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QT n. 6, giugno 2011 Cover story

Referendum: fuori l’acqua dal mercato

Le molte ragioni per votare due sì

Così ci siamo arrivati: il 12 e 13 (solo fino alle ore 15) prossimi si vota per la ripubblicizzazione dell’acqua. Già essere arrivati fin qui è un risultato: la discussione sul futuro degli acquedotti ha segnato questa stagione politica, ha fatto percepire agli italiani l’importanza del problema, e nessuno si vanta più di voler “privatizzare l’acqua”, anche chi vuole farlo usa adesso il termine “liberalizzare”. Del tutto impropriamente per l’acqua, perché l’acqua è un monopolio naturale, nelle case arriva e può arrivare solo un unico acquedotto.

Liberalizzato è il mercato del pane, dove voi potete la mattina scegliere se andare da un forno o da quello di fronte, dopo aver fatto un esame del rapporto qualità/prezzo. La gestione degli acquedotti non si può “liberalizzare”, si può solo privatizzare: una scelta fra candidati diversi può esserci esclusivamente nel momento della gara di appalto per la gestione, ma una volta fatta la scelta, per dieci o vent’anni, non c’è più nessuna concorrenza (chi gestisce stacca le bollette, e il cittadino può solo pagare). E una volta fatto, una volta che i nostri acquedotti sono stati privatizzati e sono alla fine arrivati in borsa, non si torna indietro, ed i cittadini/utenti non contano più nulla.

Pensate un po’ voi a cosa avrà in mente l’amministratore delegato di una Spa quotata in borsa nel momento in cui farà le sue scelte: evidentemente avrà in mente solo ed esclusivamente la reazione della borsa il giorno dopo: se la borsa gradirà la scelta le azioni saliranno, altrimenti scenderanno. E la borsa chiede a tutte le società un’unica cosa: di aumentare i profitti diminuendo i costi; dove i profitti sono i dividendi che verranno distribuiti agli azionisti e i costi sono gli investimenti necessari per una buona qualità dei servizi idrici al cittadino.

Non c’è da meravigliarsi che gli investimenti nel settore siano crollati a partire dal momento - il 1994 - in cui ha cominciato a diffondersi in Italia la privatizzazione, passando dai 2 miliardi di euro come media annua per il periodo 1986-1995, ai soli 700 milioni del decennio successivo 1996-2005, quando la privatizzazione si era già prepotentemente affermata in Italia.

La privatizzazione non è una novità

La privatizzazione delle gestioni idriche in Italia infatti non è iniziata con il decreto Ronchi, confermato in legge a fine 2009. Ronchi ha solo provato a dare il colpo finale alla privatizzazione imponendo entro il 2015 la decadenza delle gestioni dirette degli enti pubblici e l’obbligatoria cessione ai privati di almeno il 40% dei pacchetti azionari delle società attive nel settore (ed al loro interno un ruolo operativo dei privati).

Ma il processo di privatizzazione in Italia data dal 1994, dalla legge Galli che diede ai privati la “possibilità” di accesso al settore, e da allora è stata una corsa a trasformare acquedotti municipalizzati in società per azioni, e ad aprire queste nuove Spa, inizialmente in mano agli enti pubblici, ai privati. Insomma la privatizzazione è dilagata, grazie anche ad una normativa che prevede profitti garantiti (si considera del 7%) nel settore, qualunque cosa accada e qualunque sia la qualità del servizio: profitti garantiti da ricaricarsi automaticamente “per legge” sulla bolletta, cioè sulle spalle del cittadino/utente.

Oggi tutte le grandi città italiane (Milano, Roma, Genova, Torino, Bologna ecc.) hanno i propri acquedotti gestiti da Spa quotate in borsa. Ed anche la trentina Dolomiti-energia, che serve il 40% delle utenze trentine (comprese le città di Trento e Rovereto), è stata costituita nella sua forma attuale nel 2008, con un programma di marcia diviso in tre fasi: la terza ed ultima fase prevista è appunto quella della quotazione in borsa (non ancora avvenuta, anche a causa delle proteste dei movimenti per l’acqua, ma prevista dai documenti fondativi).

Abbiamo insomma ormai oltre un quindicennio d’esperienza della privatizzazione e possiamo trarne un bilancio prima di andare a votare il referendum imponendo una revisione delle politiche nel settore, o non andarci e lasciando quindi - se non verrà raggiunto il quorum dal 50% + 1 degli aventi diritto - che il processo di privatizzazione arrivi all’esito finale, quello della completa finanziarizzazione del mercato delle gestioni idriche in Italia.

Un’esperienza negativa

Già la caduta degli investimenti ad 1/3 di quelli che erano in tempi di gestione pubblica la dice lunga su rischi futuri (investimenti continui in manutenzione sono necessari anche solo per mantenere in equilibrio la situazione attuale: buona da noi, molto meno a livello nazionale). Ma possiamo ricordare anche una valutazione al di sopra delle parti, di quella Corte dei Conti, che è il pezzo dello stato delegato a spulciare le spese. Il 26 febbraio 2010 la Corte dei Conti, passando al setaccio il settore dei servizi, è arrivata alla conclusione che i profitti delle utility privatizzate si devono “in larga parte più che a recuperi dell’efficienza sul lato dei costi, all’aumento delle tariffe che risultano notevolmente più elevate”. E alla base di questo meccanismo negativo la Corte indica proprio quel conflitto che il referendum punta a risolvere alla radice, nell’interesse del cittadino: la privatizzazione - secondo la Corte - “genera un potenziale conflitto d’interesse tra gli utenti, interessati all’economicità del servizio, e gli azionisti, interessati ai ritorni finanziari”.

Insomma il bene comune dell’acqua non può essere messo nelle mani di un mercato dominato dalla sola logica del profitto. Perché è un settore basilare, sul quale poggia la qualità della vita di tutti noi, ma anche l’efficienza dei vari settori economici: pensiamo alla necessità di buoni servizi idrici anche solo per la nostra economia turistica. Ed i conti sugli investimenti strategici non si possono lasciare in mano alla speculazione finanziaria, con i suoi orizzonti basati su ritorni di breve periodo. Ci sono cose che il privato non fa e non farà mai, ma che sono necessarie per la collettività. Questo è il campo del pubblico, e non ha senso lamentare le inefficienze del pubblico per darle da fare al privato. Il privato non farà quelle cose meglio, ne farà - legittimamente - altre, farà i suoi interessi, lasciando perdere gli interessi collettivi. Nessuno ci può esonerare dalla necessità di vigilare continuamente sul funzionamento del pubblico, e di chiederne una migliore efficienza, ma è un altro problema.

Il 12 e 13 siamo chiamati a decidere sul processo di privatizzazione dei servizi idrici, partecipando al referendum con 2 per la ripubblicizzazione.

Senza farci distrarre dai fuochi d’artificio che il governo metterà in campo prima della data del voto. In particolare riguardo alla costituzione di una Authority per il settore, che, se in via di principio sarebbe anch’essa una conquista del movimento referendario, nel concreto - per come è stata annunciata - sarà invece una pessima authority, senza alcuna vera autonomia, e quindi inutile.