto male, economicamente e politicamente.
Agricoltura. Qui il problema non è la crisi, ma le prospettive, soprattutto per i due comparti maggiori, mele e viticoltura. Il dilemma è il solito, quantità o qualità? E al di là delle chiacchiere, i colossi cooperativi - Cavit, Mezzacorona, Melinda - hanno scelto la quantità. E così nel vino, il piano Pedron - che proponeva di lasciar perdere la sciocchezza del terzo polo della LaVis, di far andare per conto proprio Mezzacorona e la parte industriale di Cavit, opportunamente scorporata, di aggregare le cantine sociali attorno a progetti di qualità - è stato osteggiato e messo in un cassetto (impagabile Diego Schelfi, che richiesto di un parere, allargava le braccia: “Io di vino non so molto”). La scelta della quantità, ulteriormente riaffermata di recente, con la decisione di aumentare le rese per ettaro (cioè più uva, meno buona) sta riaprendo la frattura con il settore privato; e soprattutto, in un territorio come il Trentino, è di dubbia lungimiranza. Stesso discorso per le mele, dove la chiusura verso il biologico, la spinta alla quantità con riflessi sulle qualità organolettiche del prodotto, rischiano di appannare anche marchi di eccellenza come Melinda che, come dimostrano le incertezze nel trovare un nuovo direttore, non sa bene come andare avanti.
Produzione e lavoro. Settore molto articolato, presenta situazioni differenziate. Un dato però dalla recente assemblea sembra emergere chiaro: la rappresentanza politica e sindacale della Federazione non è adeguata. Le recenti normative sugli appalti, come pure quelle sugli affidamenti alle cooperative sociali dopo lo scandalo di Mafia capitale, risultano ostiche e punitive: qui le coop, in genere ritenute privilegiate, lamentano un insufficiente peso politico della Federazione.
Credito. Lo abbiamo lasciato per ultimo: è il settore più ricco, sul cui gettito campa la Federazione, è quello da cui proviene Fracalossi e si trova in una situazione molto delicata.
Per due ordini di motivi. Primo: le Casse Rurali, oltre ai casi conclamati (Folgaria è commissariata, Aldeno ha avuto l’invito da Bankitalia a cambiare governance, Rovereto ha grossi problemi) globalmente sono in deficit: non tutte, ma il consolidato - anche escludendo il caso più grave di Folgaria - è negativo. Intendiamoci, il sistema è solido, in quanto il patrimonio c’è ed è consistente, ma l’andamento degli ultimi anni è comunque preoccupante.
I motivi vanno oltre l’esiguità delle dimensioni. Ci sono le specifiche crisi di settori cui le Casse Rurali si sono legate (edilizia, impianti di risalita, porfido); ma più in generale sembra oggi mancare la capacità di erogare il credito alle aziende del luogo sapendo discernere tra chi merita fiducia e chi no. E questa capacità è il motivo fondante del credito cooperativo, per la quale dovrebbe distinguersi dai grossi gruppi; ma deve essere reale, non meramente evocata. E coinvolge anche la governance, il tipo di rapporti tra i clienti e gli amministratori (esemplare il caso di questi giorni di alcuni soci della Cantina LaVis, che pretendono che le Rurali diano credito alla loro azienda decotta), come pure le capacità dei dirigenti, legate peraltro alle dimensioni e alle scarse possibilità di carriera, per cui un giovane brillante, se può, non resta nella banchetta di paese, anche perché gli viene ostacolato il passaggio a Cassa Centrale. E qui si sconta un altro equivoco di fondo: le Rurali sono un sistema o sono concorrenti?
Con tutto questo, l’insieme viene ancora tenuto in piedi dal buon funzionamento della Cassa Centrale e anche di Phoenix Informatica Bancaria.
Ora però si sovrappongono ulteriori criticità: i propositi del governo e le direttive europee, che con forza spingono verso i grandi gruppi bancari. Ma anche Bankitalia, con i suoi concreti comportamenti, spinge in questa direzione: quando controlla una Cassa Rurale con lo stesso rigore di un grande gruppo fa un favore al secondo, non certo alla prima. Tali dinamiche sembrano voler segnare la fine del credito cooperativo (CC) e in particolare di quello trentino.
Di fronte a questa deriva, ci sono varie soluzioni.
1. Accettare l’inglobamento in Federcasse, il gruppo che già (attraverso ICCREA Holding) fornisce servizi a 400 banche di CC. Questo grande gruppo nazionale viene visto in via Segantini come il fumo negli occhi, perché troppo accentratore, pervaso da logiche politiche romane.
