Le debolezze del sì, del no, dell’astensione
Mentre la Chiesa trascura di affrontare le vere questioni che dovrebbero starle a cuore, la sinistra si trova in vuoto di dibattito e di inziativa.
Quando i temi sono eticamente sensibili, la Chiesa si sente in dovere di intervenire direttamente nelle scelte politiche, e di indicare le soluzioni. Anche nel tempo della modernità, della separazione fra lo Stato e la Chiesa. "Per difendere quel minimo di eticità che è indispensabile alla condizione umana". Sono parole dell’allora cardinale Joseph Ratzinger (vedi QT, n.18-2000 "Filosofia e religione").
La difesa della famiglia tradizionale e l’intangibilità della vita umana sono gli ambiti in cui il Cristianesimo, da "religione civile", si propone non solo come religio vera, ma anche come vera philosophia: è un Dio "razionale" che, per salvarli, si china sulla storia degli uomini.
Le leggi sul divorzio (1970) e sull’aborto (1979) furono vissute come ferite profonde a quel "minimo di eticità". Che la Democrazia Cristiana, il partito cattolico al governo in Italia, non potesse evitarle, spinse la Chiesa, per abrogarle, a interpellare direttamente la società, il suo "consenso cristiano di fondo".
Sappiamo come è andata. Nel 1974 i "no" all’abrogazione furono il 59.3, nel 1981 furono il 68%. Anche nel cattolico Trentino, dove il divorzio era stato, per pochi voti, respinto, sette anni dopo la legalizzazione dell’aborto fu invece accettata dal 54% dei cittadini.
La riduzione del "consenso cristiano di fondo" si chiama secolarizzazione. Osservava però nel 1981 Raniero La Valle che il fatto che la Chiesa fosse così poco ascoltata in Italia in occasione dei "temerari censimenti elettorali voluti da zelanti sconsiderati", non significava affatto che la società non avesse ancora a cuore "valori di fondo" quali la stabilità della famiglia e la difesa della vita.
Cos’è successo in questi ultimi venticinque anni, quelli del "trionfo" del papa Giovanni Paolo II?
Il processo di secolarizzazione è proseguito imperterrito: la pratica religiosa si è ridotta drasticamente. Soprattutto il divario fra l’etica proclamata dai papi e quella praticata dai fedeli è cresciuto ancora: non solo per quanto attiene al controllo (artificiale) delle nascite, ma persino per quanto riguarda il ricorso alla fecondazione medicalmente assistita. Ed è scomparso il partito cattolico, che rappresentava, e mediava, le domande della Chiesa.
I progressi vertiginosi delle scienze biologiche, della genetica, della medicina riproduttiva, pongono oggi domande etiche nuove. L’impianto ideologico sotteso alla legge 40 assume perentoriamente la "teologia naturale" cattolica nel proposito di tutelare l’embrione in quanto persona. Per questo è la Chiesa il soggetto che difende con maggiore convinzione una legge che, in senso stretto, ovviamente, cattolica non può essere. E nel predisporre, a difesa, le batterie più adeguate, il cardinale Camillo Ruini propone l’astensione al referendum che intende abrogare gli articoli più lontani dall’etica laica.
Perché un intervento così rischioso, religiosamente e politicamente? Non è in discussione la legittimità dell’astensione. Io stesso mi sono astenuto in numerosi referendum, quando la domanda non mi è parsa importante, o ho considerato inadeguato lo strumento referendario. I cittadini, nel raccogliere le firme, sanno che devono superare questo scoglio impegnativo: convincere anche me a recarmi alle urne. Il quorum stabilito per legge è una verifica su questa riuscita.
In discussione, dal punto di vista religioso, è un intervento della Chiesa, così anticonciliare, nella bassa cucina della politica. Che si mette a disquisire, in assemblea plenaria dei vescovi, sull’efficacia dei mezzi: astensione, no, scheda bianca. Parecchi cattolici infatti, autonomi e adulti, hanno deciso che andranno a votare.
In discussione, dal punto di vista politico, poi, è l’astensione come strumento per difendere una legge considerata buona. Che avrebbe detto il cardinale Ruini di allora, se i difensori delle leggi sul divorzio e sull’aborto, invece di confrontarsi e votare un limpido "no", avessero vinto astenendosi ai referendum con cui i cattolici "zelanti" e "sconsiderati" intendevano abrogarle?
Il "trucco" di alleare i fedeli, gli atei devoti, e (più numerosi) gli indifferenti, è, a mio giudizio, la (cinica) presa d’atto che il processo di secolarizzazione è proseguito irreversibile. Qualunque sarà il risultato, sarà una sconfitta.
