Portati a morire in malga
I torelli da ingrasso, importati dall’Est direttamente nelle nostre malghe: a soffrire, inquinare, morire.
Avete presente "Alla stanga" di Segantini? Una malga in alta montagna, una giornata radiosa, le mucche al pascolo, un felice connubio tra uomo, animale, natura. Questo immaginario viene non a caso sfruttato anche dalla pubblicità dei Parchi naturali: gli animali al pascolo forniscono sempre un’immagine di serena felicità.
Al contrario, in tante malghe trentine l’estate del 2002 è stata ben diversa: centinaia di bestie stressate, incapaci di muoversi, ammassate in un’area ristretta, in mezzo al letame, nutrite con palate di mangime artificiale. E destinate a morire: in Trentino c’è stata un’autentica decimazione dei bovini (255 decessi su 2277 capi dicono le cifre ufficiali), e in alcune malghe la moria è stata del 20% degli animali, con le carogne a imputridire, alcune andate perfino nei corsi d’acqua.
Come mai? Come è successo che una pratica secolare come quella dell’alpeggio sia, nel giro di uno-due anni, degenerata a tal punto?
Della cosa la stampa si è già occupata, anche se forse distrattamente, in occasione di due interrogazioni in Consiglio provinciale, dei consiglieri Cominotti (Forza Italia) e Taverna (An). Noi qui la riprendiamo approfondendola, alla luce dei recenti avvenimenti giudiziari che hanno coinvolto degli allevatori trentini, i Berasi. Perché gli stravolgimenti dell’attività dell’alpeggio verificatisi lo scorso anno, sono legati alla commistione dell’attività di allevamento con quella di commercio di bestiame. "Quelli non sono allevatori, sono commercianti" ha infatti commentato, riferendosi ai Berasi, il presidente della Federazione Allevatori Silvano Rauzi.
Le chiacchiere di valle raccontano che la cosa iniziò nell’estate 2001, dall’incontro tra due donne, Franca Penasa e Iva Berasi. La Penasa, presidente della parte trentina del Parco dello Stelvio nonché sindaco di Rabbi, era preoccupata di lasciare sguarnite le malghe del Saent, alle quali gli allevatori locali, per ripicche varie, non intendevano portare il bestiame. Di qui un suo colloquio con l’assessore e amica Berasi, per far venire in malga il bestiame dei fratelli, i noti allevatori e commercianti. I Berasi portarono in Saent dei torelli da ingrasso e combinarono un affarone: l’estate successiva fecero le cose in grande, e l’importazione dall’Est e trasporto in malga dei torelli divenne un business su scala industriale (ricordiamo che i Berasi, direttamente o attraverso società a loro riconducibili, trattano circa il 5% del bestiame importato in tutta Italia).
Il racconto forse non sarà vero al cento per cento (per esempio, non sono solo le società dei Berasi ad alpeggiare bestiame importato); però illumina la vicenda: come preoccupazioni positive, sull’ambiente, sul turismo, sull’utilizzo delle risorse della montagna, abbiano innestato un meccanismo perverso.
Vediamo infatti quello che è successo in alcune malghe, come descrittoci da testimoni, turisti e forestali.
Malga Val Ambiez: i torelli, trasportati dall’Est, sotto stress per il viaggio, catapultati dal box d’ingrasso all’ambiente d’alta quota, non si allontanano dalla malga, non pascolano, vivono ammassati nelle loro feci. Di 368 ne muoiono 66.
Malga Lares (in una laterale della Val di Genova, nel Parco Adamello Brenta): situata a 1900 metri, da quasi mezzo secolo non era più utilizzata, oggi ne rimane solo il rudere. I torelli vi vengono trasportati in elicottero (chi ha rilasciato l’autorizzazione?) e devono vivere all’aperto: la cosa va bene per una vacca Rendena, non per un torello da ingrasso. Anche qui, l’asperità dell’ambiente induce gli animali a non muoversi: vivono su uno strato di escrementi. Su circa 60 animali, più di dieci ne muoiono nei primi giorni.
Malga Nardis (altra laterale della Val di Genova): a 1500 metri, da sempre monticata dalle Rendene. I torelli polacchi vengono anche qui portati con l’elicottero, non si spostano, non sono in grado di alimentarsi dai prati. Ancora con l’elicottero gli si porta il mangime in sacchi (vedi foto).
E così in altre malghe: i torelli dell’est vengono portati a soffrire, inquinare, morire.
La malga radiosa diventa un buco nero: povere bestie sofferenti, lezzo insopportabile. Poi, ogni tanto, arriva l’elicottero, per portare a valle le carogne.
