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QT n. 18, 25 ottobre 2003 Servizi

Contro la Grande Israele di Sharon

A colloquio con due sociologi israeliani pacifisti.

Alessandro Villa

Essere israeliani pacifisti e ritenere nefasta - per tutti – la politica di Sharon e un espansionismo verso la mitica Grande Israele nascosto sotto il mantello della lotta al terrorismo. Questa la non scontata posizione di due visiting professors presso la facoltà di Sociologia dell’Ateneo trentino, entrambi docenti di Sociologia e antropologia all’Haifa University in Israele: Veren Kraus e Yuval Yonay.

La prof. Veren Kraus.

Con loro, poche ore prima del loro ritorno in patria, parliamo della questione israelo-palestinese, e del loro impegno politico in un contesto drammatico.

"Noi facciamo parte di un movimento di nome Ta’aush(vedi www.tayush.org), composto da arabi e da ebrei e che conta circa 2000 persone, e in questo si differenzia da altri gruppi pacifisti composti da soli arabi o soli ebrei. Interveniamo nei villaggi arabi interclusi all’interno del reticolo di nuovi insediamenti di coloni ebraici. L’effetto degli insediamenti e delle relative strade di collegamento, è quello di confinare e quindi depauperare i circostanti villaggi arabi. Così si genera una scarsità di risorse, che aumenta la tensione".

In questo contesto cosa riuscite a fare?

"Questi villaggi arabi all’interno degli insediamenti israeliani sono molti e continuano ad aumentare. Noi cerchiamo di avviare infrastrutture di base, come asili per l’infanzia, scuole, punti di assistenza medica, ecc. Come pure proteggere, con la nostra presenza, la popolazione palestinese durante la stagione del raccolto (per esempio quello delle olive), quando spesso devono subire spedizioni punitive da parte di gruppi di coloni. Ci rendiamo conto che stiamo parlando di una realtà che più che essere raccontata andrebbe vissuta".

Come siete visti dall’opinione pubblica israeliana?

"Siamo considerati dei pazzi, degli utopisti incapaci di rapportarsi con la realtà".

E allora la vostra azione che utilità riesce ad avere?

"Innanzitutto serve per metterci un po’ a posto con la nostra coscienza, in una situazione nella quale non si può non fare niente. Poi, è vero, può essere solo un momento di testimonianza; ma anche di questo può esserci bisogno".

Allora credete che, almeno in questa fase, ci siano poche speranze di una soluzione pacifica?

"Purtroppo c’è un’incapacità di vivere assieme secondo i principi di rispetto e di tolleranza, da parte della gente e dei governi. La popolazione è molto spaventata e pensa solamente a proteggersi di fronte all’incombente pericolo di distruzione che aleggia nell’aria."

Con quale ‘soluzione finale’? A cosa puntano il Governo israeliano e l’opinione pubblica maggioritaria, all’eliminazione fisica dei palestinesi?

"Più che ad eliminarli, il governo pensa a una cacciata generale, a un’evacuazione di tutta la popolazione araba".

Se non ho capito male, c’è quindi una porzione della popolazione israeliana che crede nella Grande Israele attraverso l’acquisizione di nuovi territori; ma esiste pure un’altra porzione dell’opinione pubblica che vuole soprattutto vivere al sicuro dal terrorismo. Ora, capisco che in nome della lotta al terrorismo si possano magari intraprendere azioni militari su Gaza, ma non capisco invece come si possa sostenere l’annessione forzata di nuovi territori, che non può non alimentare all’infinito il terrorismo.

"Alcuni anni fa la politica perseguita dall’allora premier Barak prevedeva uno scambio tra territori e pace, il che comportava lo smantellamento degli insediamenti dei coloni ebraici in Cisgiordania; questo progetto, allora, risultò popolare, la maggioranza dell’opinione pubblica era per questa soluzione. Che però fallì. E con la successiva salita al potere del governo Sharon si è invece continuata la politica degli insediamenti, supportata da un’opera di manipolazione dell’opinione pubblica".

In che modo?

Il premier israeliano Ariel Sharon.

"Agitando ulteriormente il problema del terrorismo, ottima scusa per non dover restituire i territori occupati. E’ evidente che per la politica di Sharon la pace non esiste, la pace non deve esserci, perché implica una trattativa, con conseguente messa in discussione dei territori occupati. Ed ecco quindi che non appena si presenta una situazione di relativa calma, il governo promuove un’incursione per assassinare alcuni esponenti di Hamas, cui segue una risposta terroristica, e la spirale riparte. Distogliendo così l’attenzione dalla vera questione: rinunciare all’espansione per avere sicurezza".

E’ come dire che i sionisti di Sharon e i terroristi di Hamas stanno facendo lo stesso gioco, si spalleggiano l’un l’altro.

"Esattamente".

E la popolazione israeliana non ha ancora capito questo meccanismo?

Il prof. Yuval Yonay.

"E’ molto difficile che la gente possa capirlo in questa situazione di drammatica tensione e in presenza di una fortissima manipolazione governativa. Che è riuscita a far passare la priorità della ritorsione come un qualche cosa di giusto, doveroso, che tra le altre cose viene politicamente appoggiato da molti governi nel mondo".

A cosa porta tutto questo?

"Porta alla crescita del terrorismo, e di gravi forme di antisemitismo. Le persone hanno paura di vivere la propria esistenza, hanno paura di venire uccise durante una qualsiasi delle normali attività della vita di tutti i giorni. Questa è la realtà quotidiana in Israele: gli ebrei vivono ora separati dagli arabi da una barriera di odio".

Questo però comporta per Israele anche problemi economici: i costi di una guerra infinita, un’economia messa in crisi dalla mancanza di sicurezza...

"Sì, la situazione economica del nostro Paese è di grave difficoltà, e finora si è andati avanti solo grazie ai finanziamenti della comunità ebraica nel mondo".

Basteranno?

"No. E infatti le condizioni di vita peggiorano. Vent’anni fa potevamo vantare una buona forma di Stato sociale ma ora la situazione è radicalmente cambiata: sono stati tagliati i finanziamenti per settori basilari come la scuola e la sanità. E il futuro è sempre più grigio".

Se ho capito bene, voi vorreste un solo Stato per la Palestina, dove convivano ebrei e arabi. Ma ora vi sembrerebbe un enorme passo in avanti la costituzione di due Stati diversi e pacifici, separati da una linea di frontiera sicura. Ma oggi, forse, anche questa seconda ipotesi è utopistica...

"La prima è la soluzione in cui crediamo, ma è solo una prospettiva per il lungo termine. In teoria la seconda soluzione sarebbe praticabile, ma in realtà oggi non lo è affatto. E’ per essa comunque che, tra mille difficoltà, cerchiamo di operare".