Menù
Home
QT
Questotrentino
Mensile di informazione e approfondimento
Utente
Cerca

L’Europa, l’Italia e i diritti dei musulmani

Stiamo scivolando dallo stato di diritto allo stato di polizia?

I recenti, sempre più frequenti casi di espulsione dall’Italia di individui con passaporto straniero sospetti di fiancheggiare organizzazioni terroristiche tipo ISIS, al-Qaeda e simili, le costruzioni di muri e barriere alle frontiere nei Balcani, la chiusura di siti internet sospetti, pongono problemi e domande con cui, non da ora, le società europee si stanno confrontando. Stiamo scivolando – ci si chiede - dallo stato di diritto allo stato di polizia? Chi potrebbe impedire che le misure di limitazione delle libertà individuali, oggi applicate a sospetti fiancheggiatori di terrorismi vari, a clandestini di passaggio, a profughi di guerre lontane vengano domani applicate a sospetti di attività sovversive, oppositori anti-sistema, partiti di estrema sinistra o destra ecc.?

Il caso della Turchia di Erdogan, un caso-limite, certo, sta lì ad ammonire su certe possibili derive che non sono poi tanto lontane da noi; il caso dell’Ungheria di Orban (e della Polonia che pare voglia seguirlo) ci mostra che un Erdogan può nascere benissimo nel cuore dell’Europa…

La domanda di tutela delle libertà e la domanda di tutela della sicurezza (individuale e degli stati) sono del resto domande fondamentali, che non è possibile eludere. E che – i fatti degli ultimi anni ce lo dimostrano ampiamente, da Guantanamo alle espulsioni – richiedono risposte che possono essere talvolta non compatibili con l’esigenza di tutela dell’una o dell’altra. Ma vorrei fare un salto indietro e chiedermi: sono solo la libertà di movimento e di circolazione degli individui che oggi vengono messe in discussione da muri e barriere di filo spinato costruiti dall’Ungheria o dalla politica di espulsioni?

In realtà, da almeno vent’anni c’è un’altra libertà fondamentale che, non solo in Italia, è stata messa in dubbio e di fatto compressa con vari pretesti giuridici e burocratici: la libertà di religione. Libertà a parole riconosciuta e nei fatti limitata. Quale città in Italia non ha visto una vera rivolta di opinione ogni volta che si è parlato di costruire una moschea per evitare lo spettacolo avvilente di gente obbligata a pregare per strada o in seminterrati? Qualche personaggio anni fa fece una “passeggiata col maiale” su un terreno destinato alla costruzione di una moschea, senza che la cosa suscitasse molto più che risate e qualche blanda condanna.

Eppure, il diritto a professare liberamente una religione è forse insieme alla libertà di fondare partiti politici (le due cose intuibilmente sono collegate) quello che storicamente ha fondato tutti gli altri diritti. Non c’è vero e pieno stato di diritto se la libertà di religione è limitata o peggio coartata; se gli appartenenti a una certa fede devono nei fatti quasi dimostrare la loro “non pericolosità” con – altro sfregio allo stato di diritto – un ribaltamento dell’onere della prova. Dicevo nei fatti, poiché ormai in Europa un cittadino musulmano, in teoria cittadino uguale agli altri, è visto da masse crescenti di persone - suggestionate dal verbo leghista o lepenista - come un soggetto sospetto se non atto a delinquere “per sua natura”.

Il problema che emerge da questi atteggiamenti è, a mio parere, di duplice natura. In primo luogo si sta attuando una delegittimazione strisciante e devastante, ma sempre più evidente, di tutta una fascia di cittadini stranieri che lavorano in Europa da decenni in regola con le leggi e magari con figli nati e cresciuti qui, che si sentono trattati dai media come appartenenti a una categoria potenzialmente pericolosa e che si auto-percepiscono di conseguenza come cittadini di serie B, che devono quasi nascondere le loro origini e soprattutto non ostentare la propria fede.

In secondo luogo, proprio questa strisciante delegittimazione, che nei luoghi di lavoro o nelle scuole può prendere talora una forma aggressiva, dal dileggio al mobbing, crea la situazione psicologica propizia a fare emergere una radicalizzazione politico-religiosa. La tutela delle libertà è in primis tutela della dignità di ogni individuo, a qualunque gruppo religioso o etnico appartenga. Le banlieue parigine ne sono l’esempio e la conferma eclatante: quartieri o scuole ghetto si sono rivelati fucine di estremisti e bacini di arruolamento di terroristi. Qui, come si vede, la questione della tutela delle libertà (e della dignità) si rivela strettamente legata all’altra, quella della tutela della sicurezza. Forse in Italia non siamo mai arrivati a questo punto, ma ci sono indizi che le cose possano davvero andare in quel senso e, non v’è alcuno dubbio, senza politiche intelligenti di inclusione e di integrazione anche da noi potremmo avere primo poi fenomeni simili.

