“La crisi dell’antifascismo”
Sergio Luzzatto, La crisi dell’antifascismo. Einaudi, 2004, pp. 95, euro 7.
Lo storico Sergio Luzzatto ha scritto un pregevole e agile libretto ("La crisi dell’antifascismo") che merita di essere letto e meditato, specie dopo la bancarotta identitaria della sinistra. "L’antifascismo sta attraversando una crisi profonda - scrive Luzzatto - non soltanto a causa della legge generale per cui l’impatto di ogni fenomeno storico è destinato comunque a diminuire nel tempo" ( è passato oltre mezzo secolo dalla fine della 2° guerra mondiale e gli uomini della Resistenza sono quasi tutti morti. n. d. r.), ma anche perché "in Italia come in Europa non vi è stato antifascismo senza il contributo decisivo del comunismo", ma "il comunismo è finito male". Infatti L’Unione Sovietica, le democrazie popolari, la Cina, la Cambogia si sono rivelate dittature insopportabili. La prima è implosa trascinando nella caduta i paesi satelliti, Cina e Cuba non si sono trasformate in democrazie.
C’è dunque il pericolo, afferma Luzzatto, "che la fine del comunismo possa trascinare nella tomba anche l’antifascismo" (pag. 8).
A me pare che ci sia qui un nodo irrisolto sul quale bisognerebbe riflettere e studiare, mancando finora, a quanto mi risulta, fonti attendibili. Lo stesso Luzzatto lo avverte: "Capita oggi di assistere a un paradosso: gli uomini e le donne i quali scegliendo a vent’anni l’antifascismo anziché il fascismo, contribuirono in maniera straordinaria a redimere l’Italia dalla colpa storica della dittatura, si trovano adesso da ottuagenari a doversi confessare per peccati che non hanno materialmente commesso. Oppure si preparano a morire tacendo. Il canto del cigno di questa generazione è l’assordante silenzio dei comunisti".
Ciò è in parte vero, ma non tutto è silenzio nel campo degli ex comunisti. Segnalo a Luzzatto e ai lettori lo straordinario libro del prof Emilio Rosini, presidente onorario del Consiglio di Stato ("L’ala dell’angelo, itinerario di un comunista perplesso", Edizioni di storia e letteratura); e altri stanno cominciando a parlare: Ingrao, Macaluso, ecc.
Ma c’è un’altra ragione ancora che, secondo Luzzatto, rischia di esaurire la vitalità dell’antifascismo: l’uso sistematico del revisionismo a fini politici, che ha consapevolmente confuso la storia con la memoria, "storia condivisa e memoria condivisa" che vanno invece tenute distinte. "Il caso Vivarelli è un esempio perfetto della confusione che oggi si fa tra memoria condivisa e storia condivisa; più in generale tra bisogno di memoria e bisogno di storia.... Occorrerebbe spiegare che la memoria collettiva sulla quale si affaticava la mente geniale di uno studioso come Marc Bloch non equivale necessariamente alla memoria condivisa" (pag. 15) di cui tessono l’elogio i revisionisti da strapazzo. "L’una (la storia) rimanda a un unico passato, cui nessuno di noi può sottrarsi, mentre l"altra (la memoria condivisa) sembra presumere un’operazione più o meno forzosa di azzeramento delle identità e di occultamento delle differenze. Il rischio di una memoria condivisa è una smemoratezza patteggiata, la comunione nella dimenticanza" (pag. 25).
Secondo Luzzatto non è possibile, e sarebbe un errore storico, annacquare la guerra tra fascisti e antifascisti, combattuta durante il ventennio e soprattutto nel periodo tragico 1943-45: "Credo sia venuto il momento di dire ai cattivi maestri - votino a destra o a sinistra - una cosa semplicissima, ma di dirla forte e chiara: la guerra civile combattuta tra il 1943 e 45 (o 46) non ha bisogno di interpretazioni bipartisan che ridistribuiscano equamente ragioni e torti, elogi e necrologi. Perché certe guerre civili meritano di essere combattute. E perché la moralità della Resistenza consistette anche nella determinazione degli antifascisti (tutti, senza distinzione! n. d. r.) di rifondare l"Italia anche a costo di spargere sangue" (pag. 29). "Ripeto: si può condividere una storia - e si può condividere una nazione o addirittura una patria - senza per questo dover dividere delle memorie. Dico di più: una nazione e perfino una patria hanno bisogno come del pane di memorie antagonistiche, fondate su lacerazioni originarie, su valori identitari, su appartenenze non abdicabili né contrattabili".
