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Vita sotto occupazione

Diario da Hebron di una volontaria trentina: la quotidianità della guerra, dei soprusi, dell'umanità che cerca di tirare avanti.

Hebron, 15 aprile 2004. Qualcosa sull’occupazione. Il sistema di controllo creato dagli israeliani rende la vita dei palestinesi impossibile. Certo ci si abitua a tutto ma le continue violazioni dei più basilari diritti umani sono un fatto con cui si fatica a convivere. Penso che la maggior parte degli israeliani non sappia (in quanto preferisce non sapere, perché chiunque sia interessato ad andare oltre la porta di casa sua può riuscire a scoprire molte cose sgradevoli) quanto accada nei territori occupati.

Hebron: il Muro in costruzione.

I continui controlli ai check-point, le violenze e gli insulti dei coloni, l’impossibilità di muoversi... I palestinesi della West Bank non possono entrare a Gerusalemme, a meno che non siano in possesso del cosiddetto visto blu (riservato agli arabi che vivono nella città sacra) o di un permesso speciale (praticamente impossibile da ottenere in quanto rilasciato dall’autorità israeliana). Negli stessi territori occupati alcune zone sono interdette agli abitanti del posto. E poi c’è il fattore sorpresa. Da una notte all’altra possono venire create dal nulla nuovi edifici (per gli israeliani), e distrutte antiche case (di palestinesi). Dal mattino alla sera possono nascere nuovi check-point, essere interrotte strade, sigillati negozi, occupate case. A chi denunciare tutto ciò?

Ieri non siamo potuti passare lungo una via della città poiché dei coloni avevano deciso che un certo prato (di proprietà palestinese) era adatto ad un pic-nic e i soldati vigilavano sulla loro incolumità. I coloni sono protetti dai soldati ma chi protegge i palestinesi dai coloni e dai soldati? L’idea di non poter far nulla, di non potersi appellare a nessuna corte è ciò che mi fa arrabbiare maggiormente.

A Hebron i soldati continuano ad occupare nuovi edifici della città. La strategia è quella di impossessarsi dei piani alti delle case e insediarvisi per disporre di alcuni punti di controllo strategici. Le famiglie che vivono in queste case sono costrette a spostarsi al primo piano dell’edificio. Questo per evitare che membri della resistenza possano attaccare la nuova postazione. La famiglia "occupata" è costretta a comunicare tutti gli spostamenti dei vari membri ai soldati, le eventuali visite (non sempre permesse), e almeno un membro deve sempre restare nell’edificio. Se succede qualcosa ci sarà una ritorsione contro una persona appartenente alla famiglia.

Hebron: strada chiusa da blocchi di cemento.

Se riuscite ad entrare nell’album fotografico che sto creando e a guardate le foto che ho fatto da alcuni tetti nella città vecchia potrete notare come la cima di molti edifici sia diventata una base militare, il che comporta problemi non solo per gli abitanti dell’edificio ma anche per i vicini, le cui finestre vengono coperte, le porte o i collegamenti (per lo più attraverso i tetti) occlusi; costoro spesso decidono "spontaneamente" di spostarsi verso i piani bassi per evitare di ricevere le pallottole che vengono sparate a quell’altezza. I ragazzi che lavorano qui si sposteranno presto in una casa nella città vecchia. Anche loro dovranno abitare al primo piano: quelli più alti sono al momento inabitabili, in quanto si trovano giusto di fronte ad un punto militare occupato. I precedenti abitanti hanno lasciato la casa dopo l’occupazione e dopo che alcune pallottole erano state sparate contro il loro muro. Anche a questo ci si può abituare?

Hebron, 28 aprile. Un campo di rifugiati. Rafat e Mase sono venuti a prenderci verso le 11 per portarci a fare un giro con loro al campo di rifugiati dove abitano, Ahrup, poco fuori Hebron.

Soldati controllavano la situazione dalla torre militare situata all’entrata principale, limitandosi, per questa volta, a gridare alla gente (bambini di ritorno da scuola) di sbrigarsi e circolare. Tutti ci guardavano con curiosità ma in modo che mi sembrava più amichevole del solito: si affacciavano alle finestre o scendevano in strada mentre camminavamo, e i bimbi ci seguivano ponendoci la domanda di rito, "How are you?". Dopo un buon the (ovviamente dolcissimo e con foglioline di menta fresca) accompagnato da una fetta di torta, i nostri amici ci hanno portato con un furgoncino (guidato da un bambino che avrà avuto 11 al massimo 12 anni) fuori dal campo, per il pic-nic organizzato per noi. Ci siamo arrampicati su un colle fino ad arrivare in uno spiazzo con degli alberi e lì abbiamo acceso un fuoco e preparato il barbecue. Abbiamo mangiato e chiacchierato, come avrei fatto in Italia con i miei amici.

Sono immagini, queste, che non si immaginano neppure quando si parla di Palestina in Europa, ma sono parte della quotidianità tanto quanto la cronaca di guerra. E mi sarei potuta dimenticare di dov’ero, se non fosse stato per gli F16 che continuavano a passare sopra di noi, per i discorsi tristi dei miei amici che vorrebbero studiare in Europa e non possono uscire dalla Palestina, se non fosse stato per un altro ragazzo arrivato in ritardo a causa dei controlli ad un checkpoint, se non fosse stato per la tristezza negli occhi di Muhammad mentre mi spiegava che ormai sa che non potrà mai tornare al villaggio dove è nata sua madre.

