Ecologia, giustizia, multilateralismo
Fra petrolio in esaurimento ed energie rinnovabili che stentano a decollare. Intervista a Wolfgang Sachs.
Questa che segue è parte di un’intervista a Wolfgang Sachs che apparirà su Una Città, rivista di cultura politica internazionale edita a Forlì (sito Internet www.unacitta.it, dove si può anche vedere come abbonarsi, poiché il giornale vive solo di abbonamenti). E’ stata realizzata a metà novembre a Wuppertal, in Germania, dove ha sede il prestigioso Istituto per il Clima, l’Ambiente e l’Energia, di cui Sachs è ricercatore. I lettori di QT hanno già letto dell’impegno di questo studioso, noto per le sue analisi innovative sulla sostenibilità dello sviluppo e proponente di un’ottica socio-politica che rompe la tradizionale contrapposizione fra capitalismo e socialismo, attraverso l’introduzione del concetto di finitezza delle risorse naturali.
La riflessione prende lo spunto da un confronto sul Jo’burg-Memo, il documento presentato dalla Fondazione Heinrich Böll al Summit sullo sviluppo sostenibile di Johannesburg nel 2002. Aveva per titolo "Ecologia: il nuovo colore della giustizia", era stato realizzato da 17 studiosi del nord e del sud del mondo, coordinati da Sachs, e presentava una visione dei problemi del mondo, proponendo concrete politiche nei campi ambientale, economico e dei diritti umani per superare la povertà e la crisi ambientale. Fu giudicato un punto di riferimento dai partecipanti non governativi al summit. L’intervista concerne il significato di quel vertice dell’Onu e cerca di chiarire ciò che è avvenuto in seguito.
A Johannesburg eri già piuttosto scettico sui risultati del Summit. Ti sei dovuto ricredere? Sono passati due anni: cosa è successo?
Quello che è impressionante è che Johannesburg è sparito dalla memoria, come se non avesse avuto luogo. E non solo per quanto riguarda l’opinione pubblica, ma anche per i governi, che erano gli attori principali del summit.
Però Johannesburg per molti è stato un avvenimento importante. Molte donne, soprattutto africane, erano andate là portando la loro speranza e anche alcuni governi, a partire da quello del Sudafrica, avevano investito molto impegno, puntando su un impegno internazionale a favore dello sviluppo, magari meno dell’ambiente.
Si deve distinguere fra l’evento governativo, che è un business di diplomazie, e la grande festa, momento della società civile, dove in tanti possono venire con speranza, rivedersi e conoscersi, e ne scaturisce un rafforzamento di una certa cultura globale. In quest’ultimo senso è stato un successo. Ma questo non era il vero obiettivo di Johannesburg, che tutto sommato era quello ufficiale. E qui il bilancio positivo di Johannesburg non è sul piano ambientale, ma sul piano del multilateralismo. A Johannesburg gli Usa han cercato di smantellare l’edificio di accordi internazionali sull’ambiente di dieci anni, hanno cercato di annullare alcuni dei principi di Rio del 1992, e in questo hanno fallito. Prima dell’opposizione alla guerra dell’Iraq, si è trattato della prima reazione contro il potere mondiale. Questo è stato l’esito interessante, che pochi hanno colto.
Nel Jo’burg-Memo, uno degli aspetti centrali e fatto proprio dalla delegazione europea, era la proposta di un cambiamento radicale a favore delle energie rinnovabili. La proposta è stata respinta in sede ufficiale, ma è stata presentata dall’UE alla fine del Summit, chiedendo ai paesi di aderirvi informalmente. Molti paesi hanno detto sì. Era una ribellione alla sconfitta. Che seguito vi è stato? Ad esempio, la Germania cosa ha fatto per portare avanti quello che sembrava il suo contributo principale alla politica estera europea in quel momento?
