L’evoluzionismo che visse due volte
Da dove veniamo: da un “disegno intelligente”, dal caso, o da un principio di organizzazione interno? Un convegno a Trento.
Secondo Freud la teoria darwiniana dell’evoluzione costituirebbe la seconda, profonda, ferita narcisistica inferta all’umanità dopo quella copernicana (la terza l’avrebbe inferta lui stesso con la "scoperta" dell’inconscio).
Tra Ottocento e Novecento i cosiddetti maestri del sospetto – Nietzsche, Marx, Freud - hanno messo in questione l’autenticità della coscienza dell’uomo, la sua stessa capacità di dare un’interpretazione di sé. Ma nello stesso periodo la questione dell’umano è stata sottoposta ad una radicale decostruzione anche da altre scienze "umane" (l’etnologia, l’antropologia), dalle continue scoperte legate all’evoluzionismo in campo biologico, paleontologico, etologico e da un movimento teorico-politico fondamentale qual’è stato il femminismo.
Le domande classiche della filosofia, della religione, della morale – che cosa è l’uomo? da dove viene? cosa dobbiamo fare? cosa possiamo sperare? - sono state completamente riposizionate da queste prospettive.
Dopo aver desacralizzato, disincantato Dio e la Natura, si è passati alla desacralizzazione dell’Uomo. "Uomo", "natura", "origine" sono parole che dopo Darwin e grazie alle acquisizioni scientifiche, filosofiche, politiche cui ho accennato non possono rimandare a un fondamento definitivo. Da più parti si è gridato allora – e si grida ancora oggi! - al "nichilismo", al "relativismo", senza voler riconoscere quale ricchezza di prospettive abbia spalancato davanti a noi la mancanza di un "fondamento ultimo". Si apre il campo ad un’ermeneutica dell’umano finalmente capace di guardare al problema della questione della natura umana nella sua complessità, nelle sue infinite sfaccettature, nella molteplicità dei punti di vista.
Ma, si sa, la complessità dà le vertigini, e così da più parti si pretende di tornare a versioni semplificate, consolatorie, rassicuranti. Così l’evoluzionismo, che sembrava essere stato ampiamente digerito e fare ormai parte del bagaglio culturale collettivo, si trova ad essere da qualche anno oggetto di violenti attacchi. Attacchi iniziati negli Stati Uniti, dove il cosiddetto fronte teo-con ha tentato di colpire la plausibilità dell’evoluzionismo sul piano scientifico, riducendolo ad una teoria scientifica tra le altre e riproponendo la teoria del "disegno intelligente", cioè l’idea secondo cui la vita sulla Terra sarebbe stata creata da una causa intelligente.
Ne è nato un dibattito dalle forti implicazioni politiche, culminato nella recente decisione da parte di un giudice federale della Pennsylvania di vietare nelle classi di scienze delle scuole pubbliche statunitensi l’insegnamento del cosiddetto "disegno intelligente", che non costituirebbe una vera e propria teoria scientifica, ma piuttosto un travestimento del creazionismo biblico e violerebbe quindi la separazione costituzionale tra Chiesa e Stato. Da qualche tempo questo dibattito è stato importato anche in Italia dai teo-cons nostrani, attestandosi ben presto sui binari prevedibili e semplicistici dello scontro tra laici e cattolici.
Ma, viene da domandarsi, come si spiega questo revival tardo-ottocentesco all’inizio del ventunesimo secolo?
Come mai alcune forze politiche hanno ritenuto vantaggioso riprendere oggi questi temi?
In effetti - come ha sottolineato Gian Enrico Rusconi (direttore Itc -Isig) nell’aprire i lavori del convegno intitolato "Che cos’è la "natura umana"? Evoluzionismo v/s creazionismo",promosso dal Centro per gli studi italo-germanici e dal Centro per le scienze religiose in collaborazione con il Centro per la ricerca scientifica e tecnologica e tenutosi il 14 e 15 marzo all’Istituto Trentino di Cultura – l’attualità di questo dibattito s’innesta sul terreno ben più concreto delle inquietudini che le potenzialità delle biotecnologie destano in tutti noi, ponendo il problema dell’intervento sulla natura umana, sul corpo, in termini di bio-politica.
Va detto subito che il merito principale del convegno di Trento è stato proprio quello di partire da una posizione condivisa: quella che Orlando Franceschelli (Roma) ha definito la "plausibilità" della teoria evoluzionista sul piano scientifico.
Nessuno dei partecipanti ha infatti messo in dubbio la validità scientifica del darwinismo o fatto riferimento positivamente alle teorie del creazionismo scientifico, tant’è che l’intervento con cui Telmo Pievani ha ricostruito le strategie del "revisionismo creazionista" – e cioè la negazione dei dati sperimentali, la strumentalizzazione delle controversie interne alla comunità evoluzionistica, la presentazione di una caricatura fuorviante della teoria dell’evoluzione – ha trovato in sala un ampio consenso. Tutti, seppure con toni diversi, dovuti alle diverse sensibilità e alle diverse competenze – hanno infatti preso parte alla discussione in qualità di relatori e uditori oltre ai filosofi, ai teologi, agli storici anche numerosi scienziati – hanno cercato di parlare della natura umana a partire da Darwin, dopo Darwin. Insomma, se è vero che il darwinismo ha aperto delle questioni tuttora irrisolte, è con queste che la filosofia e la teologia devono confrontarsi, e non aggirare l’ostacolo tentando di restaurare verità passate che presenterebbero oggi un carattere puramente illusorio.
