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QT n. 10, 15 maggio 2004 Servizi

Wahhabiti: i puri e duri dell’Islam

Nascita, sviluppo e contraddizioni della più rigorosa corrente islamica.

Il deflagrare della notizia sulle torture nelle carceri della coalizione, ha reso ancor più drammatici i rischi insiti nella sciagurata avventura irakena, e più in generale nella concezione tutta militare, e al contempo religiosa/messianica, della lotta al terrorismo. Il rischio di scatenare una guerra tra nord e sud del mondo, imbarbarendo i connotati di entrambi, è oggi un po’ più vicino. Noi riteniamo che si debba invece continuare a ragionare. In questo numero dedichiamo l’intervento di Giorgio Tosi (pag. 13 ) allo specifico problema delle torture; qui il prof. Carlo Saccone analizza la nascita, gli appoggi, l’evoluzione e le prospettive dell’intricata realtà del wahhabismo, interpretazione fondamentalista dell’Islam; a pag. 24, infine, discutiamo con l’imam Abulkheir Breigeche di come la comunità islamica locale si rapporta a tutto ciò.

Il Wahhabismo è un fenomeno politico-religioso complesso di cui vale la pena ripercorrere le tappe. Sorse nel ‘700 dalla congiunzione tra la predicazione di un agitatore religioso, Muhammad ibn ‘Abd al-Wahhab e l’azione politico-militare di un capo di tribù guerriere, Muhammad ibn Sa‘ud, l’eponimo dell’attuale dinastia saudita regnante in Arabia. Quest’ultima riuscì ad unificare la gran parte della penisola arabica dando o ine al primo regno saudita (1744-1818). Dopo alterne vicende, e la fondazione di un secondo regno (dal 1818 alla Grande Guerra), questa famiglia, nel 1932 riunifica ancora una volta la penisola dando vita al terzo regno saudita perdurante sino a oggi.

I sauditi regnanti si autoproclamarono, tra le proteste degli altri stati musulmani, gli unici custodi dei luoghi sacri e protettori dei pellegrini; poco dopo, nel 1933 stringevano un fondamentale accordo con la Standard Oil of California, ponendo così le basi della futura potenza finanziaria dell’Arabia Saudita. Questi due elementi - custodia dei luoghi sacri e potenza finanziaria costruita sul petrolio - diventano i due punti di forza della dinastia, la quale inoltre rinnovò sin dagli inizi la sua antica alleanza con il rigorismo wahhabita elevato in pratica a religione di stato.

Il successo dei sauditi si incrocia in quegli anni con l’aspirazione degli arabi, appena affrancatti dal giogo turco ottomano, a ricreare un califfato universale a guida araba. Questa aspirazione, di carattere utopico-religioso e marcatamente nazionalista, naufraga rapidamente, ma rinascerà in altra veste, ossia come progetto di egemonia politica sul mondo arabo di una dinastia, la saudita appunto. Progetto certo più discreto nella forma, ma assai più robusto e potente nella sostanza.

Inoltre, attraverso il wahhabismo, la dinastia saudita benedice e finanzia un piano a lungo termine di profonda "ri-scrittura" dell’Islam.

E qui siamo al nocciolo del wahhabismo e della sua propaganda che, dopo la grande epoca delle riforme laiche, moderniste e filo-occidentali a cavallo tra ‘800 e prima metà del ‘900, pretende di far ritornare tutti i musulmani a un Islam delle origini, "duro e puro", senza contaminazioni allogene, ferocemente contrario non solo a influssi modernisti e riformatori interni all’islam (e tanto più naturalmente a idee liberali e rivoluzionarie di matrice europea), ma anche alle "eresie" dello sciismo e del sufismo. Ad esempio, si giunse a vietare il culto delle tombe dei santi (caro ai sufi) come atto di insopportabile idolatria, visto persino come un attentato al monoteismo islamico. Si giunse a distruggere le tombe degli imam sciiti a Najaf e Kerbela (1802) e persino, in certi periodi, a proibire ai pellegrini di visitare la tomba di Maometto a Medina.

L’etica wahhabita è ispirata a rigorismo estremo e alla piena applicazione del codice coranico (compresi il taglio della mano al ladro e la lapidazione degli adulteri), nonché ad un marcato puritanesimo nei costumi: non solo veniva proibito il vino, ma si giungeva a vietare persino il caffè e il tabacco e, in tempi più recenti, si cercò accanitamente di tenere al bando le "diavolerie corruttrici" della tecnica moderna come la televisione.