2. Creare un gruppo di dimensioni adeguate, mettendo assieme le Rurali trentine, Phoenix, le Raiffeisen sudtirolesi, Mediocredito, le CC venete e quelle emiliane. Su questo progetto si sono spesi il direttore generale (e mente) di Cassa Centrale Mario Sartori, Diego Schelfi e da ultimo Fracalossi. Con risultati deludenti: le Raiffeisen vogliono rimanere per conto loro, Phoenix non è felice (ha molti clienti oltre le CC, che l’abbandonerebbero se non fosse più una società indipendente) e gli emiliani a questo punto non si fidano più; rimangono le CC venete, che però sono gravemente indebitate, e anche su Mediocredito c’è chi ha da eccepire (vedi interrogazioni di Zeni e Degasperi in Consiglio Provinciale da noi riportate lo scorso numero; e anche qui salta fuori la mancanza di una visione di sistema, per cui Mediocredito, di fatto inglobata nel sistema cooperativo, si è trovata, pur con personale valido, senza un ruolo, forzata a cercarselo, pur di non creare concorrenza alle Rurali, in improbabili espansioni fuori provincia).
3. Fare come i sudtirolesi un sistema piccolo ma efficiente e indipendente. Ma bisognerebbe avere forza politica a Roma; e il sistema dovrebbe essere davvero efficiente, e qui si torna alle problematiche iniziali.
La soluzione più probabile, a questo punto, rimane l’inglobamento in FederCasse, con qualche parvenza di autonomia, oppure in un gruppo del nord Italia, se nascerà. Cambierebbe soprattutto il ruolo di Cassa Centrale, che rischia di essere assorbito da Iccrea.
Il candidato dei papaveri
In questa situazione (cui sono da aggiungere i temi generali, che abbiamo già trattato nei numeri scorsi: la dipendenza delle coop di primo grado dai consorzi, dei soci dai cda, dei cda dai manager; il formarsi di un ceto di dirigenti cooperativi inamovibili, dalle non eccelse competenze ma dai ricchi emolumenti e dai molteplici incarichi) come si inserisce la candidatura di Giorgio Fracalossi?
L’uomo è efficiente. Nel suo mondo, quello del credito, è anche amato (a differenza di Dalpalù, che nel consumo è soprattutto temuto). Non è quindi privo di qualità.
Ma a nostro avviso non ha le caratteristiche all’altezza della situazione. È un uomo dell’establishment cooperativo e come i suoi sodali condivide un’impressionante sovrapposizione di cariche (presidente di Cassa Centrale Banca, di Informatica Bancaria, di Centrale Finanziaria del Nord Est spa; consigliere di CRR Fin-Casse Rurali-Raiffeisen Finanziaria spa, di I.B. Fin-Informatica Bancaria Finanziaria spa, di Federcasse; oltre che vicepresidente della Federazione della Cooperazione Trentina). Sinceramente non ci sembra proprio che affronterebbe i problemi di fondo della cooperazione; anzi, neanche ci pensa.
Inoltre non sa niente degli altri settori. A L’Adige confessa: “Delegherò la gestione ai quattro vicepresidenti” e alla domanda “Con che progetto si candida?” risponde serafico: “Parlare di progetto è prematuro”; e per finire ricorda di non essere “onnisciente” e rivendica che non sarà “onnipresente”.
Una persona quindi, magari valida, ma la cui operatività non va certo sull’ampio orizzonte (e lo si è visto nella peraltro difficilissima partita delle alleanze nel credito). E le sue dichiarazioni sono proprie di chi si appresta a gestire l’esistente, non certo a rinnovare un movimento in crisi. Il che, in fondo, è quanto volevano i papaveri della Federazione.
Il fatto è che attorno a Fracalossi i papaveri stanno aggregando la maggioranza del movimento. Geremia Gios era candidato di minoranza contro Dalpalù. La caduta del presidente del Sait ne aveva aumentato a dismisura le quotazioni. Ma ora, attorno a Fracalossi, c’è stato un rapido ricompattamento. I dirigenti centrali, i presidenti di consorzio si sono messi a telefonare alle coop sollecitando il voto in una precisa direzione. E le coop hanno obbedito. Nelle assemblee di settore sono stati eletti nel cda solo candidati ortodossi, legati al potere centrale (e magari anche discutibili e discussi, come Mauro Coser, presidente della Società Frutticoltori Trento, tra i responsabili della frammentazione dei consorzi della Val dell’Adige e sotto inchiesta per una presunta truffa sui contributi europei). E a completare il quadro, non è stata rieletta Marina Mattarei, presidente della Famiglia Cooperativa di Rabbi e storica voce della minoranza dissidente. “Si è voluto escludere la dialettica interna - commenta Mattarei - Credo sia miope. Ho colto uno spirito vendicativo contro chi ha denunciato tutta una serie di comportamenti: non sono cose che fanno bene, il pensiero non lo si può fermare così”.
Sta di fatto che il rinnovamento aperto con la candidatura Gios, e che stava crescendo, ora sembra già finito. E il movimento, che tutti sanno essere in crisi, ripiega su se stesso. “Non c’è nessuno che sostenga che le cose vadano bene così come stanno, tutti parlano della necessità di una discontinuità - prosegue Mattarei - Poi però per la maggioranza la discontinuità viene vista entro il perimetro del gruppo dirigente”.
Insomma, oggi come oggi, il movimento cooperativo non sembra in grado di autoriformarsi. Non è una bella notizia.