Il polverone sui referendum di giugno
Governo e lobby all’attacco.
Il governo sta alzando un polverone sui referendum di giugno contro privatizzazione dell’acqua, centrali nucleari e legittimo impedimento. La speranza evidentemente è che nel polverone si perdano di vista i seggi, ed i referendum manchino il quorum (perché siano validi deve recarsi alle urne il 50% + 1 degli aventi diritto).
Niente election day
Prima manovra contro i referendum è stato il boicottaggio dell’election day, il mancato abbinamento con la data delle elezioni locali che si tengono in primavera in tutt’Italia (ma non in Trentino). Maroni & C. hanno scelto di bruciare 300 milioni di euro (quanto si poteva risparmiare con l’election day) pur di non correre il rischio di aiutarci a fare il quorum. E così la data è stata decisa per il 12 e solo mattina del 13 giugno (ultima data possibile secondo la normativa), quando lorsignori sperano che gli italiani siano “al mare”, come ebbe a dire, per altro referendum, Bettino Craxi. Che però n’ebbe danno: il quorum si fece e così iniziò la parabola discendente di quell’uomo politico.
Il tentativo di affossamento del referendum sul nucleare
Ma anche con una data “balneare” per il governo non era aria. Dopo l’incidente nucleare in Giappone - dove per un terremoto la centrale nucleare di Fukushima ha visto danneggiata una massa totale di combustibile superiore a quella degli altri incidenti nucleari di Chernobyl e Three Miles Island messi assieme, ed ha rovesciato nell’ambiente una contaminazione che ha fatto diventare radioattive fin le verdure cinesi - la percentuale degli italiani contrari al nucleare e disposti ad andare a votare i referendum è salita al 75%. E nelle stanze del potere, politico ed economico, devono essere sbiancati.
Gli italiani in verità si erano già espressi una volta contro la possibilità di ospitare centrali nucleari sul territorio nazionale. Dopo l’incidente di Chernobyl, nel 1987 ci fu un primo referendum sul nucleare, nel quale il popolo italiano si espresse all’80% contro. Ma passati i vent’anni nei quali il risultato di un referendum rimane vincolante, ecco il governo Berlusconi riproporre la costruzione di centrali nucleari in Italia, mettendo a disposizione per queste 30 miliardi di euro, mentre invece tagliava i contributi per le energie alternative non inquinanti, costringendo i 120.000 lavoratori del settore (assieme in questo caso ai datori di lavoro) ad uno sciopero contro i tagli. Una scelta governativa esplicita per un modello di sviluppo basato su grandi impianti pericolosi non solo in caso di incidente (una ricerca dell’Università di Magonza ha accertato un tasso di leucemie infantili più che raddoppiato intorno alle centrali tedesche), che non risolve i problemi energetici del paese (il piano nucleare del governo coprirebbe il 4% del fabbisogno energetico nazionale), ma in grado di far guadagnare un sacco di soldi alle grandi concentrazioni industriali, invece di favorire lo sviluppo di un modello energetico alternativo, diffuso, basato su una capillare rete di dispositivi per la produzione di energia da fonti rinnovabili come il sole e l’eolico, e sulla centralità del risparmio energetico (una vera e propria fonte energetica se programmata con politiche adeguate).
Visto il risultato dei sondaggi sull’intenzione di partecipazione al voto referendario, il governo (con l’aiuto di Rutelli) ha tirato fuori dal cilindro l’auto-affossamento del piano nucleare, sperando così di far decadere anche il referendum. Tanto, una volta evitato il referendum, le cui indicazioni dovrebbero invece venir rispettate per un ventennio, basterà ritirare fuori la stessa proposta fra qualche tempo, sperando che intanto gli italiani si siano dimenticati del Giappone.
Durante l’incontro in Francia con Sarkozy il nostro se ne è pure vantato come di una furbata fichissima, confermando che la decisione di sospendere il piano nucleare punta solo - letteralmente - a “far sì che si possa tornare a una opinione pubblica consapevole della necessità di avere energia nucleare”. Secondo una simile teoria, quindi, si potrebbe votare solo quando i sondaggi danno per vincente la posizione governativa.
