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Lo spazio della commemorazione

Una cosa è il confronto politico, un’altra quei riti che hanno a che fare con l’elaborazione del lutto.

Camillo Zadra

Io credo che in una comunità possano esistere modalità che permettano a tutti di esprimere e manifestare in forme adeguate i riferimenti alla propria identità, anche quando in tempi diversi e in altri contesti quei riferimenti sono stati all’origine di divisioni e di lacerazioni. Questo senza che si annullino o si attenuino le differenze tra le posizioni ideali e politiche, i convincimenti, le ragioni di quelle passate lacerazioni. Penso che la manifestazione dei reduci della Repubblica Sociale Italiana svoltasi il 21 maggio scorso, presso la Campana dei Caduti di Rovereto, possa essere considerata all’interno di questo quadro.

Conosco le obiezioni sollevate a quella cerimonia; non solo per averle lette sulla stampa, ma anche perché in qualche caso hanno toccato la sfera delle relazioni personali. Ma non è questa la sede per dibatterle in modo disteso.

In ogni società, la collettività si misura e si confronta con il proprio passato in modalità e occasioni molteplici: l’ordinamento dello stato e i principi costituzionali, la vita politica, le manifestazioni della pubblica opinione. Ogni progetto che la società sviluppa, ogni immagine di sé che elabora, contiene dei riferimenti al passato.

C’è poi un ambito di ritualità commemorative, in uno spazio ancora più attinente al simbolico, dove noi manifestiamo il nostro modo di "avere un passato", e raccontiamo a noi stessi e agli altri chi siamo (stati) e come vogliamo essere ricordati: attraverso monumenti e cerimonie, musei, "luoghi della memoria", feste pubbliche.

E’ ben vero che nel nostro passato vorremmo ritrovare solo elementi nei quali poterci riconoscere e che ci accomunino; spesso invece vi ritroviamo fattori di divisione che non è facile affrontare.

Per attenuare il disagio, talvolta cerchiamo di mettere in ombra le ragioni che hanno diviso la comunità e di mascherare le ferite rimaste. In altri casi, quando la divisione è stata non solo vissuta ma anche rivendicata, come nel caso della Resistenza al nazifascismo, fino a farne fondamento morale e civile della società, sembra più semplice espungere dal nostro orizzonte odierno ciò che era stato respinto con le armi e con la politica. Gli storici invitano a non cedere alle rimozioni, alle ambiguità, a farci carico dei lati torbidi della nostra storia; invece spesso pensiamo che la ripulsa morale del fascismo non possa che estendersi d’ufficio a tutto ciò che ha avuto a che fare con quel regime, anche ad aspetti come la commemorazione dei caduti.

Nessuno si meraviglia se dopo una guerra civile non esiste una memoria condivisa tra chi si è affrontato con le armi in pugno e per decenni ha rielaborato separatamente gli argomenti di quella lacerazione. Nessuno rinuncerà a difendere le ragioni che lo avevano portato a rischiare la vita, non solo tra i protagonisti, ma nemmeno tra molti dei figli e persino tra qualcuno dei nipoti.

Purtroppo in casi come questo scontiamo tutti un uso un po’ disinvolto del termine "memoria", che maneggiamo come se magicamente rappresentasse la risposta al bisogno di sicurezza delle comunità. Invece spesso abbiamo a che fare con più memorie; fortunatamente la memoria è una costruzione sempre in mutamento, soggetta a continue sollecitazioni (è la nostra stessa identità ad essere "mobile"). Forzature e rimozioni sono sempre esposte a fenomeni di rigetto.

Dovremmo forse ammettere che da un lato ci sono spazi e circostanze nei quali i principi fondanti che stanno alla base della convivenza civile (elaborati nella Costituzione repubblicana all’indomani delle vicende della guerra 1943-45) devono essere limpidamente riaffermati, senza mescolamenti o riconoscimenti ambigui. Ci sono poi altri spazi - come la commemorazione dei caduti e delle vicende connesse alla guerra (che, nel caso dei reduci della RSI, hanno contrassegnato la sconfitta militare e politica del progetto per il quale essi si erano spesi) - che appartengono alla sfera dell’elaborazione del lutto e che possono essere legittimamente distinti dal confronto politico. Se i valori che stanno alla base dello stato democratico devono essere confermati in modo non equivoco e se le istituzioni che li incarnano non possono essere messe in gioco, anche il ricordo dei commilitoni morti in una guerra civile, la commemorazione del loro valore alla presenza delle proprie bandiere di guerra, può rivendicare una propria ragione, per quanto si esprima attraverso comportamenti e atti che non accomunano.

Qualcuno obietta che in questi appuntamenti si dà spazio a marce neofasciste, a slogan razzisti. E’ vero, può capitare, ma si può anche considerare che - se questo succede - esiste una responsabilità personale per le parole pronunciate e che se reato viene commesso, vi è una legge che lo persegue.

Penso infine che a distanza di sessant’anni dalla fine della guerra, dalla sconfitta del Terzo Reich e dalla dissoluzione della Repubblica Sociale, dovrebbe trovare spazio il sentimento - che anche in politica è peculiare degli spiriti forti - della magnanimità, per cui non si dovrebbe caricare su una cerimonia commemorativa di reduci, quand’anche non condivisa né assecondata dalla gran parte della popolazione, quand’anche testimonianza di una guerra crudele, l’intero carico degli orrori imputabili al nazifascismo.

Credo che la Campana dei Caduti, con il suo carattere di spazio creato da un’istanza comunitaria, con la forza simbolica e la rappresentatività peculiare che l’hanno accompagnata nel tempo, sia uno degli spazi in cui questa ritualità poteva aver luogo.