Così, a proposito della nozione di "natura umana" non si tratta più di darne una definizione, di volerne comprendere l’essenza, il fondamento ontologico, quanto piuttosto di concentrarsi (secondo la tesi di Paolo Costa, ricercatore all’Isr) sulla questione del rapporto tra l’uomo e la sua naturalità, tra l’uomo e la sua animalità, per sanare, eventualmente, quello sterile dualismo (tra spirito e materia, natura e storia, libertà e necessità) che contraddistingue la nostra tradizione filosofica. Centrale in questo quadro è la questione della differenza tra uomo e animale, se si tratti di una differenza qualitativa o quantitativa (si tratti cioè solo di un grado maggiore di complessità) e se, in assoluto, di differenza si possa ancora parlare a fronte del dato scientifico secondo cui la specie umana condivide con lo scimpanzè il 98,4% del suo patrimonio genetico. Ritornano allora nel corso del convegno alcune idee per affermare una possibile differenza qualitativa tra uomo e animale: l’idea dell’animale "etico" - ma si può davvero distinguere tra comportamento e intenzionalità? E siamo così sicuri che non esistano forme di intenzionalità anche tra gli animali? O, ancora, l’idea di animale culturale: "Ma - esclama uno dei relatori - anche i castori presentano forme culturali!".
E’ la volta poi dell’idea dell’animale storico; ma non è proprio l’evoluzione stessa la forma più incredibile di sedimentazione storica millenaria, tanto che qualcuno parla già di "bio-storia"!
Enrico Berti (Padova) ripropone la nozione aristotelica di "animale politico", ma anche tra gli animali si trovano forme sociali, gerarchie, ritualità, inoltre la polis rappresenta un modello di società propria solo di una certa tradizione occidentale, non può essere estesa a tutto l’umano.
Non solo: la teoria politica moderna (e la mente qui corre veloce al pensiero di Thomas Hobbes) non muove forse proprio dall’idea cristiana della natura umana come natura lapsa (natura decaduta), alla cui aggressività e pericolosità dello "stato di natura" le istituzioni devono porre un freno? Insomma la questione resta aperta, e forse proprio nella pretesa di essere in qualche modo speciali risiede la peculiarità dell’umano. Ma in realtà, probabilmente, l’unica vera differenza tra noi e gli animali è che loro non si interessano a noi, non si curano di noi, sembrano ignorarci, mentre noi abbiamo fondato sul loro addomesticamento e allevamento intere civiltà e ancora oggi c’è gente che trascorre vent’anni e più della propria esistenza in una tendina in isolamento per spiare il comportamento di una colonia di scimpanzè.
Un’altro tema cruciale sollevato nel corso del convegno è la presunta critica del finalismo da parte di Darwin. Siamo sicuri che l’unica alternativa al disegno intelligente sia il caso, che caso e progetto rappresentino due alternative inconciliabili? E se si parlasse piuttosto che di una finalità esterna, propria di un essere intelligente, di una finalità interna, di un principio di autorganizzazione proprio della vita e della natura? Accostando la teoria darwiniana a quella di Spinoza (un altro "distruttore" delle cause finali) Francesca Michelini, ricercatrice all’Isr, ci propone la tesi affascinante secondo cui le due prospettive sono avvicinabili per la riproposizione nelle loro concezioni di forme teleologiche "mascherate": il conatus (o istinto a conservare il proprio essere) in Spinoza e la nozione di organismo, inteso come sistema aperto che si autoconserva come un’unità organizzata, propria della biologia evoluzionista.
Alla sollecitazione da parte di Orlando Franceschelli verso un confronto della teologia e della filosofia con la sfida posta dal darwinismo nell’ottica di un dialogo tra credenti e non-credenti "effettivamente adulto e laico", ha poi risposto a chiusura del convegno Antonio Autiero (Direttore Isr) prendendo le distanze da quelle istanze del creazionismo "riconfezionate con finalità e scopi non esclusivamente teologici" e ricordando come la teologia si trovi ormai in possesso di tutti gli strumenti logici e sistematici necessari per un dialogo produttivo con il darwinismo e per una profonda riconsiderazione del nesso tra religione e corporeità.
Insomma, per trarre un bilancio complessivo da queste giornate di discussione - di cui ho evocato per grandi linee solo alcune posizioni rappresentative - mi sembra utile riprendere l’invito ad uscire dalla sterile contrapposizione laicismo-cattolicesimo in vista di un approfondimento del tema della natura umana - con Darwin e oltre Darwin - libero da schemi preconfezionati e forme di semplificazione ideologica. Inoltre, aggiungo, anche per quanto riguarda il rapporto con le biotecnologie è giunto il momento di elaborare un percorso che sostenga la sfida di ridefinire la soggettività umana - o post-umana che sia - sottraendosi alla stretta tra sacralità della vita e cieca fiducia nella tecnologia, tra corpo mistico-naturale e organi interscambiabili, tra visioni apocalittiche anti-tecnologiche e cantori delle magnifiche sorti e progressive.
Una sfida difficile, poiché ci si trova appunto costretti tra l’ottica totalizzante delle tecnologie – che cancella tempo e modi per l’elaborazione, e annulla la soggettività e la storicità dei processi – e l’appello altrettanto totalizzante e privo di storia alla "vita" come oscuro valore metafisico, come fondamento per la costruzione di identità sempre più sclerotizzate e fittizie.