Lettera dalla Palestina n° 2
"Voglio la pace": un anziano beduino, scacciato nel 1948 da Haifa, ce lo ripete più volte. Ha perso la casa, i luoghi in cui è cresciuto e non li rivendica. Dal ’48 vive nella Striscia di Gaza e chiede che almeno questa "seconda casa" gli sia concessa.
Oggi era giorno di festa; festa di folklore per la gente di Kahn Younis; canti e balli, stand con prodotti di artigianato locale, mostra sulla cultura rurale con le antiche lavorazioni palestinesi e beduine.
Esempi di quella cultura che nel 1948 si nascose deliberatamente con lo slogan dei sionisti radicali: "Un popolo senza terra per una terra senza popolo". E il popolo che allora perse la terra e la casa, non perse l’identità e la dignità. Identità e dignità che ancora oggi sono in pericolo su quel poco di terra che gli rimane: per quanto tempo ancora? Inshallah,volere di Dio, l’uomo non può sapere qua, nella terra dove non conosci il tuo domani perché non ti appartiene. E nonostante tutto rimane Amani, che in Africa è Pace e qua in Medio Oriente, con una sola H davanti, è il nome di molte ragazze, un nome che significa Speranza. Una speranza che molto spesso nasce dalle situazioni più disperate, nonostante tutto.
S. vive a 20 metri dall’insediamento. Una torretta militare è visibile da ogni parte della casa; da quella torretta a volte sparano. S. ha cambiato già tre volte la cisterna dell’acqua sul tetto, e non può usare il terrazzo. A volte i soldati di notte entrano in casa. Metà della sua famiglia è bloccata in un altro paese arabo dal settembre del 2000. Nonostante tutto questo, S. ha scritto sul muro di casa "Peace now" e a volte passa il tempo scrivendo su fogli nuovi slogan: il più aggressivo di questi dice "Una terra, una pace".
A. è figlio di profughi che nel 1948 vennero scacciati da quella che oggi è parte di Israele. Finora ha visto due guerre. Quella del 1956 con gli occhi di un bambino; quella del 1967 con gli occhi di un giovane combattente. A. è stato in prigione per un anno e mezzo nel 1967 e di nuovo per alcuni mesi nel 1980 per la sua attività in un partito della sinistra palestinese.
Da questi eventi tragici della storia palestinese si porta appresso tristi ricordi che gli velano gli occhi di pianto quando li racconta. Dalla prigione del ’67 si porta appresso un forte dolore alle ginocchia ogni volta che fa le scale per entrare in casa.
A. è uno scrittore con la passione delle lingue; tra queste conosce bene anche l’ebraico; periodicamente si sente con un suo amico israeliano che abita "dall’altra parte". Qualche volta si scambiano via posta racconti da tradurre.
Fino al settembre 2000 a volte si incontravano, ma oggi è impossibile per entrambi passare dall’una o dall’altra parte. Nonostante tutto, A. oggi crede che l’unica pace possibile consista nella convivenza tra i due popoli e crede che questo sia più semplice di quanto si creda, tra due popoli che non hanno più nulla da perdere, se non il loro reciproco futuro.