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QT n. 11, 29 maggio 2004 Servizi

Il K2 e una celebrazione stonata

L'alpinismo come conquista, successo, pettegolezzo. La cultura mummificata della montagna come emerge dalle scomposte celebrazioni del CAI della conquista del K2 con corollario di massiccia spedizione.

Si rimane sconcertati dall’organizzazione delle celebrazioni della prima salita al K2 avvenuta cinquant’anni fa: si rinnovano culture nazionalistiche, si ritrova e si rinnova un ambiente alpinistico litigioso, incapace di cogliere l’essenza più intima e vera della montagna, di celebrare la semplicità e l’eleganza degli spazi sacri.

Da quanto abbiamo letto durante il recente Filmfestival della montagna di Trento, fino alle iniziative promosse dal Club Alpino Italiano, la cultura della montagna è proprio ferma a mezzo secolo fa, come imbalsamata, come un reperto mummificato dai ghiacci: in montagna si va per conquistare, per cogliere la vetta e specialmente per poter gridare al successo.

Finora siamo stati tutti costretti ad assistere al riesame di quella vecchia impresa. Oramai conosciamo passo per passo quanto accaduto, conosciamo silenzi, omissioni e furbizie di grandi uomini. Ma è stata una conquista di Lacedelli e Compagnoni, oppure a questi si deve aggiungere il grande solitario, Walter Bonatti?

Grandi alpinisti e opinionisti del Club Alpino si sono scatenati nella rivisitazione di una scalata che aveva un unico scopo: portare la bandiera italiana sulla vetta di un 8.000 e trasformare quella vetta in "cima italiana". Non potendo più conquistare colonie in Africa e spazi geografici, un nazionalismo non ancora sopito si lanciava verso le verticalità per poter rispondere ad inglesi e tedeschi. Peccato che al Filmfestival a Compagnoni sia stato impedito di intervenire; peccato che Walter Bonatti sia stato relegato alla trasmissione di Fazio su Rai 3. Mentre i protagonisti preferivano un profilo defilato, Reinhold Messner, i dirigenti del C.A.I. e giornalisti specializzati ci ingolfavano di chiacchiere superflue. Non si poteva costruire meglio un risultato tanto evidente: l’alpinismo è morto, definitivamente. Oggi non c’è più scoperta, non esiste l’esplorazione, il sentimento, perché la persona viene emarginata e si è perso il sapore del silenzio e dell’umiltà. A chi oggi si è dimostrato incapace di raccogliere i comunque presenti alti contenuti culturali e valoriali della montagna, non poteva che rimanere l’angolo del pettegolezzo, con alpinisti destinati ad imitare i cacciatori: "L’ho colpito qui", "Un palco di corna eccezionale, ed è rotolato per cento metri", "Io c’ero", "Faceva tanto freddo che la piccozza nemmeno scalfiva il ghiaccio e salivo"…: una valanga di retorica.

Nel momento in cui dovremmo sentirci tutti chiamati a riflettere sull’ultima tragedia accaduta da pochi giorni sull’Everest (4 alpinisti morti, altri dispersi), il C.A.I. si lancia in una scomposta polemica contro il Presidente del Filmfestival, Augusto Golin, chiedendone le dimissioni: si era permesso di criticare il Club Alpino Italiano.

L’uscita di scena della sonnolenta presidenza di Gabrielle Bianchi si tinge di un’altra polemica forte, gridata: un attacco graffiante alle associazioni ambientalistiche, anche loro colpevoli del reato di critica.

La dirigenza del C.A.I., forse per farsi perdonare la fallimentare gestione dell’Anno internazionale della montagna 2002, ha organizzato un grande tour-trekking di alpinisti nel ghiacciaio del Baltoro, ai piedi del K2. Dapprima erano previsti oltre mille escursionisti italiani che sarebbero andati ad invadere la lunga lingua ghiacciata; poi la complessità dell’operazione, le polemiche, l’evidente incoerenza con lo statuto dell’associazione che prevede per il sodalizio l’obiettivo prioritario dell’agire in difesa dell’ambiente montano, ha portato i dirigenti a ridurre le presenze a poco più di 500.

Le associazioni ambientaliste W.W.F. e Mountain Wilderness si erano infatti permesse di evidenziare in un documento i possibili rischi che un ambiente tanto delicato, sottoposto ad una ulteriore pressione, doveva sopportare in solo pochi mesi.

Ai 500 trekkisti italiani si dovranno comunque aggiungere almeno altre 4-600 presenze di alpinisti che saliranno per scalare il K2, o il Broad Peak, il Gasherbrum 1 e il Gasherbrum2. Le associazioni chiedevano che il C.A.I. intervenisse presso il governo pakistano per limitare tali accessi, per imporre un uso misurato dei mezzi di penetrazione dell’area vietando elicotteri e grandi spedizioni.

Si deve infatti pensare che ad ogni trekkista si deve aggiungere la presenza di almeno quattro portatori, andata e ritorno, istruttori e accompagnatori per ogni minimo gruppo, responsabili dei posti tappa, quindi tonnellate di materiale portato in un ambiente tanto delicato, deiezioni delle persone, consumo di legna presa sul posto in un ambiente che non permette ricolonizzazione vegetale. L’alpinista richiede la presenza anche di sei o più portatori.

1954: Compagnoni e Lacedelli sul K2.

La quantificazione del danno ambientale risulta facilmente prevedibile e lascia sconcertati che una associazione tanto importante, forte di pagine di storia gloriosa, impegnata nel recupero di una cultura conservazionistica e nello sviluppo della ricerca scientifica in campo naturalistico, non abbia nemmeno provato soluzioni alternative come proposto da W.W.F. e Mountain Wilderness: organizzare trekking in altre zone di grande fascino nell’Hindu Kush o nell’Hindu Raj. Certo, lo ammettiamo, il C.A.I. ha anche organizzato una spedizione di spazzini che al termine dei trekking ripercorrerà percorsi e campi per ripulire quanto possibile, ma non è certo con un passaggio di ramazza che si recuperano danni tanto importanti alla vegetazione, che si rimedia all’inquinamento da deiezioni e quello apportato alle popolazioni indigene: non è neppure possibile quantificare il danno culturale che che questa visione della montagna continua a provocare.

Questa operazione, oltre tutto, alimenta la pericolosa illusione che oggi i confini del rischio verso gli ottomila possano essere superati da qualunque persona: si garantisce con troppa enfasi sicurezza, grazie alla strumentazione tecnologica, si presume che con un minimo di allenamento e con il sapiente uso di una corda o dei ramponi si possano affrontare situazioni tanto faticose e particolari. Non si educa la mente, il vero propulsore che ha permesso ai Compagnoni, ai Bonatti, ai Messner o ai De Stefani di compiere imprese che hanno ancora oggi dell’incredibile. Il C.A.I., o forse la presidenza uscente, doveva lasciare un segno, ed ha così deciso di imprimere un’impronta indelebile nel ghiacciaio del Baltoro.

Ma la sofferenza più grande che tanti di noi abbiamo provato è stata quella di vedere le reazioni scomposte della dirigenza nei confronti di chi si è permesso critiche. Contro il presidente del Filmfestival, contro guide alpine bellunesi che chiedevano trasparenza negli appalti delle spedizioni, contro le associazioni ambientaliste. Reazioni che non permettono certo di trovare nel sodalizio un interlocutore affidabile sulla cultura della conservazione e della difesa degli spazi liberi; reazioni che ci riportano a situazioni di intolleranza che ormai tutti ritenevamo superate definitivamente.