Che senso ha tutto questo? L’alpeggio oggi viene visto come un momento importante della salvaguardia del territorio. "L’abbandono dei pascoli alti porta a un degrado: crescita di cespugli, peggioramento paesaggistico, di ritenuta idrica, di stabilità dei versanti – ci dice il dott. Walter Fronchetti, direttore dell’Ufficio tecnico per l’Agricoltura di Montagna della Pat – E’ un lento ritorno alla naturalizzazione: una fase di assestamento, di alcuni decenni, nei quali si dovrebbe scontare una grande instabilità." Anche nei pascoli sotto i 2000 metri, dove l’erba viene sostituita dal bosco, si hanno fenomeni negativi, come la perdita della grande biodiversità propria del prato. "E’ per limitare questa dinamica che si cerca di incentivare l’alpeggio, con contributi comunitari e provinciali."
Anche i prodotti dell’alpeggio avrebbero caratteristiche pregiate: "Le vacche mangiano una varietà di erbe molto più ampia, il latte ha più vitamine: ma non viene valorizzato, va nel calderone delle centrali – ci dice un allevatore, che preferisce mantenere l’anonimato – Più facile è commercializzare i formaggi tipici, realizzati con il latte di montagna, che hanno un sapore più accentuato. Si fa nel vicentino per l’Asiago; in Trentino la filiera malga-formaggio è unicamente una trovata pubblicitaria: viene realizzata solo in singoli casi isolati come Malga Brigolina in Bondone o Malga Zeledria in Rendena."
Eppure negli ultimi dieci anni le malghe sono tornate ad essere appetite, se non altro quelle che offrono facilità di accesso e condizioni decorose di soggiorno (di qui i contributi provinciali per le ristrutturazioni). La politica provinciale (ed europea) è quella di incentivare l’allevamento estensivo (non quello intensivo, con le bestie in tre metri quadri di stalla) per legarlo al territorio, in funzione appunto di salvaguardia. In sostanza, tutta una serie di importanti contributi, viene rilasciata solo se un’impresa ha a disposizione, per ogni capo, una certa porzione di pascolo. E nel computo rientrano anche i prati in quota, se l’azienda vi porta le bestie per 80-90 giorni. Ora, siccome questi contributi sono sostanziosi, e fanno la differenza tra chiudere l’anno in passivo o guadagnarci, c’è la corsa alle malghe.
Ma non tutti gli animali sono adatti.
"Per andare e poi pascolare in malga, e le nostre sono le più infami del mondo, l’animale deve essere addestrato. Se è abituato a vivere in stalla, bisogna prima abituarlo per un’ora, poi per due ecc – ci dice l’allevatore – Poi c’è vacca e vacca: la Rendena si adatta molto bene; la Frisona (la pezzata bianca-nera da latte ndr) è un animale grosso e poco adatto. I torelli erano animali di varie razze, troppo piccoli (anche di 3-4 mesi, mentre i nostri non li mandiamo in malga prima dei 6-7 mesi) e soprattutto avevano sempre vissuto in box, non all’aperto. Con lo stress da viaggio, in un ambiente per loro nuovo e ostile, non si muovevano. Noi le prime volte le nostre vacche le conduciamo ai pascoli, poi, se sono Rendene, si arrangiano. Lì questi vitelli erano in mano a persone che venivano anch’esse dall’est, probabilmente senza esperienza: gli animali erano fermi, impiantati nel letame, anche quelli vivi erano in condizioni pietose."
Ecco quindi la malga trasformata nel suo contrario. L’animale non vive una vacanza nella natura, ma soffre in un lager. Il territorio non viene mantenuto dal pascolo, ma inquinato dall’accumulo del letame. L’alimentazione non è l’erba di montagna, è quella dei sacchi di mangime. La carne dell’animale sotto stress sarà poca e di dubbia qualità.
"Non solo – prosegue l’allevatore – Anche se è vero che questi erano tutti animali vaccinati, bisogna però considerare le malattie presenti in regioni lontane, e che noi non conosciamo. Parlo di prevenzione: lo stress favorisce il manifestarsi e il propagarsi delle malattie. E non solo alle altre specie bovine, ma anche alla fauna selvatica, che condivide il nostro territorio, e che noi dobbiamo considerare. Le condizioni per la trasmissione di malattie, le feci e le carogne, c’erano tutte."
Insomma, una dinamica tutta negativa. Rispetto alla quale si
dovrebbe prontamente prendere provvedimenti. L’assessore competente, Dario Pallaoro, peraltro noto per il suo immobilismo in tante altre circostanze, neanche in questa sembra molto preoccupato. Così risponde alle interrogazioni delle opposizioni di cui abbiamo sopra riferito: "l’imposizione di norme condizionanti la libertà di gestione dei pascoli va attentamente valutata... un intervento autoritario della Pat appare inopportuno...ecc ecc" Apre solo un vago spiraglio dove dice che si dovrà stipulare un "disciplinare tecnico-economico" sull’utilizzo dei pascoli montanti.
Più confortante il parere del dott. Fronchetti. "Sì, evidentemente ci sono dei buchi nella legislazione. Come nell’importazione del bestiame, dove si è visto come attraverso passaggi da un’azienda all’altra si guadagna sull’Iva. Così anche sulla legislazione sull’alpeggio. Bisognerà provvedere."
Speriamo.