Nel cuore di Jenin
Palestina: da un film alla ricostruzione di un cinema, all’impegno per la rinascita di una città martoriata
C’era una volta, nel cuore di Jenin, la più grande sala cinematografica dei territori palestinesi, il Cinema Jenin, che con le sue 500 poltroncine rosse era luogo di incontro per centinaia di persone. Poi, nel 1987, anno d’inizio della prima Intifada, questo cuore smise di pulsare, e con lui anche la città. Jenin, 40 mila abitanti, di cui 16 mila stipati all’interno dell’omonimo campo profughi, è una città ormai gravemente segnata da un conflitto che dura da decenni.
Nel novembre del 2005 un altro cuore smette di battere, quello di Ahmed El Khatib, ragazzino di 11 anni, ucciso mentre gioca con gli amici dai proiettili di un soldato israeliano che scambia la sua arma giocattolo per una vera. Destinata ad essere una delle tante morti, per una terra abituata a vederne, diventa il simbolo della speranza per una possibile riconciliazione grazie al nobile gesto dei genitori. Dopo il vano tentativo di soccorrerlo all’ospedale di Haifa, il padre e la madre di Ahmed accettano che gli organi del figlio siano donati a sei bambini israeliani.
Questa storia commovente è raccontata nel film-documentario del regista tedesco Marcus Vetter “The heart of Jenin”. Girato nell’estate del 2007, questo filmato sancisce l’inizio di un progetto molto più ampio, portato avanti dallo stesso regista in collaborazione con altre persone e il supporto delle autorità tedesche, finalizzato alla rinascita economica e culturale della città. Se la ristrutturazione del cinema è certamente il programma che ha riscosso maggiore risonanza a livello mediatico (vantando tra i sostenitori anche Roger Waters dei Pink Floyd), sono molte altre le attività intraprese dal gruppo Progetto Cinema Jenin.
“Ma è lo spirito, la filosofia che muove questo gruppo l’aspetto più importante”_ mi raccontano Hicham Bourdane, presidente del coordinamento italiano del progetto e Lorenzo Durante.
Hicham ha 21 anni. Ora studia legge presso l’Ateneo di Trento. Ha iniziato molto giovane ad interessarsi della questione. “Appena ho sentito del progetto, ho deciso di partire per la Palestina, per dare una mano. Avevo solo 19 anni, ma è stata un’esperienza fondamentale, prima di tutto un’occasione di crescita personale”. Ha iniziato collaborando per un anno e mezzo con l’associazione tedesca. “Quello che più impressiona, oltre alla meticolosità e alla precisione dell’organizzazione è la facilità con la quel ottengono finanziamenti”. Sottolinea a più riprese come la realtà tedesca sia totalmente differente da quella italiana: non solo godono dell’azione dei volontari, ma anche del supporto dello Stato e degli investimenti fatti da imprenditori al fine di creare lavoro e quindi un mercato locale.
“Il gruppo italiano opera con finalità differenti - mi spiega. - È di recente formazione, anche se in rapida evoluzione. Quando abbiamo formalizzato la nascita dell’associazione, nel 2010, (la scelta del 25 Aprile è chiaramente voluta) eravamo solo 10 persone. Ora siamo circa 70, anche se solo 15 sono attive in modo costante”. E anche l’organizzazione logistica ha fatto passi in avanti non indifferenti. “Nei primi mesi abbiamo abitato in un appartamento al quarto piano di una palazzina adiacente il mercato: due stanze, due piccoli bagni e una cucina. Oggi la situazione è cambiata. Grazie anche alle attività messe in campo, siamo entrati in contatto con molte persone, e anche i rapporti con l’autorità palestinese e quella israeliana sono migliorati nettamente”.