Dopo la sconfitta dell’Europa, dovuta all’alleanza fra Usa, Opec e alcuni paesi del Sud che ha respinto la proposta di una diffusione più accentuata delle energie rinnovabili , già nel corso del summit c’è stata la reazione giusta, e capace di indicare una via per il futuro. E’ stato come dire: facciamo un multilateralismo opzionale, un multilateralismo-meno-x. Non è obbligatorio che la cooperazione internazionale sia veramente globale, debba per forza includere tutti. Niente proibisce ai paesi interessati, che condividono in una certa misura la stessa prospettiva, di entrare in cooperazione, in un sistema di reciproco sostegno, di finanziamento, in un’ottica, per esempio, di sperimentazione e diffusione del rinnovabile.
Questa iniziativa è importante a due livelli. Da un lato, creerebbe uno sforzo multinazionale per fare almeno un piccolo passo verso una economia post-petrolio; dall’altro, indicherebbe la strada per un multilateralismo, per una governance transnazionale nell’era dell’egemonia degli Usa. La formula "multilateralismo-meno-x" è molto importante: promuove l’aggregazione tra paesi che vogliono andare avanti, cui poi, se riusciranno a sviluppare un’attrazione, se ne aggiungeranno altri. Un buon esempio è l’Europa, nata da sei paesi che oggi sono 25, mentre se si fosse cominciato mettendo tutti e 25 intorno a un tavolo, non si sarebbe trovato un accordo. Questo potrebbe essere se non un modello, almeno un’ispirazione di quel che potrebbe essere la cooperazione internazionale; che oggi è molto più importante di una volta, perché il mondo globalizzato va governato attraverso la condivisione della sovranità. Per questo si deve salvare il multilateralismo ed esser capaci di esercitarlo, anche contro il potere mondiale.
Questa era dunque la grande innovazione dell’Europa a Johannesburg. Cosa ne è seguito nel campo energetico?
Sul piano programmatico, è stato fatto il vertice di Bonn nel giugno successivo, abbastanza incoraggiante, in cui furono avviati tanti progetti concreti di partnership. Ma sul secondo livello di cui abbiamo parlato, a mio avviso, Bonn è stato un passo indietro. Per due motivi: perché non è stata l’Europa a organizzare l’incontro, ma il governo tedesco; e perché il cancelliere tedesco ha scelto di non dare fastidio agli Usa. In un certo senso si è ricaduti nell’errore di fare l’incontro globale, coinvolgendo anche gli Usa. Oggi purtroppo questo è un modo per annacquare tutto. E così ci sono stati incontri interessanti, ma si sono fatti ben pochi accordi, non si è messa in piedi nessuna struttura permanente, nemmeno l’Agenzia internazionale per le Energie Rinnovabili, che era una proposta dei produttori di tali energie.
Nella prospettiva del tramonto dell’era del fossile, la guerra è entrata come elemento determinante. Attraverso quali meccanismi?
Ci sono almeno tre cose importanti da tenere in considerazione. La prima è che il conflitto sul petrolio permette di leggere la situazione globale delle risorse. Si ha una domanda forte da parte dei paesi più ricchi del mondo, in pratica gli Stati Uniti (oggi consumano il 25% del petrolio mondiale, cifra destinata a crescere). Secondo, il petrolio è limitato: quasi tutti gli esperti concordano che fra il 2008 e il 2018 sarà superato il punto di massima produzione: dopo la produzione mondiale calerà, con un’immediata forte ricaduta sul prezzo e, nell’arco di alcuni decenni, avremo l’esaurimento della risorsa. Terzo aspetto: oltre ai paesi ricchi, anche i nuovi arrivati pretendono la loro parte di petrolio: la Cina, e poi l’India, e anche i più piccoli; questo mentre i tre quarti delle riserve mondiali sono sotto la sabbia del Medio Oriente. Tutta l’Asia fra dieci anni non avrà più petrolio; la Nigeria, la Russia e il Turkmenistan ne avranno ancora, ma in quantità non confrontabili con quelle del Medio Oriente; il petrolio americano è finito, quello europeo fra poco finisce, quello asiatico, come quello sudamericano non ha grandi prospettive. In questa situazione ognuno cerca di assicurarsi la sua parte, e gli Usa in Iraq hanno fatto questo.