Luzzatto ha ragione: si pensi all’Inghilterra di Cromwell, alla Francia di Robespierre, alla Spagna di Franco, agli Stati Uniti e alla loro sconvolgente guerra civile del 1861-65. La democrazia americana nasce dai valori di Abramo Lincoln e non dagli disvalori dei razzisti del sud. Altrettanto va detto per la nostra Repubblica, che non viene da Salò ma dalla Resistenza. Tra i due schieramenti vi era incompatibilità di valori: "La qualità etica dei valori in nome dei quali le brigate partigiane (anche le Garibaldi) fecero la Resistenza risiede precisamente nella loro incompatibilità con i valori in nome dei quali le brigate nere spalleggiarono la Wehrmacht e le SS nell’opera di repressione del banditismo antifascista"(pag. 31). Compresi gli antifascisti comunisti. Scrive infatti Luzzatto: "Dobbiamo rimpiangere che operai comunisti delle città italiane si siano fatti gappisti e abbiano reso la vita impossibile agli occupanti tedeschi, mentre l’esistenza di Hitler e dei capi nazisti non è stata minacciata, fino all’entrata dell’Armata rossa a Berlino, se non da una trama putschista di alti ufficiali aristocratici?" Certo che no!
"Mi riesce più gradito riconoscere nella guerra partigiana la carta di identità del paese in cui sono nato - scrive Luzzatto - e mi riesce necessario pensare all’Italia della Resistenza come al terreno dove gli Italiani devono tracciare ‘ora e sempre’ i confini non negoziabili della loro identità, la soglia del non rinunciabile da sé" (pag. 33).
Il revisionismo politico, che fa di ogni erba un fascio, non vuole chiarezza di idee su questo punto e tende ad espungere dall’antifascismo il contributo decisivo dei comunisti. Scrive Luzzatto: "Le nuove generazioni rischiano di non imparare il contributo decisivo dei comunisti italiani alla nascita dell’Italia nuova... e i bambini come i miei non sentiranno più pronunciare, sui banchi di scuola, i nomi venerandi di chi spese il meglio della propria esistenza per liberare l’Italia dalla dittatura e fondare la Repubblica: comunisti senza macchia e senza paura che si chiamavano Giorgio Amendola o Umberto Terracini, Camilla Ravera o Giancarlo Paietta" (pag. 37). E ancora: "La vittoria del comunista delle Garibaldi ha significato un’Italia libera, la vittoria del fascista di Salò avrebbe significato un’Italia schiava" (pag. 40).
Se tutto questo è vero, e lo è in modo incontestabile, come si può affermare che "l’abbraccio" tra comunismo e antifascismo sia stato letale? Secondo me, che non sono uno storico, Luzzatto non distingue a sufficienza fra la struttura autoritaria e poliziesca del "socialismo reale", di cui almeno i giovani comunisti europei non erano a conoscenza nel ‘43-45, e l’afflato di libertà, lo spirito di sacrificio, la lealtà costituzionale dei comunisti europei (italiani, francesi, norvegesi, polacchi, cecoslovacchi, jugoslavi) che combattevano senza nessun retro-pensiero per la libertà contro il fascismo. Non possiamo dimenticare la parola d’ordine che li accomunava tutti: "Morte al fascismo , libertà ai popoli!"
Per quanto riguarda l’Italia, i comunisti furono tra i padri fondatori della Costituzione democratica, firmata non solo da De Gasperi, ma anche da Umberto Terracini, e la difesero poi strenuamente e con coerenza. Lo riconosce lo stesso Luzzatto: "Proprio i 55 giorni del rapimento Moro attestarono la forza con cui i valori dell’antifascismo avevano attecchito nella gran massa del popolo comunista. Rifiutando qualunque cedimento alla linea craxiana di una trattativa per la liberazione di Moro, Enrico Berlinguer si fece interprete di un antifascismo di garanzia della Repubblica graniticamente condiviso dalla sua base: come avrebbe presto dimostrato l’operaio comunista Guido Rossa, ucciso dalla colonna genovese delle BR per aver denunziato chi faceva propaganda eversiva nelle fabbriche" (pag.63).
Verso la fine del suo bellissimo libro Luzzatto si chiede: "L’Italia del terzo millennio può rinunciare a quanto appreso in conseguenza di un lontano Ventennio? Per quel che vale , la mia risposta è no. Inoculato a carissimo prezzo, il vaccino antifascismo riesce tuttora indispensabile alla salute del nostro corpo politico" (pag. 88).
Un esponente prestigioso della generazione che ha fatto la Resistenza - Carlo Azeglio Ciampi - "abita oggi il palazzo del Quirinale da cui garantisce con intransigenza di vestale la fedeltà delle istituzioni repubblicane al codice genetico dell’antifascismo" (pag. 56).
Ma cosa accadrà alla scadenza del suo mandato? Se l’antifascismo è in una grave crisi, come pare per le ragioni dette, "vale sicuramente la pena di mantenerlo in vita ancora un po’, almeno finchè non si sia trovato di meglio... e il tentativo è tanto più opportuno, o addirittura necessario nel contesto della vita politica italiana dove la morte dell’ antifascismo rischia di significare non già una rinascita, ma l’agonia della democrazia" (pag. 92).
L’homo ridens che ha già trasformato il cittadino (non tutti per fortuna!) in homo videns, ci ammonisce ogni giorno su quanto sia facile ridurlo da homo sapiens in homo incultus.