Questo movimento di risveglio religioso certamente trae le sue origini da un moto di reazione al frustrante sentimento di decadenza dell’Islam, diffusosi a partire dal XVIII secolo sull’onda inarrestabile del vittorioso colonialismo europeo. Nel primo ‘900, la propaganda wahhabita darà origine per gemmazione a movimenti similari in Egitto ("Fratelli musulmani") e più tardi in Pakistan ("Società islamica"). Sostenuta finanziariamente dai sauditi, questa galassia fondamentalista si trasforma in seguito in qualcosa di più che un movimento di risveglio e di acritico ritorno alle origini come panacea ai mali del tempo presente.

Il fatto chiave della sua prima mutazione è la Rivoluzione d’Ottobre e il dilagare dell’ideologia marxista fra larghi strati di élites intellettuali arabe negli anni tra le due guerre mondiali. Si arriverà poi negli anni ’50 al trionfo del "socialismo arabo" di Nasser, di Boumedienne e del Ba’ath siriano e irakeno. A quel punto - con la benedizione (ahi, ahi, ancora una volta!) dell’Occidente - l’Arabia Saudita wahhabita alimenterà in ogni angolo del mondo musulmano, arabo e non-arabo, la sua visione fondamentalista anti-laica e anti-comunista dell’Islam, in competizione col verbo del "socialismo arabo", contestando ferocemente le élites musulmane al potere supposte atee e comuniste, viste persino come responsabili di tradimento del "vero islam" e perciò indicate al pubblico disprezzo.

La fine delle utopie "socialiste arabe" non segna affatto la fine del fondamentalismo wahhabita, che anzi si sente un po’ il vincitore morale della sfida con l’ateismo marxista. Con il prestigio della dinastia saudita, e soprattutto con il flusso infinito dei denari della rendita petrolifera, il wahhabismo continua a promuovere in tutto il mondo musulmano una attiva propaganda religiosa che, una volta sconfitto il pericolo marxista, punta ora molto più in alto. Ovvero si ripromette di "rifare" l’islam e i musulmani da capo a piedi, combattere l’agnosticismo e la tiepidezza delle masse urbane sempre più sedotte dalla tecnica, dall’edonismo e dalle sirene del consumismo occidentale.

Il wahhabismo, attraverso istituzioni sostenute soprattutto dall’Arabia Saudita, finanzierà generosamente in tutto il mondo islamico la costruzione di scuole e moschee, istituzioni e associazioni missionarie legate al verbo fondamentalista. In certe zone africane particolarmente povere, ad esempio, l’approccio alla cultura religiosa (e, spesso, all’istruzione superiore) è possibile solo all’interno di scuole e istituzioni create dal denaro della propaganda wahhabita-saudita. Con la intuibile conseguenza che il tipo di Islam che viene colà insegnato e predicato è di osservanza wahhabita, quanto a dire vicino a una visione di tipo fondamentalista.

Da sinistra: Abdullah bin Abdul Aziz, principeereditario e primo ministro saudita, il presidente siriano Assad, e quello egiziano Mubarak.

I Fratelli Musulmani, divenuti col tempo un po’ il braccio politico del fondamentalismo di stampo wahhabita su scala mondiale, portano avanti la loro battaglia per affermare questo Neo-Islam in tutti i più importanti paesi (dalla Siria alla Giordania, dal Marocco all’Egitto). E conquistano i ceti intellettuali e le masse urbane depauperate, subendo talora (nell’Egitto di Nasser o nella Siria di Hafez al-Assad ad esempio) persecuzioni e decimazioni sanguinose, ma comunque sempre risorgendo dalle ceneri. Grande successo avrà la predicazione in molti territori d’immigrazione islamica in Europa e America, dove gli immigrati spesso non trovano altre moschee e assistenza spirituale e materiale se non all’interno di circuiti sostenuti e finanziati dalla propaganda filo-wahhabita.

Negli ultimi anni anche regimi filo-occidentali come l’Egitto o il Pakistan, per puntellare le proprie posizioni, hanno ceduto alla potente spinta conservatrice-reazionaria di questi movimenti, consentendo una più o meno spinta re-islamizzazione dei codici civili e penali col conseguente sensibile peggioramento della tutela dei diritti (della donna, delle minoranze, ecc.).

Ora - ecco l’aspetto apparentemente contraddittorio - l’Arabia Saudita wahhabita ha sempre mantenuto ottimi rapporti politici e d’affari con gli Stati Uniti e le "sette sorelle" del petrolio; detiene solidi pacchetti azionari a Wall Street e sulle principali piazze finanziarie europee, è anzi divenuta un pilastro della finanza internazionale. Non solo; a partire dalla prima Guerra del Golfo ha ospitato basi americane sul suo territorio e prestato la più ampia collaborazione di intelligence con i servizi segreti occidentali.

