17 anni di Bressan: non solo prezzemolo
I soldi, la sessuofobia, il fastidio verso l'Islam: gli aspetti più controversi di un episcopato che ha cercato di galleggiare scansando i problemi. Senza riuscirci.
“Vescovo prezzemolo” è stata l’espressione con cui QT definì Luigi Bressan. Sorridente ed innocua presenza ad ogni evento, dall’inaugurazione della seggiovia quadriposto a quella dell’autoconcessionaria, il vescovo sembra aver attraversato 17 anni di vita trentina senza lasciare alcun segno particolare, all’insegna non tanto della moderazione, ma dell’assenza, dell’irrilevanza. Diplomatico della Santa Sede, in giro per il mondo per 28 anni in Paesi anche difficili, dalla Corea al Brasile, alla Birmania, da quell’esperienza sembra aver recepito il principio della discrezione, della prudenza ovattata, che – tradotto nella pratica pastorale – si è tramutato nell’apparire tanto, ma nel fare il meno possibile.
In sostanza, vivere di rendita. Un’opzione che, per un’istituzione con duemila anni di storia, può forse apparire saggia; più probabilmente è solo poco lungimirante, se si pensa che alla Chiesa stanno franando le basi, con i fedeli che si allontanano e i preti che non trovano sostituti.
A nostro avviso Bressan ha dato quello che poteva dare. E la definizione di “prezzemolo” è forse ingenerosa, sicuramente parziale. Bressan, in realtà, ha anche agito, senza molto apparire ma in sintonia con una parte del Trentino, perpetuando modalità e cultura del cattolicesimo più tradizionale. Vediamo nel concreto.
La prima questione, guarda un po’, sono i soldi. Qui si è continuato a coltivare il ruolo centrale – pesantemente favorito dal pubblico (basti pensare alla speculazione all’ex-Michelin), ma incoraggiato dai privati che contano – di Isa e dei suoi affari. La finanziaria della Curia, talora autentico pescecane nel mondo economico locale (vedi il caso della Cantina LaVis), ha procurato alla Chiesa trentina qualche imbarazzo di troppo: “L’immaginario collettivo pennella cose turpi su Isa” - ha dovuto ammettere lo stesso amministratore delegato Giorgio Franceschi al settimanale diocesano Vita Trentina; con la “turpitudine” arrivata fino all’usura sui poveri attraverso l’acquisizione dei 400 negozi della catena Orocash, rientrata proprio in seguito alla mobilitazione dei cattolici di base.
Più tranquille invece, in quanto molto consolidate, le continue elargizioni di denari pubblici alle più svariate entità cattoliche: non solo le scuole confessionali, ma i focolarini, l’Associazione Via Pacis, l’Arcivescovile di Ferrara, un elenco lunghissimo, peraltro ultimamente arricchitosi di nuovi soggetti. E qui però Bressan ha ecceduto: nel 2005, grazie ai buoni uffici del senatore Ivo Tarolli, membro della Commissione Bilancio, arrivavano dalla legge finanziaria nazionale ben 5 milioni alla Curia, del tutto immotivati se non come regalia clientelare, al che il mondo cattolico locale si ribellò, e Bressan prima minimizzò poi, obtorto collo, fu costretto alla rinuncia. Insomma, il pastore si smarriva e le pecorelle lo rimettevano sulla retta via.
Seconda questione, i “temi sensibili”, e tra essi la sessuofobia. Tema principe della tradizione cattolica ed oggi in crisi verticale, è stato duramente interpretato da Bressan, per una volta del tutto uscito dalle usuali prudenze diplomatiche: si è reso autore di un esplicito intervento a gamba tesa contro la legge sull’omofobia in discussione in Consiglio Provinciale, con il risultato di rinviarla alle calende greche e di lasciare il Trentino come unica realtà in Italia a non avere una legge in merito.
Infine, i rapporti con le altre religioni. Occorre sottolineare la tradizionale apertura ecumenica e il decennale dialogo interreligioso che caratterizza la diocesi di Trento, e il grande impegno del mondo cattolico locale nell’accoglienza dei migranti. Tuttavia, ancora una volta, Bressan non ha fatto nessun passo in più rispetto al suo tipico atteggiamento accomodante e moderatissimo. Di più: si è distinto in una maldestra e improvvida affermazione, riuscendo a mettere insieme parole contrarie alla libertà religiosa sancita dalla Costituzione con il sempiterno richiamo ai soldi. “I musulmani possono costruirsi la moschea, purché se la paghino loro”: frase formalmente anche corretta, ma vergognosa in bocca a chi riceve per le chiese denari a palate, e soprattutto biforcuta. Perché in realtà gli islamici la moschea se la volevano costruire proprio con i loro soldi, e abbisognavano solo delle autorizzazioni urbanistiche, contrastate da Lega e destra. L’intervento vescovile era nei fatti un no alla moschea, almeno così venne interpretato dalla politica, che subito lo fece proprio.
La Chiesae la politica
In tutti questi aspetti si evidenzia una continuità con alcuni degli orizzonti più consolidati del potere curiale: centralità del denaro, sessuofobia, atteggiamento di superiorità e di fastidio verso la libertà di culto altrui. Temi su cui c’è sintonia con parte della popolazione, e un rapporto apparentemente egemonico con la politica e i piani alti della società, del tutto subalterni.
Una subalternità che però ha due facce. Da una parte l’estrema debolezza della politica (e della borghesia?) trentina, incapaci di avere alcuna visione, valore, convinzione propri.
Ma dall’altra una corrispondente debolezza della Chiesa, che approfitta della subalternità dei partiti per riceverne i trenta denari. E per utilizzarli per il lavoro sporco: confermare l’islam (evidentemente ritenuto un concorrente) nella marginalità.
In questo c’è però un accodarsi della Chiesa alla politica, e quindi al suo discredito. Cui però la politica può forse sperare di sopravvivere in quanto in certa misura indispensabile; mentrela Chiesa, come dimostrano le chiese e i seminari vuoti, indispensabile non è: se vivacchia, rischia l’estinzione.
Bressan ha avuto questa fondamentale colpa: quando approvava le speculazioni di Isa metteva i bastoni fra le ruote ai musulmani, spremeva soldi dalle casse pubbliche, credeva di essere accorto. In realtà buttava alle ortiche le uniche possibilità di senso dell’istituzione:la Chiesa“profetica” come dicono alcuni, “ospedale da campo” come proclama Francesco, insomma la vicinanza ai poveri, la difesa degli oppressi a iniziare da coloro che praticano altre religioni.
Su questo Bressan ha ricevuto qualche robusto alt da parte degli stessi credenti. Noi dubitiamo che il suo vice, corresponsabile di tutte queste scelte, sappia maturare - oltre l’iniziale pauperismo francescano, positivo ma oggi troppo di moda - quell’inversione di rotta che dal basso è già stata segnalata.