La crisi, l’indignazione, la proposta
Acqua: dalla manifestazione nazionale alle campagne internazionali contro i megaprogetti in Cile. Con un’intervista a Juan Pablo Orrego.
“Perché ora stiamo tutti assieme”, avrei dovuto rispondere. La ragazza ha continuato a guardarmi con una certa deferenza, ma con occhi che facevano capire che non capiva. Trento, Sociologia, Aula 16, assemblea degli universitari. Mi chiamano per parlare di acqua, abbiamo vinto un referendum storico, il 13 giugno, eppure vige il silenzio. Fra gli scranni governativi, dai quali sono partiti decreti e finanziarie che parlano la lingua della privatizzazione; e in parte della popolazione, che 5 mesi fa ha votato per l’abrogazione dei profitti sull’acqua - il cosiddetto full recovery cost, la percentuale minima del 7% della nostra bolletta, ma mediamente più alta, che andava senza condizioni al soggetto privato che gestiva il servizio idrico- e del “decreto Ronchi” che imponeva la svendita di quote di servizi pubblici a soggetti privati. E che ora pare annichilita.
La ragazza, molto giovane e molto carina, alla vigilia della manifestazione studentesca dello scorso 17 novembre - a Trento come in molte città del mondo, per la giornata internazionale del diritto allo studio - durante l’assemblea dice che lei non ci crede più, che è da quando è alle superiori che manifesta e che non è servito a niente. Che invece dobbiamo agire in maniera matura, “renderci conto che il privato fa parte del nostro esistente, che la finanziarizzazione ha in mano le nostre vite. Che dobbiamo smettere di sognare”. Proprio così ha detto. Non ha nemmeno 25 anni.
Io parto snocciolando dati e ricordando la recente campagna “Acqua bene comune”, che ha portato 27 milioni di persone alle urne, il più alto quorum raggiunto nella storia della Repubblica. Le dico che un percorso nuovo è in atto e la battaglia per l’acqua è paradigmatica, perché colpisce uno dei nodi strutturali del modello liberista; che la vittoria referendaria non è stata la fine, ma una tappa di un lungo percorso che vede il suo fulcro nella costruzione di un nuovo modello di società. Un percorso in salita: la BCE, l’ex Governo Berlusconi, il nuovo solerte Governo Monti, l’articolo 4 della Finanziaria: tutto concorre a disconoscere l’esito referendario e il suo significato, e ad attaccare lo stato sociale e l’autonomia degli Enti locali. Ma che fino ad ora è riuscito a mettere insieme “parrocchie e centri sociali”. Certo: bisogna organizzarsi, studiare, autoformazione, incontri, comunicare, pensare diverso, avere coraggio. Vedo ancora il vuoto in fondo ai suoi occhi. L’unica cosa che dovevo veramente dirle è: “Ora siamo tutti assieme”.
Ecco l’elemento innovativo rispetto alle manifestazioni di qualche anno fa, al movimento contro la guerra in Iraq, quello di Seattle e Genova e dei forum mondiali: oggi gli studenti stanno al fianco degli operai, che stanno dentro il movimento per l’acqua bene comune, che è stato ai congressi della Fiom, che ha gridato contro la Gelmini. Stanno imparando a farlo. E parlano la stessa lingua. Hanno davanti lo stesso nemico e dietro le stesse dinamiche: politiche liberiste, mercificazioni violente, che hanno suscitato una unanime reazione e rafforzato una comune visione: la necessità di una democrazia fondata sulla partecipazione per affrontare una crisi sistemica che non fa differenza di colore o di specie: studenti, risorse, territorio, lavoro, famiglia, felicità. Tutto uguale, tutto svendibile. Tutto per far sopravvivere il sistema del bankfare.
Acqua e lavoro e privilegi politici e studio. Non solo. Italia come Spagna come Grecia come Inghilterra. E ancora: Europa come America latina come Stati Uniti, come Medio Oriente.