Ci tengono soprattutto a sottolineare la diversa filosofia che li spinge ad agire. Nonostante la presenza di diverse organizzazioni attive sul territorio, non è stato semplice superare la diffidenza iniziale della popolazione. Mi spiega come spesso questo dipenda dagli atteggiamenti che assumono i volontari stessi. “Il nostro approccio è diverso. Non vogliamo fare opere di bene tradizionali, ma cerchiamo un osmosi con le persone del luogo. Noi non facciamo carità, ma condividiamo con loro le nostre conoscenze. Non ci poniamo in una posizione di superiorità, ma proviamo a diventare parte della comunità locale. Gli operatori tradizionali, invece, non sono interessati a questo e pertanto finiscono con l’essere percepiti come esterni, senza sensibilità verso gli autoctoni”. Sottolineano spesso come i loro rapporti con i locali siano completamente diversi, delle serate passate al bar con gli altri ragazzi e delle cene organizzate per loro dalle famiglie del campo.
I momenti di svago non devono far dimenticare il lavoro quotidiano svolto per implementare le attività organizzate. Accompagnando le parole con la mimica, mi raccontano del primo impatto, di come si sono cercati senza alcun aiuto gli spazi per svolgere i progetti.
Volendo introdurre l’attività del rugby (sconosciuto in quella zona), è stato necessario trovare un appezzamento delle dimensioni sufficienti: difficile se si considera la morfologia del campo: 16 mila persone ammassate in meno di mezzo chilometro quadrato. Individuato il campo, hanno iniziato a ripulirlo dai sassi, invitando i ragazzi del luogo ad aiutarli per poter giocare. Non hanno atteso che qualcuno svolgesse il compito per loro, ma si sono divisi il lavoro allo stesso livello delle altre persone.
Non sono entrati in contatto con loro impartendo ordini, ma giocando. “Ovviamente le attività ludiche sono fondamentali se ti vuoi rapportare ad un bacino di soggetti che raramente supera i 16/17 anni d’età. Il rugby è molto utile in quanto, pur trattandosi di uno sport fisico, impone elevate capacità di autocontrollo. I suoi principi sono il rispetto delle regole e, soprattutto, dell’avversario. Considerando l’ambiente nel quale si trovano a vivere sin da bambini è un aspetto determinante per la crescita di queste persone. Oggi, grazie alla collaborazione dell’associazione sportiva Youth Center del campo profughi di Jenin, abbiamo un campo nel quale è possibile svolgere allenamenti tutti i giorni”.
Per le ragazze, invece, è stato predisposto un laboratorio ludico-teatrale in collaborazione con il Woman Center, ente finanziato dall’UNICEF. Se in generale la vita delle persone è pesante, peggiore è la situazione che sono costrette a vivere le bambine: non esistono spazi dedicati ai loro giochi. Proprio per questo, mi raccontano, l’iniziativa ha riscosso l’entusiasmo delle partecipanti.
Parallelamente a queste attività più leggere, ne sono state organizzate anche di natura formativa. Grande importanza, per attenuare l’isolamento delle persone, è stata data all’insegnamento della lingua inglese. “Tutte le attività, giochi compresi, sono tenuti utilizzando questo idioma. E, per partecipare, gli iscritti devono seguire i corsi tenuti dai volontari. Il livello degli insegnanti è buono, grazie alla collaborazione che abbiamo attivato con l’università di Exeter in Inghilterra”.
È questa la peculiarità dei volontari: nella quasi totalità dei casi si tratta di studenti universitari che decidono di mettersi in gioco e di condividere con altri le proprie competenze. Studenti di ingegneria saranno gli istruttori del corso di formazione organizzato, in collaborazione con la Municipalità di Jenin e il Governatorato di Jenin, per formare dei ragazzi alla produzione e montaggio di pannelli solari. “A tale proposito - mi raccontano - il progetto cinema Jenin Germania ha già attivato corsi simili finanziati dallo Stato del Brandeburgo. In quel caso si è trattato di un’ottima cooperazione tra pubblico e privato: lo Stato ha finanziato la formazione di operai che ora saranno inseriti all’interno di un impresa tedesca specializzata nella produzione di pannelli solari”.
“Non pretendiamo di arrivare a questi livelli! - aggiungono - ma per noi sarebbe sicuramente una vittoria se riuscissimo ad aumentare la nostra collaborazione con le istituzioni nazionali e locali. Ma naturalmente, noi continueremo in ogni caso”.