Rivoluzione democratica in Egitto?
I Fratelli Musulmani, l’esercito, El Baradei... I molti protagonisti di una vicenda dagli esiti incerti
I futurologi da un po’ di tempo ci avvertono che dopo il risveglio dell’Asia - ormai da anni sotto i nostri occhi sarà il turno dell’Africa. Alcune parti del continente nero sono entrate negli ultimi anni in quello che gli economisti chiamano la fase del “decollo”, caratterizzata dall’aumento concentrato nel tempo di tutta una serie di virtuosi fattori socio-economici: investimenti dall’estero, istruzione superiore, tasso di sviluppo oltre il 5%, spirito d’impresa, ecc. I casi che sono sotto gli occhi di tutti si situano ai due estremi geograficamente opposti del Maghreb e del Sudafrica. In Maghreb si sono delocalizzate in quest’ultimo decennio centinaia di imprese europee, attirate da una politica fiscale favorevole (regimi di esenzione) e da una manodopera istruita, a basso costo e poco sindacalizzata. In Sudafrica, dopo la fine dell’apartheid, si è innescato un circolo virtuoso in cui la maggioranza nera giunta al potere ha saputo valorizzare le competenze della “tribù bianca”, a differenza di quanto accaduto ad esempio nella ex-Rhodesia, finita nella spirale della violenza e del sottosviluppo.
Ma vi sono altre aree potenzialmente ricchissime del continente che, pur non ancora in decollo, sono destinate a entrarvi presto se risolveranno alcuni annosi problemi legati alla guerriglia interna (Congo) o ai rapporti intertribali (Sudan) e/o interreligiosi (Nigeria). Infine l’Egitto, un paese africano per posizione ma non per storia e cultura, che esemplifica un problema più generale: quello dell’antica frattura tra un’ Africa “non africana”, ovvero la fascia dei paesi mediterranei storicamente legati all’Europa e al Medio Oriente arabo, e l’Africa “africana” sub sahariana, quella che i geografi arabi chiamavano cumulativamente Bilad al-Aswad (“paese dei neri”) tradizionale terra di incursione e di commerci di schiavi, come ben sanno gli abitanti del neo-stato del Sud Sudan nero, da tempi ancestrali alle prese con il nord arabo sfruttatore e schiavista. È questo un aspetto poco noto al grande pubblico: quello delle razzie sistematiche che l’Africa mediterranea “bianca e araba” ha fino a tempi non lontani perpetrato ai danni dell’Africa nera sub sahariana. Si tratta in sostanza di un antico colonialismo arabo cui quello europeo si è spesso sovrapposto senza cancellarlo del tutto, aumentando se possibile la pressione sulle popolazioni nere. È importante tenere presente questo quadro storico, per quanto sommariamente tratteggiato, per capire come le rivendicazioni di maggior democrazia e migliori possibilità di lavoro che oggi agitano il Maghreb e l’Egitto, siano un fenomeno ben diverso e più moderno dei problemi che storicamente attanagliano l’Africa nera dove tuttora in vastissime zone la fame, l’ignoranza, le malattie, la corruzione endemica -in una parola il sottosviluppo classico - la fanno da padrone, dove la democrazia sembra solo un costoso e futuribile optional.
La rivolta dei giovani del Maghreb e dell’Egitto parte da problemi (disoccupazione giovanile, inutilità del titolo di studio sul mercato del lavoro) che in parte sono anche i problemi dell’Europa meridionale, dalla Spagna alla Grecia passando per l’Italia e i Balcani. Le periodiche guerre e mattanze inter-tribali e inter-religiose del Sudan, del Corno d’Africa o del Congo, sono problemi di tutt’altro ordine, che ancora largamente risentono dell’eredità lasciata dalle potenze coloniali europee. In sintesi, la parte moderna del continente - Maghreb e Sudafrica - si muove ormai nell’ottica della globalizzazione dell’economia e dei diritti, intrinsecamente modernizzatrice; invece l’Africa sub sahariana e del centro-sud è ancora lontana da questa forma di decollo, è piuttosto, oggigiorno, alle prese con la neo-colonizzazione strisciante di marca euro-americana (e cinese) che passa al setaccio il continente alla ricerca di risorse minerarie pregiate e energetiche da sfruttare in “joint venture” con le locali borghesie rapaci o le corrotte élite militari al potere.