Ma c’è un ma: la famigerata “divisione dei poteri” ancora vigente in Italia (contro la quale Berlusconi infatti promette sfracelli). L’operazione “annullamento del referendum” deve passare il vaglio della Corte di Cassazione, che già nel 1978 hachiarito che, modificando le norme sottoposte a referendum, al Parlamento non è permesso di frustrare “gli intendimenti dei promotori e dei sottoscrittori delle richieste di referendum”, cioè che il referendum si annulla solo se sono stati effettivamente abbandonati “i principi ispiratori della complessiva disciplina preesistente”.
Stefano Rodotà ha commentato al riguardo: “Si può ragionevolmente dubitare che, vista la formulazione dell’emendamento sul nucleare, questo sia avvenuto”. Insomma la situazione è confusa, non è affatto detto che gli elettori sulla scheda di giugno non trovino anche il nucleare. Ma certo questa cortina fumogena punta a confondere le idee, distrarre la discussione e disincentivare il voto. Non è detto però che non ottenga l’effetto contrario: intanto infatti di referendum così se ne parla, gli italiani vengono informati.
Stessa manovra per il referendum sulla privatizzazione dell’acqua
Sistemato in questo modo il nucleare (così sperano!), il governo pare sia ora passato ad occuparsi con le stesse intenzioni anche del referendum contro la privatizzazione dell’acqua, altro argomentino che i sondaggisti indicano come “amato dagli italiani” (che difatti hanno firmato per la richiesta di questo referendum più che per qualunque altra proposta di referendum della storia repubblicana). Sia il ministro Romani che il sottosegretario Saglia hanno annunciato un decreto-legge teso a far decadere anche questo referendum. Staremo a vedere (vedi sopra: Corte di Cassazione, ecc.).
Non è solo il governo a mestare nel torbido
Se le manovre del governo dovessero andare davvero in porto, per giugno rimarrebbe in pista il solo referendum sul “legittimo impedimento”, sul quale il governo spera ci sia meno interesse. E siccome riguarda una delle famose leggi “ad personam” che sembra siano l’unico reale interesse politico di Berlusconi, si guarda a lui con sospetto, come vero mandante dei tentativi di azzoppamento dei referendum più popolari (così, caduto l’interesse per i temi maggiori, quello che lo riguarda avrebbe meno possibilità di fare il quorum).
Ma, anche se il calcolo di B. è senz’altro questo, dietro all’operazione non c’è solo lui e i suoi piccoli interessi di bottega. Intorno ai referendum sul nucleare e sulla privatizzazione dell’acqua è davvero in corso uno scontro “epocale”, in grado di disegnare il volto dell’Italia dei prossimi anni, di far passare una enorme massa di denaro dalle tasche dei cittadini a quelle dei boss della finanza, espropriandoci di un ambiente vivibile e di un bene comune essenziale come l’acqua.
Per rendersene conto bastava leggere l’articolo di Roberto Mania su Repubblica del 21 aprile, intitolato “Marcegaglia e grandi imprese: quell’asse con la maggioranza che sta rubando i referendum”. Riferisce di un incontro a porte chiuse della Confindustria, al quale - secondo alcuni dei partecipanti - la presidente Marcegaglia avrebbe spiegato: “Abbiamo chiesto noi lo stop al nucleare. Era l’unico modo per impedire il referendum. I sondaggi davano per scontato il raggiungimento del quorum e con la prevedibile vittoria dei sì, sull’emozione del dopo Fukushima, il capitolo nucleare l’avremmo chiuso per sempre. E, ancor più grave, avremmo chiuso per sempre la liberalizzazione dell’acqua. L’unica prevista da questo governo”.
Chiaro no? Il giornalista di Repubblica commenta: “Una torta di oltre 64 miliardi nell’arco dei prossimi trent’anni, al quale guardano i costruttori ma non solo”.