Ma c’è anche chi è fuori dalla competizione: i più poveri e i più deboli. In questo conflitto fra giganti, cosa fanno il Mali, la Tanzania o il Paraguay? Devono pagare il prezzo alto. Quindi l’impoverimento dei deboli avviene di pari passo con il conflitto fra i più forti per l’accaparramento delle risorse. E c’è la questione della sicurezza: il sistema del petrolio e di tutte le risorse fossili è un sistema che tecnologicamente ha bisogno di lunghe catene di approvvigionamento. I pozzi di petrolio si trovano in pochi posti al mondo, e quasi sempre c’è una grande distanza fra il punto di produzione e quello di consumo, coperta da strutture molto vulnerabili.
Tutto questo ci fa dire che se si vuole un sistema energetico più sicuro, si deve guardare al rinnovabile, nel quale, fra l’altro, il luogo di produzione è in genere vicino a quello del consumo. E’ insomma un sistema energetico che non richiede alcuna forma di imperialismo, permette di lasciare in pace gli altri: in poche parole, ci permetterebbe di avere un mondo più sicuro.
Nel Jo’burg-Memo e nei tuoi studi emerge con incisività la questione dei diritti umani come elemento centrale della questione ambientale.
Nel mondo ci sono due grandi crisi ecologiche. Una è la crisi del modello fossile, la crisi petrolifera. Poi c’è l’altra crisi, delle risorse biologiche, delle risorse viventi, che concerne in particolare i paesi dell’emisfero sud. Ed è la crisi delle risorse biologiche, dell’acqua, la gravissima crisi del suolo fertile, la crisi della vegetazione, delle savane, delle foreste, della pesca, e così via. Qui in particolare c’entrano i diritti umani, perché ci sono tante persone che per la loro sussistenza vivono della natura; per avere del grano e dei pomodori non vanno al supermercato, devono coltivarli sulla loro terra, devono andare nelle foreste per raccogliere la legna o i frutti del bosco e le piante medicinali, devono pescare. E’ un terzo dell’umanità che vive direttamente della natura, sono in particolare i poveri nelle zone rurali. Qui c’è un intreccio molto stretto fra ecologia e povertà, perché è più tollerabile essere povero quando gli ecosistemi sono floridi. Più questi si degradano, più vulnerabile diventa il povero. Quindi la protezione ambientale va di pari passo con la protezione dei diritti di esistenza dei più poveri o, meglio, di chi ha poco potere.
Tu dai molta importanza agli aspetti istituzionali. Nel mondo c’è una forte tendenza contraria, che indebolisce il potere reale delle istituzioni la cui funzione è la rappresentanza del bene comune.
Credo che siamo in una fase di transizione. Non è vero che ci sia solo un calo di impegno o di senso di responsabilità. C’è anche una crescita. Perché la globalizzazione lo comporta, fa crescere la richiesta di un ordine mondiale, e anche di diritti umani. Credo sia necessario impegnarsi nella battaglia per le istituzioni della società mondiale.
Bibliografia
Chi è interessato a un futuro del mondo che non prescinda dall’intreccio delle questioni dell’ambiente e della giustizia, trova anche una breve (a parere di chi scrive, indispensabile) bibliografia essenziale in italiano:
- Jo’burg-Memo. Ecologia: il nuovo colore della giustizia. Anche in italiano in: www. joburgmemo.org;
- W. Sachs (a cura), Dizionario dello sviluppo. EMI 2004 (nuova edizione)
- W. Sachs (a cura), Ambiente e giustizia sociale. I limiti della globalizzazione. Editori Riuniti, 2002.
- W. Sachs – Loske – Linz (a cura), Futuro sostenibile. Riconversione ecologica, Nord-Sud, Nuovi stili di vita, EMI, 1997