L’Africa può incendiare il mondo
In questo panorama emergono oggi punti caldi, come il Sudan e la Tunisia; ma gli analisti sono in realtà assai più preoccupati per quel che accade nella polveriera Egitto (80 milioni di abitanti) e magari domani in Nigeria (90 milioni), paesi rimasti a metà strada nella via della globalizzazione. Si tratta dei due giganti demografici del continente, squassati da contraddizioni enormi: disoccupazione galoppante e corruzione pubblica, a fronte di un buon livello di istruzione delle classi giovani e di strutture statali relativamente moderne. La Nigeria, una “democratura” che gode di risorse naturali immense (petrolio e metalli pregiati), non ha ancora trovato un equo sistema di ripartizione dei benefici di queste ricchezze che, secondo uno schema tipicamente neocoloniale, vanno a ingrassare solo le multinazionali e le élites locali, acuendo la conflittualità fra i gruppi nazionali-tribali e, non dimentichiamolo, tra le varie componenti religiose (l’islam ha ormai raggiunto il 50% della popolazione).
L’Egitto, privo di risorse minerarie, dopo il fallimento di avventate unioni politiche (si ricordi la RAU, o Repubblica Araba Unita, effimera unione di Egitto e Siria) e del “socialismo arabo” e filosovietico di Nasser, ha puntato da Sadat in poi sullo sviluppo industriale e del turismo all’insegna della liberalizzazione. Ma ha dovuto fare i conti con una situazione politica interna caratterizzata da richieste insoddisfatte di democratizzazione che si scontravano però con la preoccupazione costante del regime di non dare troppo spazio ai movimenti islamisti, in particolare a quei Fratelli Musulmani che a tutt’oggi esercitano un fascino notevole e una egemonia morale sulle fasce intellettuali e urbane emarginate. I fatti di queste ultime settimane, la “rivoluzione democratica” imposta nelle piazze da masse esasperate dalla povertà, hanno messo il potere trentennale di Mubarak con le spalle al muro.
Occorre ricordare che l’Egitto è storicamente il centro di tutto l’islam sunnita, sia ortodosso che estremista: al Cairo sorge al-Azhar, il “Vaticano islamico”, tradizionale centro di elaborazione del pensiero religioso sunnita, che all’inizio del ‘900 fu anche il centro propulsore di una modernizzazione occidentalizzante dell’Islam; ma negli anni ‘20 proprio qui, per reazione, nasceva il movimento dei Fratelli Musulmani, l’antesignano di tutti i moderni fondamentalismi. Insomma quello che succede in Egitto, proprio per la sua centralità storico-culturale e religiosa, fa tremare l’intero Medio Oriente arabo, dal Marocco sino all’Arabia Saudita. Non a caso gli USA hanno finanziato da anni a suon di miliardi di dollari il governo Mubarak, con la precisa missione di contenere il fondamentalismo e procedere a una prudente democratizzazione del paese. Mubarak, espressione come i predecessori Sadat e Nasser della casta militare, ha contenuto la spinta dei Fratelli Musulmani con un mix di repressione e parziali concessioni; ma non ha potuto (o voluto) introdurre quella democratizzazione che prima Bush e poi con più forza Obama lo sollecitavano a portare avanti. Ora i nodi sono al giunti al pettine.
La domanda che ci si pone oggi è se dietro la “rivoluzione democratica” di questi giorni ci sia soltanto il malcontento di giovani disoccupati e frustrati, di una borghesia urbana stanca di aspettare una democratizzazione promessa e mai arrivata; oppure se ci sia dell’altro. Il sospetto di una sotterranea regia USA poggia sul provvidenziale arrivo - giusto alla vigilia dei moti di piazza - in Egitto di El Baradei, subito divenuto la bandiera del cambiamento.
Ma la domanda più inquietante riguarda il ruolo dei Fratelli Musulmani: non è chiaro fino a che punto essi siano tra i promotori della rivoluzione in atto. È certissimo invece che approfitteranno immediatamente degli spazi politici che venissero concessi con la inevitabile democratizzazione. Con il rischio, dagli USA già sperimentato in Iraq, di spalancare le porte del potere proprio ai fondamentalisti attraverso le prime libere elezioni...
Sta qui un nodo irrisolto della politica estera USA in Medio Oriente: portare la democrazia e le libere elezioni, significa quasi automaticamente consegnare paesi tenuti insieme da dittature paramilitari, ma laiche e filoamericane, ai Fratelli Musulmani e movimenti similari. Comunque sia, le caste militari, spaventate dal corso incontrollato degli eventi, potrebbero anche decidere di mandare all’aria i progetti di tutti (americani, Fratelli Musulmani, El Baradei e giovani disperati) con un colpo di stato che stronchi sul nascere ogni cambiamento. Quel che è certo è che la rivoluzione democratica iniziata a Tunisi e arrivata al Cairo, e che qualcuno già ha battezzato “l’89 del mondo arabo”, domani arriverà nei paesi arabi del Golfo che galleggiano sulle più grandi riserve petrolifere del mondo. Insomma, l’Africa può incendiare il mondo.