Hebron, 3 maggio. Numeri e persone. l’uccisione della famiglia di coloni è senza dubbio una cosa orribile, come tutti gli atti di questo tipo.

Ciò che non capisco è perché questi israeliani che sono morti hanno un nome, un cognome ed una storia che la maggior parte degli italiani può conoscere aprendo un quotidiano, mentre nessuno può conoscere la storia delle famiglie palestinesi, delle persone che quotidianamente vengono uccise o ferite dall’esercito israeliano o dai coloni. Non una foto, non un cenno su quello che facevano prima, a meno che non si tratti di terroristi. I palestinesi sono numeri, non persone. Le storie da raccontare sarebbero molteplici, infinite, e anche la stampa alla ricerca della sensazione e del pianto sarebbe soddisfatta, eppure...

Hebron, 4 maggio. Il muro. Per quanto uno legga o veda foto riguardanti il muro che Israele sta costruendo per "motivi di sicurezza", trovarcisi di fronte è tutt’altra cosa. Il muro per ora si trova principalmente nella parte nord della West Bank e nei dintorni di Gerusalemme, ma sta raggiungendo rapidamente un’estensione molto ampia e presto arriverà a dividere anche Hebron. La strategia seguìta per la sua costruzione è astuta. Il muro viene costruito un pezzo alla volta, quasi non ci si rende conto di quanto sta accadendo. Il muro c’è, si vede e provoca molti danni, ma in molte zone non è completo e ci sono ancora ampi varchi che consentono il passaggio. Unire tutte queste parti però sarà un lavoro velocissimo, e irreversibile. In alcuni punti è una barriera di cemento alta 9 metri, in altri è più basso, in altri ancora non è muro, ma "solo" barriera con corrente elettrica. In altri un fossato, …

Biddu, manifestazione contro il Muro.

A Biddu, villaggio vicino a Gerusalemme, il muro non c’è ancora, ma si vede il tracciato dove presto passerà. E’ li che il 30 aprile siamo andati a manifestare. Una dimostrazione piccola e non del tutto riuscita, in quanto i pullman che dovevano arrivare dal nord della West Bank sono stati bloccati dall’esercito. Manifestazione tranquilla dunque, tanto che non si è visto neppure l’esercito. Alla scorsa dimostrazione erano stati uccisi 4 palestinesi.

Ad Abu-dis, villaggio a 5 minuti da Gerusalemme, il muro è già alto e divide la città in due parti, una palestinese e una israeliana. Quando sarà completato, la parte palestinese sarà accorpata alla West Bank (pur essendo a pochi chilometri da Gerusalemme) e gli abitanti perderanno la cittadinanza gerusalemmita (quella che permette di entrare facilmente nella città e di spostarsi sul territorio). Gli abitanti della parte palestinese per arrivare a Gerusalemme (sempre che ottengano il permesso, cosa quasi impossibile) dovranno fare un viaggio allucinante.

Abu-dis era collegato a Gerusalemme da una grande strada, piena di negozi e attività economiche. Oggi si cammina lungo questa strada e ad un certo punto, improvvisamente, ci si trova di fronte al muro. La strada si conclude. Strada senza uscita.

Gerusalemme da questa parte del muro non si vede più. Le attività economiche sono morte. La gente può ancora passare scavalcando il muro, ma solo a piedi e solo se non ci sono soldati israeliani che lo vietano.

Sara Turri con bambino palestinese.

Qui il 1° maggio ho partecipato a un’altra manifestazione. Questa volta c’era più gente, ma per lo più internazionali (è triste dirlo: comincio a vedere in giro sempre le stesse facce). Un gruppo di soldati era appostato su un edificio vicino. Anche questa manifestazione si è svolta in modo pacifico e i soldati non si sono avvicinati. La scorsa manifestazione dei ragazzini avevano tirato pietre contro una postazione militare e i soldati avevano chiuso tutte le vie di accesso e tirato lacrimogeni. Nessun ferito, solo tanta rabbia e impotenza: gli stessi sentimenti che provo io adesso.

A fianco a questo la solidarietà e l’ospitalità dei palestinesi che si dimostrano sempre più delle persone speciali. Stavamo camminando verso i taxi alla fine della manifestazione di Biddu, quando due bambini sui 10 anni ci hanno fermato e hanno cominciato a parlare con noi (in realtà più che parlare si mimava e sorrideva). Non ci siamo potuti sottrarre all’offerta di un the, e ci siamo ritrovati seduti a casa loro. Presto è sopraggiunta la mamma, le sorelle, i fratellini, e dal the si è passati a un piatto di cetrioli e carote crude, poi noccioline, infine abbiamo pranzato, sorridendo e cercando di comunicare. Un ottimo pranzo: involtini di foglia di vite ripieni di riso e carne, olive e pane arabo, caffè e per finire un bicchiere di coca cola. Così, senza conoscerci, il tutto allestito per noi dopo aver appurato che non parliamo ebraico, siamo amici della Palestina e contro la Guerra in Iraq.