Due donne nelle contraddizioni di Israele
Joy e Alex: due ebree immigrate in Israele, due culture e due destini diversi.
Joy è nata ebrea in America. Finite le scuole superiori, ha fatto domanda per un’università che le interessava. Non è stata accettata. Avendo del tempo a disposizione e un po’ di soldi da parte, ha deciso di fare un viaggio in Israele per visitare la terra legata alla sua religione.
Non ha parenti in Israele, non è venuta per capire, non sapeva cosa stava accadendo in questo paese. Ha trovato un’offerta interessante per studiare in un’università ebraica situata in una colonia nella West Bank. Solo dopo parecchio tempo ha cominciato a rendersi conto del tipo di gente che viveva con lei e a capire che non condivideva molte delle loro idee riguardanti gli arabi. Nonostante ciò, ha deciso di restare. Religiosa, una volta arrivata qui si è innamorata di questa terra, stabilendo con essa un legame che io, per quanto mi sia sforzata, non riesco a capire. Neppure lei è stata in grado di spiegare i suoi sentimenti. Si tratta infatti di un amore profondo che può a suo parere essere comparato solo all’abbraccio tra madre e figlia, separate da sempre e poi ritrovatesi.
"Feeling the land". Quando lo diceva pareva in estasi e in pace con se stessa e con il mondo, a modo suo.
Qualche tempo dopo ha conosciuto Devorah, una ragazza ebrea emigrata in Israele dagli States e da anni impegnata in varie ONG israelo-palestinesi, nonché leader del nostro campo di lavoro. Sono diventate amiche e attraverso lei Joy ha comiciato a "vedere" quanto la circondava e aveva fino ad allora rifiutato di prendere in considerazione. Nonostante ciò ha comunque deciso di mantenersi apolitica. Una colona apolitica, una colona per caso.
Come può Joy pretendere di restare fuori dal conflitto essendone parte integrante? Ci ha detto che nessuno può occuparsi di tutte le sofferenze che ci sono nel mondo, e lei ha deciso di non occuparsi di quella palestinese. Così come noi europei continuiamo a vivere nonostante quello che succede in Sudan o ai poveri nei nostri stessi paesi, allo stesso modo lei continua a farlo qui. Si occupa di altre cose, lavora con bambini israeliani autistici a Hebron. E si dichiara apolitica. Ci crede anche. Stare qui è la cosa che ritiene migliore per se stessa, per la sua crescita come persona, come ebrea. Non potrebbe maturare allo stesso modo e con la stessa intensità in altre aree del mondo. Per alcuni l’ideologia è più importante di tutto, per lei no, così risponde a chi le chiede spiegazioni.
Sembra che allo stesso modo la pensino molti altri abitanti di Israele. Soprattutto alcuni nuovi immigrati, appartenenti a vari circoli sionisti all’estero. C’è chi arriva ancora convinto che questa sia "la terra senza un popolo per un popolo senza terra". Vengono e non vogliono vedere. Non vedono. Molti vivono in una bolla di sapone, tentando di evitare di pensare che esistono i palestinesi.
Ciò accade in particolare se si trovano ad abitare in una colonia come Màhale Adumim. Sono stata a visitare questo settlement qualche giorno fa. E’ il più grande insediamento della West Bank. Ha oggi 30.000 abitanti, ma ci sono già case pronte pre 45.000; si pensa che saranno riempite entro la fine dell’anno prossimo. E nel 2010 si prevede di arrivare a 75.000 abitanti. Questi si chiamano facts on the ground.
Màhale Adumim taglia la Palestina in due e non permette alcuna contiguità territoriale per un eventuale Stato palestinese. Eppure la maggior parte dei suoi abitanti pare non si renda conto di costituire un serio problema per la pace in questa terra. Tanti sono coloni per ragioni economiche, cioè vengono qui per godere delle facilitazioni concesse dal governo (bassi affitti, prestiti, …).
