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QT n. 20, 26 novembre 2005 Servizi

Mobbing: il fenomeno e le vittime, trentine e non

Un fenomeno solo di recente codificato e sul quale si conosce ben poco. Ma che esiste, tanto da poter diventare perfino una strategia aziendale.

Può succedere che il posto di lavoro, tanto agognato e conquistato con fatica, si trasformi in un luogo ostile ed insidioso. Lavorare diventa un incubo perché il clima è teso e serpeggia qualche veleno. Capita, ad esempio, quando i colleghi o i superiori, singolarmente o in gruppetti affiatati, affilano le armi contro un lavoratore "scomodo". Insomma, lo coinvolgono in una guerra psicologica e snervante per indurlo a gettare la spugna.

Questo fenomeno inquietante e non nuovo, solo recentemente è stato definito con la parola mobbing (dall’inglese to mob= aggredire), che, intendiamoci, è una cosa ben diversa da piccole scaramucce o battibecchi che sono del tutto fisiologici nella quotidianità lavorativa. Qui stiamo parlando di un terrorismo psicologico intenso che fa ammalare lo sfortunato e lo condanna a vivere in un clima da trincea per difendersi dai continui attacchi. Non sono poche in Italia le persone coinvolte in questa crociata. Si parla, infatti, come cifra approssimativa, di un milione e mezzo di "mobbizzati". Se diamo un’occhiata ai siti Internet vediamo un pullulare di servizi ed associazioni che dispensano consigli a piene mani per sconfiggere questo pericolo. Pure l’editoria cavalca l’onda sfornando numerosi saggi sul tema.

Qui però vogliamo indagare sulla dimensione del fenomeno nella nostra provincia.

Non c’è dubbio che la parola mobbing abbia iniziato a far capolino nel vocabolario dei trentini. E’ sulla bocca dei lavoratori, spesso utilizzata in modo improprio per indicare anche un semplice attrito nei rapporti professionali. La troviamo descritta, a chiare lettere, nei contratti di lavoro collettivi provinciali, al fine di "avviare adeguate iniziative per contrastare la diffusione di tali situazioni" e "migliorare la qualità e la sicurezza dell’ambiente di lavoro". E compare come argomento di dibattiti e convegni.

Ma se proviamo a vedere chiaro in questa faccenda, l’impresa si rivela ardua. Non esiste, infatti, un osservatorio per una quantificazione precisa dei lavoratori "molestati". Insomma, del mobbing molto si parla, ma poco si sa. I suoi contorni sono ancora alquanto incerti e nebulosi. Qualche informazione, sebbene i dati siano pochi e molto frammentati, l’abbiamo raccolta qua e là contattando le varie organizzazioni sindacali. Quanto basta per rendersi conto che il fenomeno sta venendo a galla. E nessuna categoria è al riparo da questo rischio. Dalle aziende pubbliche a quelle private, dai quadri dirigenziali al mondo operaio, dai neo assunti a chi viaggia in carriera, il pericolo è in agguato. "I casi - ci dice la dott.ssa Anna Maria Belluccio, coordinatrice dello sportello anti - mobbing Uil - sono tanti e in aumento. E’ un fenomeno socialmente rilevante. Negli ultimi due anni ci hanno contattato telefonicamente un centinaio di persone, di cui 80 si sono poi presentate a colloquio. Naturalmente non tutti sono utenti effettivamente ‘mobbizzati’. Anche perché non è sempre facile definirne l’identità oggettiva: c’è il problema di far capire ai lavoratori la differenza fra il vero mobbing e quello che è un normale conflitto di lavoro". Infatti - chiarisce Gianna Marzari, sindacalista della Cisl - "il mobbing si manifesta in modo molto nascosto, talvolta occorrono anni per poterlo identificare e ovviamente sulla base di grosse documentazioni, soprattutto mediche, che ne certifichino il danno. Ultimamente il problema sta emergendo più nel pubblico impiego, ove è vero che il dipendente è più tutelato, rispetto al privato, in caso di licenziamento, ma è più frequente che si ricorra a modalità subdole per indurlo alle dimissioni".

"Nel nostro sindacato – spiega Elisabetta Frizzera, funzionario delle vertenze legali Cgil - abbiamo iniziato a rilevare i casi di mobbing dall’anno 2000. Sulla base delle ricerche di esperti nazionali abbiamo adottato dei parametri per definirlo. Ad esempio, non facciamo rientrare in questi casi le vessazioni protratte per un periodo inferiore a sei mesi. Poi naturalmente ci sono altri criteri da valutare quali: l’intensità e la frequenza delle aggressioni".

Vediamo allora di approfondire meglio il contesto che trasforma i lavoratori in prede appetibili agli attacchi del mobbing. E’ chiaro che se le molestie morali hanno gioco facile nel circolare indisturbate turbando i rapporti fra il personale, qualcosa non va nel tessuto lavorativo. Possiamo puntare il dito contro i vertici aziendali poco sensibili ed attenti nel valorizzare le risorse umane e professionali, molto più indaffarati a badare all’ingranaggio produttivo e competitivo che al clima di collaborazione sereno del gruppo. "C’è da dire - spiega Marzari – "che spesso i dirigenti stanno a guardare non per mancanza di volontà, ma perché non possiedono adeguate conoscenze per intervenire nei cattivi rapporti fra i lavoratori. Questa lacuna ovviamente incide come fattore di rischio".