Alcune cose da fare

La domanda è: quali politiche? Noi italiani siamo bravi a fare bei gesti e discorsi commoventi, un po’ meno ad analizzare situazioni complesse e mettere in pratica politiche adeguate. La lentezza della politica fa il resto. Per cominciare, non esiste ancora un soggetto unico, una consulta nazionale islamica, che tratti con lo Stato italiano la questione dei rapporti con la comunità musulmana e la stesura di una intesa sul modello di quelle stipulate da altre comunità; in secondo luogo, non esiste in Italia neppure un ente o organizzazione permanente dei religiosi (imam di moschea, studiosi e giureconsulti) che, sull’esempio di analoghe organizzazioni esistenti in Francia o in Gran Bretagna, costituiscano un punto di riferimento per i musulmani nostrani sulle questioni pastorali, dottrinali ecc. Forse, s’è detto, la responsabilità è delle divisioni che si riscontrano tra i musulmani d’Italia (sunniti, sciiti, filo-sauditi, filo-iraniani, politicizzati e quietisti ecc.); ma di certo lo Stato italiano non mostra alcuna fretta o urgenza di promuovere una migliore rappresentanza della comunità musulmana. Forse, a voler essere maligni, per il timore di dover poi trattare e fare accordi che – dal punto di vista elettorale – non porterebbero voti.

Anche a livello locale, perlomeno nelle grandi città, le comunità musulmane di solito non hanno voce come tali: dovrebbero essere incoraggiate a formare una rappresentanza organizzata che tratti con le municipalità, con i servizi sociali e magari fornisca le prime informazioni o un minimo di assistenza burocratica ai nuovi immigrati. Al contempo, una tale tipo di rappresentanza sarebbe in grado di monitorare l’immigrazione locale e magari prevenire tensioni, segnalare problemi ecc.

Ma il problema centrale resta un altro. Il governo italiano non ha mai preso una chiara posizione sulla questione più delicata, quella della costruzione di luoghi di culto, cui i due milioni di cittadini musulmani hanno pieno diritto secondo le leggi italiane oltre che secondo la carta dei diritti universali. Qualsiasi assessorucolo ai lavori pubblici o alla sanità può inventarsi un cavillo o mettere una ordinanza di mezzo per ostacolare e nei fatti rendere impossibile l’edificazione di una moschea, anche là dove giustamente i cittadini musulmani, stranieri e italiani, la reclamano per non dovere pregare per strada o nei garage. Subito dopo, ossia dopo avere garantito questo elementare diritto, avrebbe senso discutere una legge che, come avviene in altri paesi europei, preveda di formare gli imam in Italia o imponga a quelli che vengono da fuori di fare un adeguato periodo di formazione e acculturazione (linguistica, giuridica ecc.) in Italia prima di iniziare a predicare. A quel punto avrebbe senso consentire a un imam di fare l’ora alternativa di religione nelle scuole per gli studenti musulmani, un passo che fa inorridire molti, ma che sarebbe fondamentale per garantire nei ragazzi musulmani la crescita di un vivo senso di appartenenza alla comunità nazionale senza discriminazioni di sorta.

Sul piano della integrazione degli immigrati si potrebbe anche fare molto di più con uno strumento esistente e ben funzionante, anche se poco noto. Dalla seconda metà degli anni ‘90 in molte scuole medie italiane sono operativi i CTP, Centri territoriali per l’educazione degli adulti che offrono di regola, accanto a una varietà di corsi di chitarra, d’inglese, di informatica o erboristeria, anche corsi di italiano per stranieri. Questi corsi potrebbero essere resi obbligatori e gratuiti per chi arriva in Italia senza conoscerne la lingua e la Costituzione (e magari si darebbe anche una mano ai tanti insegnanti italiani a spasso che non rimediano una supplenza da anni…).

C’è infine un altro settore di possibile fruttuoso intervento, quello dell’informazione in cui mancano totalmente iniziative. Tempo addietro chi scrive propose senza successo a un mensile di tenere una rubrica informativa di argomento islamico, per spiegare per esempio riti e credenze o il significato delle principali festività musulmane, sulla falsariga di certe rubriche di cultura ebraica che si trovano su giornali o alla radio. Servirebbe per aiutare gli italiani a capire qualcosa di più della religione dei musulmani e ai musulmani d’Italia per sentirsi accettati e più legittimati, appunto.

Insomma, si può fare di più, molto di più di qualche bel gesto come rendere omaggio alle vittime dei naufragi nel Mediterraneo o gridare “Viva il dialogo!”. Servirebbe per garantire meglio le libertà, la dignità e la sicurezza di tutti, e magari per non scivolare lentamente, senza quasi accorgercene, dallo stato di diritto a uno stato di polizia.