Secondo quanto emerso da una recente ricerca, la maggior parte accetterebbe di essere trasferita in altre parti del paese se fossero mantenute le stesse condizioni economiche. Ma naturalmente il governo sta bene attendo a non far sì che ciò sia possibile. Ha bisogno di loro lì. Stanno a Màhale Adumim, nel deserto, e hanno prati verdi, aiuole nelle strade, piscine. Ho qui le foto che ho scattato io stessa. È vero che hanno fatto fiorire il deserto, ma a quale prezzo ? I coloni conusumano 6 volte più acqua dei palestinesi e 2 di più degli israeliani che vivono fuori dalla West Bank.
Una volta questi spazi appartenevano ai beduini, ora la colonia continua ad espandersi e loro sono stati rimossi. I pozzi ovviamente sono stati inclusi all’interno dell’insediamento e l’acqua è riservata ai coloni.
Feeling the land: sentire la terra evitando di sentire quando accade su questo pezzo di terra.
Alex è una donna molto interessante, è stato bello conoscerla e avere la possibilità di discutere con lei durante i giorni del campo di lavoro. Tra un mattone e un sacco di cemento mi ha raccontato la sua storia. Un’altra figura femminile, un’altra emigrata in Israele, una storia del tutto diversa da quella di Joy.
Nata in Australia da una famiglia quasi interamente sterminata dall’Olocausto, ha studiato Community development mantenedosi sempre molto attiva socialmente. Femminista ed ebrea, da ragazza apparteneva ad un movimento di giovani sionisti "di sinistra". Questa asssociazione prevedeva per i suoi iscritti l’opzione di vivere per un periodo di tempo più o meno lungo in un kibbuz in Israele. Così nel 1985 Alex, come molti altri, ha deciso di venire qui. A differenza dei più, aveva però già le idee chiare su quanto stava accadendo in questa terra e uno dei suoi obiettivi era quello di lavorare con palestinesi ed israeliani congiuntamente. Una sionista sui generis, insomma.
A causa delle sue idee poco ortodosse, una volta trasferitasi nel kibbuz non è stata accettata dal programma istituito per giovani leader dal governo israeliano. Ma poco le importava, la sua idea era quella di lavorare per costruire un nuovo modello di organizzazione sociale, e questo sperava di fare nel kibbuz scelto. E’ stata lì un anno e mezzo, tuttavia il suo contributo sociale le pareva troppo limitato, e sempre più forte era la sua voglia di lavorare per persone esterne alla comunità di cui faceva parte: spendere la propria vita in una comunità di 3.500 persone non le pareva sufficiente, soprattutto date le persistenti radici patriarcali di tale gruppo. Così si è trasferita a Gerusalemme ed ha cominciato a lavorare con gruppi di donne.
Nel gennaio del 1998, poco dopo lo scoppio della prima Intifada, ha dato vita al movimento delle donne in nero (http://www. womeninblack.org). Inizialmente il gruppo era composto da sette donne che una volta la settimana si riunivano nello stesso punto della città vestite di nero e con cartelli sagomati a forma di mano con la scritta "Stop the occupation". L’idea di queste veglie silenziose di protesta, non violente ma radicali, si è diffusa rapidamente, prima in Israele e poi in altri paesi, compresa l’Italia (http://www.donneinnero.org). Oggi le donnne in nero sono una rete di gruppi di donne presenti in tutto il mondo e dunque dotati di diversi backgroung, diversi credo e diversa provenienza, ma tutti composti da attiviste che si oppongono all’ingiustizia, alla guerra, al militarismo e ad altre forme di violenza. Uno dei tanti gruppi di donne che lavora per la pace.
Ma torniamo alla storia di Alex. Nonostante il suo attivismo non è riuscita a stare qui più di 5 anni. La situazione difficile nata dall’idea di essere una delle tante emigrate in Israele, i continui insulti da parte di ebrei che la consideravano una collaboratrice, gli abusi contro i palestinesi cui si trovava sempre più spesso di fronte (soprattutto dopo lo scoppio della prima intifada) l’hanno portata a decidere di lasciare Israele e rientrare in Australia.
Oggi torna qui spesso come attivista, usando il suo passaporto australiano.