Ciò non ha impedito che Osama bin Laden uscisse di lì, così come molti dei suoi accoliti, i quali, ritorcendosi contro l’apprendista stregone, hanno cominciato ad accusare la dinastia saudita attuale di aver tradito anch’essa gli ideali dell’islam "duro e puro" e anzi l’hanno persino scomunicata dichiarando una vera e propria jihad contro il regime di Riad, accusato di asservimento agli interessi occidentali.

Situazione complessa dunque, e intimamente contraddittoria, sia dal punto di vista politico che da quello religioso. I sauditi hanno portato avanti, almeno dal secondo dopoguerra in poi, un piano strategico per affermare la propria supremazia politica e economica sul mondo islamico sunnita, solo in parte contrastato con efficacia dal "socialismo arabo" (in Egitto, in Siria, in Maghreb); il tutto, come abbiamo visto, con il tacito appoggio dell’Occidente. Allo scopo i sauditi hanno ampiamente e spregiudicatamente usato sia la leva finanziaria, sia quella ideologica-religiosa, il wahhabismo appunto, rivelatosi formidabile strumento di propaganda e di egemonia culturale.

Tuttavia – aspetto che complica ulteriormente le cose - il wahhabismo ha anche prodotto, dal suo stesso seno, un movimento ultra-estremista che lo contesta dall’interno (si pensi, per fare un paragone, alla situazione dell’Italia degli anni ’70, in cui le Brigate Rosse avevano scomunicato i vertici storici dei partiti operai…) e che equipara ormai i sauditi, colpevoli di "rammollimento" ideologico e di collaborazionismo con gli americani, alle altre monarchie ed élites musulmane al potere "empie e traditrici del vero Islam"…

Manifestazione di Hezbollah in Libano.

Oggi, in altre parole, ci sarebbe un fondamentalismo wahhabita relativamente "buono", istituzionalizzato e tranquillo, ma giudicato non meno pericoloso nella prospettiva dei più sinceri riformatori musulmani, e poco affidabile nella prospettiva dell’Occidente e degli USA a cui, caduta l’Unione Sovietica, non serve più, il quale, finanziato dai sauditi, ha lentamente conquistato l’egemonia nelle università, nelle moschee e tra larghissimi strati sociali. E vi sarebbe poi il wahhabismo "cattivo", degenerato e violento, di Osama bin Laden ed emuli vari, che ha dato inizio allo scontro frontale, proclamando una vera e propria "jihad interna" contro l’establishment musulmano moderato ("traditore del vero Islam") al potere dal Marocco all’Egitto, dalla Turchia all’Uzbekistan, nella stessa Arabia Saudita, oltre a rivoltarsi contro gli Occidentali colpevoli di sostenerlo e foraggiarlo.

Questo jihadismo, ultima pericolosa mutazione del vecchio fondamentalismo wahhabita, presenta un ulteriore aspetto davvero inquietante: agli occhi di molti musulmani di oggi esso si fa carico della coraggiosa difesa degli arabi e delle terre musulmane di fronte all’aggressiva arroganza neo-coloniale dell’Occidente e di Israele. I suoi metodi terroristici sono considerati istintivamente da moltissimi musulmani non il frutto di follia e fanatismo, bensì espressione di una disperata, eroica (fino al martirio) e dunque onorevole "resistenza".

Qual è il rapporto tra questi due rami del wahhabismo? Si sostiene, da parte di molti osservatori, che persino le grandi organizzazioni religiose intergovernative musulmane, come la Conferenza dell’Organizzazione degli Stati Islamici e la Lega Islamica Mondiale (World Muslim League) sarebbero oggi largamente egemonizzate dal wahhabismo "buono", anche per il fatto che il finanziatore principale è l’Arabia Saudita… La quale certamente non perde occasione per prendere le distanze da Osama e dagli altri figli degeneri tipo i movimenti Jihad Islamica o Hezbollah ("partito di Dio") operanti in Medio Oriente.

L’attentato terroristico nella capitale saudita Riyad che fece una ventina di vittime nel novembre scorso.