C’è però qualche altro punto debole che crea terreno fertile alle aggressioni e che nasce dalle recenti trasformazioni del mondo del lavoro, ossia la sua frammentazione. "Oggi succede - spiega Belluccio – che in un’azienda, all’interno della stessa mansione, operino persone con contratti diversi: c’è il lavoratore dipendente classico, c’è quello a progetto, c’è quello che proviene dall’azienda di lavoro interinale, ecc…Ciò crea diversi trattamenti e status, ossia lavori più tutelati e meno tutelati, più pagati e meno pagati. Quindi, rispetto al passato, c’è meno capacità di sindacalizzazione dei lavoratori, di difendersi facendo gruppo. Poi c’è più precarietà e i lavoratori sono più ricattabili".

E dove c’è lavoro precario lievita l’insicurezza e la frustrazione. Ne sanno qualcosa le donne, che vantano il primato nel collezionare contratti temporanei e mal retribuiti.

L’ago della bilancia, però, quanto a vessazioni psicologiche, non pende tutto a loro sfavore: il gentil sesso è nel mirino del mobbing quasi al pari dei colleghi maschi. Non solo. Le donne sopportano meno soprusi ed umiliazioni e sono molto più combattive e determinate nell’uscire allo scoperto denunciando la violenza. Corrono prima ai ripari e tentano possibili vie d’uscita, a costo di mettere a repentaglio la loro carriera. L’uomo appare più riluttante perché è troppo incollato alla sua preziosa identità professionale e teme di intaccarla se esprime la sua fragilità. Insomma, stringe i denti e chiede meno aiuto perché ha paura di essere bollato come perdente. "Gli uomini - spiega Belluccio- si recano allo sportello solo quando hanno delle cose dimostrabili, ad esempio: l’attribuzione di una qualifica inferiore o i diritti sindacali non rispettati, cioè quando hanno una cosa oggettiva per cui combattere. Le donne sono più disposte a mettersi in gioco e a parlare degli aspetti emotivi negativi legati al lavoro. Non a caso quelle che arrivano al nostro sportello sono più del 60%".

Vediamo infine come si stanno muovendo le aziende trentine, pubbliche e private, nei confronti di questo fenomeno.

Sappiamo bene che le amministrazioni aziendali non hanno di che rallegrarsi quando il mobbing miete qualche vittima. Anzi, è davvero una bella seccatura: il lavoratore è demotivato, ha meno energie e rende poco, spesso non ce la fa a recarsi al lavoro. Dunque, visti i risvolti economici, ai vertici converrebbe raddrizzare le antenne.

Ma a quanto pare le amministrazioni non sono attrezzate per fronteggiare le violenze morali e tutelare, com’è loro dovere, la dignità e il benessere del lavoratore. Alcune alzano un muro di omertà, altre non conoscono il tema o lo considerano un tabù. Ed è raro che utilizzino l’arma della prevenzione. Spesso, infatti, i conflitti pericolosi sono quelli che da tempo covano sotto la cenere in modo incontrollato, e quando scoppiano è facile che qualcuno entri nell’occhio del ciclone mobbing. Basterebbe quindi un’adeguata formazione a tutto il personale su come dare espressione ai dissidi in modo costruttivo, all’interno del team aziendale, per limitare il problema.

Non a caso, i paesi scandinavi, pionieri nello studio dei fattori di rischio mobbing, hanno da tempo sguinzagliato degli esperti nelle amministrazioni del personale per mettere a punto questa politica preventiva, detta "cultura del litigio". E sembra che la cosa funzioni alla grande. "Da noi invece - commenta Belluccio - spesso il tema si conosce quando arriva la vertenza legale. Diciamo che non c’è una gestione organica per cercare di risolvere la cosa. Magari i casi trovano una soluzione, sporadicamente, perché c’è un direttore del personale più sensibile al problema. Ciò che davvero manca è il collegamento fra aziende e professionisti esterni che possano occuparsi in modo super partes della questione".

"Oltre a ciò- aggiunge Frizzera - sarebbe importante puntare sulla preparazione dei delegati sindacali che operano nelle varie aziende, in modo che possano agire come mediatori individuando tempestivamente i casi di lavoratori ‘mobbizzati’ ed intervenire quando il danno è ancora contenuto".

Insomma, sul fronte della prevenzione del mobbing c’è ancora molta strada da fare a livello di formazione aziendale e sindacale.

Ma il problema, a quanto pare, meriterebbe maggior attenzione anche a livello politico.

"Infatti - chiarisce Ermanno Monari, segretario della Uil - recentemente abbiamo scritto sia all’assessore del Lavoro sia a quello delle Pari Opportunità Berasi, per sollecitare interventi che altre Regioni hanno già messo a punto. Ad esempio, in Friuli è in vigore una legge, per la prevenzione e il supporto delle vittime del mobbing, approvata dal Consiglio regionale, che ha previsto la creazione di sportelli sul territorio in collaborazione con l’Azienda sanitaria. In Trentino uno sportello di questo tipo potrebbe essere sufficiente. Come sindacato abbiamo convenzioni con i professionisti, ma spesso con costi che il singolo lavoratore non può sobbarcarsi. Comunque l’assessore Berasi ci ha detto che condivide la proposta. Per ora, stiamo ancora aspettando".