Altre dovrebbero essere le domande che una Chiesa in ricerca pone, umilmente, alla modernità. Sulla scienza e sulla tecnica, sulla donna e sull’uomo, sul nascere e sul morire. Per contribuire al cammino degli uomini, e, nella testimonianza, richiamare al dubbio chi, baldanzoso, esalta le "magnifiche sorti e progressive" dei tempi moderni. Perché in Occidente nascono pochi bambini, e molti nel Sud, sottosviluppato, del mondo? Perché è così difficile generare, ed essere genitori? E’ una patologia l’instabilità familiare crescente?
Ma io vedo anche problemi interni al fronte referendario. Dove hanno origine le difficoltà a far prevalere i "sì" per abrogare i quattro articoli della legge 40? Il sì non è semplicemente una casella da segnare nell’urna, diversa dal no, quella a fianco, che abbiamo scritto, allora, a difesa delle leggi sul divorzio e sull’aborto. Allora avevamo una legge approvata in Parlamento, frutto di mediazioni rispettose del pluralismo etico presente nella società. Oggi questa legge "buona" da difendere non c’è, né sappiamo quale sarà. La legge "cattiva" in vigore è il segno che l’iniziativa è passata alla destra, culturale e politica. Il sì a cui siamo chiamati è un sintomo di una debolezza, più generale, in cui siamo invischiati da anni.
Fra i critici della legge attuale, è ovvio, permangono diverse opinioni su punti qualificanti, sulle regole e sui limiti da elaborare. Sulla fecondazione eterologa, ad esempio, si dibatte sul diritto d’accesso delle donne singole, delle coppie omosessuali, di conoscere il genitore biologico.
Ancora. Quanto è interessata la società italiana a questo problema? Vittorio Foa ha risposto: "Non mi interessa. Non riesco a interessarmene". E Remo Bodei ritiene "sbagliato" lo scontro del referendum. Riusciremo a interessare la maggioranza dei cittadini? Il quorum, insomma, sarà raggiunto? In questi trent’anni non è proseguito, imperterrito, solo il processo di secolarizzazione, ma anche quello di spoliticizzazione.
Dopo lo svilimento a cui lo strumento referendario è stato sottoposto in troppe occasioni, non è facile ridargli senso. E sento già la proposta, se vinceremo le elezioni un altr’anno, di abolire l’intralcio del quorum.
Io sono contrario: lo considero un "trucco" simmetrico agli astensionisti di oggi, per evitare di porsi i problemi, difficili, dell’estraneità alla politica, che cresce, e dell’uso prudente, pensato, del referendum.
Che "pensiero politico" c’è in un referendum in cui, certo, sappiamo come voterà Marco Pannella, ma dura, lungo, il silenzio di Romano Prodi? Che non mi sento di attribuire alla mancanza di coraggio, o alla carenza di laicità, da parte dell’uomo scelto a guidare quell’Unione su cui graverà il compito, speriamo, di ricostruire l’Italia.
Scrive Gian Enrico Rusconi su il Mulino (n.2 /2005) in un articolo titolato "Un’occasione mancata di democrazia laica": "Anch’io personalmente avrei preferito che si trovasse un ragionevole accordo in Parlamento, come accade in tutte le democrazie europee più mature".
Coinvolgere le persone forse è possibile se nel discutere dei quattro quesiti, non ci ritraiamo dai dilemmi etici che li sottendono. Che ci interrogano, ci dividono, e ci lasceranno diversi anche dopo che avremo segnato i nostri "sì" sulla scheda.
Concludo con uno di questi. Per evidenziare la contraddizione in una legislazione che vieta la diagnosi preimpianto dell’embrione, e poi permette l’aborto, Umberto Veronesi ci informa (l’Unità, 27 aprile) che secondo "una recente indagine in Europa l’89% delle donne preferisce ricorrere all’aborto se l’esito dell’amniocentesi rivela che il feto è affetto da sindrome di Down".
In questa presa d’atto, statistica, dello scienziato, io sento venire meno il dilemma etico, tragico, che deve tormentare non solo la donna, ma la società intera. Riporto a memoria ciò che diceva Laura Conti, nel 1981, a difesa della legge 194: "Questa nostra legge consente l’aborto terapeutico non perché nascerà un bambino handicappato, ma perché a quella donna quella gravidanza riesce insopportabile". Posso testimoniare, per aver battuto il Trentino in decine di assemblee, affollate, che questa distinzione, sottile, allora era compresa. Cioè noi, società, dobbiamo essere disponibili ad accogliere ogni bambino che viene: a scuola, sul lavoro, in città, Nicola, Susanna, Piergiorgio, sono esperienze preziose. Cos’è cambiato da allora? Il nostro ideale è passare dall’89 al 100%?
Io penso che la dialettica fra etica e legge, fra foro interno e foro esterno, sia il "doppio respiro" che costituisce la civiltà occidentale. La "norma a una dimensione" (sono parole di Paolo Prodi: vedi QT, n.17 - 2000 “Una storia della giustizia”) indica l’affievolirsi dell’etica, ma anche la crisi dello stesso diritto.