Dal Cile: uno scempio firmato Italia
Juan Pablo Orrega è cileno. È un noto ambientalista, ha dedicato la sua vita alla difesa dei fiumi e degli ecosistemi del suo Paese, una terra lunga e stretta devastata da una dittatura oscena.
“Mia madre era socialista, mio padre comunista. Mio nonno molto comunista”, ci racconta, mentre posa con cautela il charango che sta imparando a suonare, perché è anche musicista. Ha suonato con Victor Jara, voce vibrante della terra cilena. Jara è uno dei primi che Pinochet fa trucidare e Juan Pablo uno dei tanti che deve scappare. Ma poi torna. Studia ecologia, si oppone alla distruzione del fiume Biobio in nome dell’idroelettrico, al fianco della comunità indigena Pehuenche. Vince prestigiosi premi, fra cui il Nobel alternativo nell’88, il premio Goldman nel ‘97 e il Right Livelihood Award, e diventa presidente della Corporación Ecosistemas (Santiago) e coordinatore internazionale del Consiglio di Difesa della Patagonia (CDP), una coalizione di 70 organizzazioni di Cile, Bolivia, Stati Uniti, Canada, Spagna ed Italia, e fra poco Germania e Belgio. La missione del CDP è difendere l’integrità ambientale e culturale della Patagonia cilena. In particolare, contro il megaprogetto idroelettrico HydroAysén (HA), combattuto attraverso la campagna internazionale Patagonia Senza Dighe (PSR).
Juan Pablo ci racconta - durante la serata organizzata lo scorso 22 novembre da Yaku e Ya Basta a Trento, al Centro Formazione Solidarietà di Hidroaysén: “È un megaprogetto di cinque centrali idroelettriche, due nel Baker e tre nel Pascua, i più importanti fiumi per portata d’acqua. Costa 5 miliardi di dollari, vorrebbe produrre il 20% del fabbisogno del Paese, ma prevede con una rete di oltre 2300 km., di far arrivare l’energia prodotta a Santiago e alle sue industrie del rame. Alla popolazione locale niente. Bollette più salate perché l’energia costa meno in base al consumo, non al luogo dove si produce. Ma 6000 ettari di terra sommersi, deforestazione, attività produttive (pesca, allevamento, turismo) compromesse. Gli studi che abbiamo elaborato, grazie anche all’Università della California, dimostrano che questa energia non serve al Cile, che l’impatto ambientale e sociale sarebbe distruttivo, che si potrebbe ottenere lo stesso quantitativo energetico con metodologie alternative”.
Dunque, l’unico motivo è la speculazione. Chi c’è dietro? L’Enel, principalmente, che possiede anche gran parte dei fiumi cileni. Con l’Enel, lo Stato italiano, che vi partecipa con quote ministeriali (13, 7%) e la Cassa Depositi e Prestiti (17, 4%). La HidroAysén infatti è formata da Colbun per il 49% e per il 51% da Endesa, società spagnola che fa capo all’Enel che la controlla per il 92%. Insomma, dietro la minaccia di distruzione di uno degli angoli più fragili e belli del pianeta - oltre che una delle riserve d’acqua più importanti - ci siamo anche noi, ignari cittadini italiani.
Per ora il progetto è bloccato dalla protesta internazionale. Ma il significato che sta assumendo l’opposizione alle dighe nell’Aysen va oltre: “La campagna PSR è entrata a far parte delle rivendicazioni degli studenti cileni. - ci spiega Juan Pablo - Hanno capito che sono di fronte a un problema sistemico, prima reso invisibile dalla dittatura che in sette anni aveva privatizzato tutto: attraverso il codigo de aguas, minero, electrico, e la militarizzazione Pinochet vende il Paese. E la Ley de Educaciòn, che gli studenti cileni oggi contestano e che ha creato un vero e proprio apartheid sociale. Un sistema che ha creato patologie: disperazione, ma anche indignazione”.