Ecco, l’Arabia Saudita: i suoi regnanti si difendono dal sospetto di essere in fondo all’origine della degenerazione fondamentalista dell’Islam odierno, esibendo urbi et orbi gli storici ottimi rapporti con gli USA e col grande capitale europeo e americano. Più di recente, dopo aver tolto la cittadinanza ad Osama e accoliti, e anche a seguito di una serie impressionante di attentati a Riad, v’è stato in effetti un vasto e cruento repulisti all’interno del regno saudita di tutti gli elementi legati al fondamentalismo "cattivo" e terrorista. Certo, questa azione è andata incontro agli auspici e alle pressioni crescenti degli americani ma, indubbiamente, corrispondeva a un vitale bisogno di sicurezza della stessa dinastia saudita che, come abbiamo visto, è entrata nel mirino della "jihad interna" portata avanti da Osama e soci.

Basterà tutto questo a tranquillizzare gli americani? Nessuno accusa espressamente l’Arabia Saudita di finanziare il terrorismo internazionale. Ma - si osserva - il tipo di Islam che da mezzo secolo viene esportato dalle sue istituzioni e finanziato dai suoi denari è apparso in pericolosa contiguità con certe degenerazioni ideologiche (e non solo) dei vari gruppi della "Jihad islamica" o degli "Hezbollah" e, in conclusione, non sembra fatto apposta per tranquillizzare l’Occidente.

Probabilmente questa crisi del wahhabismo, oggi diviso in due tronconi irrimediabilmente avversi e sempre più incomunicanti, è salutare: il wahhabismo istituzionale dell’Arabia Saudita, delle grandi scuole teologiche e delle organizzazioni musulmane internazionali, ha dovuto prendere le distanze dalle lugubri farneticazioni di certi figli degeneri… e forse si avvia verso una nuova mutazione che fa davvero i conti, fino in fondo si spera, con la Modernità.

L’Occidente sta oggi di fronte a un problema enorme. Colpire con le bombe i fondamentalisti, o magari assassinare a sangue freddo i capi religiosi più estremisti, comporta il rischio di spostare ulteriormente masse crescenti di musulmani tiepidi o indifferenti verso l’area di influenza integralista e, al suo interno, di incrementare persino il ramo più "cattivo". Nel contesto dell’attacco anglo-americano all’Afghanistan, all’Iraq (e domani magari alla Siria, all’Iran, ecc.), ogni voce musulmana moderata che si azzardi a parlare di dialogo con questo Occidente, quello di Bush e Blair (e di Berlusconi!), o che sposi il Grande Progetto americano di portare democrazia e libertà nel mondo arabo, rischia di passare semplicemente per voce connivente col "nemico", o col Grande Satana americano.

Di fatto la voce dialogante dei moderati musulmani – che ci sono, e non sono pochi - in queste condizioni fa fatica a emergere o, se ci riesce, viene zittita.

In questo contesto ormai avvelenato dalla retorica e dalla prassi bellicista ci si potrebbe chiedere: non è più facile che paesi relativamente laici e abbastanza democratizzati come la Turchia e l’Indonesia alla lunga rischino di tornare indietro a grandi passi e si "wahhabizzino", piuttosto che paesi relativamente arretrati sulla via della democratizzazione all’occidentale facciano gli auspicati passi in avanti?

E’ la domanda-chiave cui è posta di fronte l’amministrazione americana la quale, notoriamente, fa affidamento sul pieno successo, almeno nel lungo periodo, della democratizzazione del Medio Oriente. Democratizzazione che viene intesa come strumento fondamentale di omologazione di questa vasta area all’ american style of life e, in definitiva, agli interessi globali dell’Occidente - un Occidente allargato dunque fino a comprendere, in prospettiva, l’ecumene islamica progressivamente pacificata, "normalizzata" e resa partecipe convinta dei buoni valori dello Zio Sam.

Di recente l’Egitto di Mubarak, storicamente il grande rivale dell’Arabia wahhabita-saudita, sembra aver ripreso l’iniziativa per tentare di "riappropriarsi" del progetto di democratizzazione del mondo arabo, ovvero per sottrarlo all’egemonia delle armi anglo-americane e presentarlo come un progetto che nasca dall’interno di quel mondo arabo moderato che è più sensibile a valori laici e occidentali. Nella stessa direzione va anche il recente Congresso dei democratici del mondo islamico tenutosi a Istanbul - patrocinato dall’ONU e da stati musulmani moderati e laicheggianti come Giordania, Marocco, Indonesia e Turchia, che ha approvato una "Piattaforma per la governance democratica" e la promozione di riforme strutturali in tre campi: tolleranza, giustizia, partecipazione (vedi L’Avvenire del 15 aprile scorso).

Iniziative importantissime, ma che rischiano di essere tardive o di non far presa di fronte all’incalzare degli eventi bellici e alla radicalizzazione dei sentimenti anti-occidentali tra le masse.