Dunque, anche in Cile difesa dell’acqua, del territorio e del diritto allo studio vanno a braccetto. E parliamo di un movimento studentesco fra i più agguerriti ed organizzati, e non solo per il carisma di una delle sue leader, Camila Vallejo. L’Enel inoltre, è italiana. Ed è quella del Vajont. Ma anche di Dolomiti Energia. E di ACSM Primiero.
Assonanze. Fra soggetti di battaglie trasversali. Ma anche fra obiettivi e strategie. Fra il movimento italiano per l’acqua pubblica, e la campagna cilena, ad esempio: il muoversi su livelli diversi, l’autoformazione, i gruppi di lavoro, la connessione fra lotte sociali di cui si riconosce uguale radice. La connessione con le grandi battaglie degli studenti, che in Trentino è contro la provincializzazione dell’Università. Juan Pablo conclude il suo intervento parlando dell’effetto mariposa: “Pequeños cambios pueden llevar a grandes cambios”. Ecco. Quella era la frase da dire alla dolce fanciulla senza più spazio per i sogni. Piccoli cambiamenti possono portare grandi cambiamenti.
Roma, 26 novembre
Almeno in centomila hanno sfilato per il centro di Roma, il 26 novembre. Una manifestazione riuscita oltre le aspettative. E coraggiosa: dopo i fatti del 15 ottobre, che hanno visto mettere a ferro e fuoco la capitale, non era facile. In piazza stavolta c’era solo il Popolo dell’acqua (niente sigle sindacali o partitiche, nessun’altra vertenza), che chiedeva il rispetto del voto referendario. Decine di migliaia di persone da tutta Italia, con la consueta allegria, vestiti da gocce, da mari, con striscioni e palloncini colorati e le nuove bandiere con il logo “Il mio voto va rispettato”. Un popolo pacifico ma determinato, rappresentativo di un Paese in movimento, propositivo. “La maggioranza del popolo italiano ha votato per l’affermazione dell’acqua come bene comune e diritto umano e per una gestione pubblica e partecipativa del servizio” - dicono dal palco allestito alla Bocca della Verità, il teatro dei grandi festeggiamenti dello scorso 13 giugno, mentre si annuncia il prossimo incontro con il neo Premier Monti. “Ma, ad oggi, nulla di quanto deciso ha trovato attuazione. Dalla crisi non si esce se non cambiando sistema per vedere garantiti il benessere sociale, la tutela dei beni comuni e dell’ambiente, la fine della precarietà del lavoro e della vita delle persone, un futuro dignitoso e cooperativo per le nuove generazioni”.
C’era anche un pezzo di Trentino che marciava per difendere le montagne “madri delle acque” dallo sfruttamento idroelettrico e innevamento artificiale. “Iniziative - spiega Francesca, che viene da Trento - che fanno parte di un modo vecchio di sfruttare il territorio”. Un Trentino le cui istituzioni provinciali stanno approvando la costituzione di una Spa per gestire l’acqua di metà dei cittadini (lo scorporo da Dolomiti Reti del Servizio Idrico entro fine anno per la costituzione di una Spa In House): “Una contraddizione netta con i principi ed i valori espressi dal voto referendario di 11.000 trentini”, dice Andrea, ingegnere roveretano. Il referendum Acqua Bene Comune si richiama infatti alla Legge di iniziativa popolare, il cui faticoso iter è appena ripreso in Commissione Ambiente che dice acqua pubblica senza se e senza ma. E le Spa, ancorché di capitale pubblico, sono enti di diritto privato.
“Con l’alibi della crisi e dei diktat della BCE, il Governo ha rilanciato, attraverso l’art. 4 della manovra estiva, una nuova stagione di privatizzazioni dei servizi pubblici locali, riproponendo il famigerato Decreto Ronchi abrogato dal referendum” - dice Paolo Carsetti, del Forum dei Movimenti dell’Acqua. Per questo il movimento per l’acqua si prepara a lanciare la campagna nazionale ‘Obbedienza civile’, che obbedendo al mandato del popolo, produrrà in tutti i territori e con tutti i cittadini percorsi auto-organizzati e collettivi di riduzione delle tariffe dell’acqua.