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“Il Trentino degli allevatori”

Pier Giorgio Rauzi, Alberto Brodesco, Viviana Sbaraini, Il Trentino degli allevatori. Trento, Effe e Erre, 2004, pp. 295, euro 17.

All’imbrunire, d’estate e d’inverno, ancora cinquant’anni fa, i bambini uscivano a frotte dalle case dei contadini a portare il latte nelle case dei "ricchi". Dal "piaz", dal "cornel", dalla "villa", i rioni di Mezzolombardo dove erano concentrate le stalle, i bambini si avviavano al lavoro serale. Tenevamo stretti in mano i recipienti d’alluminio, colmi, preziosi, fino a destinazione, dove la signora prendeva in consegna il latte bianco, caldo, munto da poco. Il sabato era il giorno del pagamento: la mamma ci raccomandava di stare attenti con il denaro, e di ricordare alla signora, se per caso si fosse dimenticata, che quello era il giorno. Nel riceverlo accarezzavamo il denaro con cura, orgogliosi, perché era frutto anche del nostro lavoro, delle ore passate a pascolare la mucca nei prati comuni.

Succedeva talvolta che, proprio di sabato, a ricevere il latte comparisse il figlioletto, che nulla sapeva dei soldi da noi tanto attesi, e così tornavamo a casa tristi, certi di un rimprovero che ci sarebbe toccato in aggiunta. Furibondi, in cuor nostro, contro chi, ricco com’era, poteva ben preparare il denaro che ci spettava.

Quando la mucca, per quanto munta con tenerezza, di latte ne dava di meno, noi bambini dovevamo informare quelle famiglie di posta che avrebbero dovuto procurarsi il latte altrove per qualche mese, e così ci toccava il risentimento di quei clienti ignoranti. Talvolta dovevamo persino avvertirle che il prezzo del latte era cresciuto di dieci lire, e anche allora i clienti, adirati, se la prendevano con noi bambini.

Una volta una signora ruppe il contratto: non avrebbe più accettato il latte dalla mia famiglia, perché di me, bambino di dieci anni, non si fidava. Di tanto in tanto, infatti, i piccoli addetti al trasporto si incontravano sulla piazzetta e, con il braccio teso, a gara, facevamo ruotare veloce il recipiente colmo di latte. Io non ricordo di averne mai sparso una goccia per terra, ma la signora mi accusò di aver compensato con l’acqua un po’ del latte mancante. A casa furono pianti e minacce.

Con il tempo divenne obbligatorio, per legge, portare tutto il latte al caseificio, in cambio di burro e formaggio. Si continuò a distribuire per le case, una volta all’anno, soltanto il colostro, il siero giallo e denso secreto dalla mucca quando nasceva un vitello, non buono da bere, ma buonissimo per fare la torta. Con il colostro però passavamo di casa in casa sereni, lo regalavamo a tutti fin che durava, in cambio di altro colostro da parte di chi allevava altre mucche.

Così, con una mucca per stalla, al piano terra di casa, e la concimaia vicina, i bambini dei contadini imparavano a crescere. A lavorare, a contrattare, a dare e a ricevere in dono, a scoprire i segreti del nascere e del morire. A giocare, rischiando. A pregare, i giorni delle rogazioni. Io, con le lacrime agli occhi, in cerca di consolazione, correvo nella stalla a dar la pastura alla mucca, quando avevo un grande dolore. La mucca dava, così, e riceveva, anche affetto.

La ricerca sociologica sulla zootecnia parte da un dato: negli ultimi cinquant’anni il latte prodotto per bovina in Trentino è quasi quadruplicato, dai 18,2 quintali del 1952 ai 68,9 del 2002. Mio padre e mia madre, se ritornassero in vita, non riconoscerebbero le mucche, le stalle, gli allevatori di oggi. Allora la mucca trainava il carro in campagna, ci dava ogni giorno il latte e il letame, e, se andava bene, la carne del vitello, ogni anno, se S.Antonio la proteggeva. Danilo Zanoni, tecnico dell’allevamento, di Toss, oggi parla così: "Ormai le razze sono tutte a una sola attitudine. In cinquant’anni siamo passati dalle razze a triplice attitudine - latte, carne, lavoro - a razze a una sola attitudine".

A permettere la specializzazione è stata la tecnica. Il sottotitolo del volume, curato da un gruppo di sociologi dell’Università di Trento, coordinati da Pier Giorgio Rauzi, recita: "Dalle stazioni di monta all’embryo-transfer". Le decisioni degli allevatori, infatti, basate sulla competenza che viene dalla storia familiare, hanno oggi sempre meno peso. A decidere sono le certezze quantificabili, matematiche, fornite dalla scienza e dalla tecnica. Nel campo della selezione non ci si è fermati alla fecondazione artificiale. L’ingegneria genetica, la fecondazione in vitro, la manipolazione degli embrioni, il trasferimento di geni, sono i nuovi strumenti forniti dalle biotecnologie zootecniche. Così è cresciuta la produzione di latte e di carne, e si è scavalcato addirittura, con la superovulazione, il limite naturale di un vitello ogni dodici mesi.

La stalla oggi è totalmente meccanizzata, "dalla culla alla tomba", si sarebbe tentati di dire: il computer decide mangimi e medicine, fecondazione e mungitura, macellazione e vendita. "La professione di agricoltore è diventata una delle più moderne nel senso weberiano del termine, quello di un regno del calcolo sull’attività umana", cioè "è uno dei settori dove è più evidente l’ingabbiamento della competenza umana dentro parametri tecnici cui si può solo ubbidire".

Con la modernizzazione sono cambiati la stalla, l’allevatore, la società in cui egli opera e vive. La zootecnia si rivela un "fatto sociale totale": la sua evoluzione, raccontata attraverso le "storie di vita" degli allevatori anziani, diventa una vera e propria storia del Trentino dal 1950 al 2000.

Elenchiamo in sequenza le caratteristiche della situazione pre-moderna: economia di sussistenza centrata sul valore d’uso del prodotto, scarsa mobilità sociale, spinta all’emigrazione, basso tasso di scolarità, luogo dell’informazione coincidente con il luogo sociale (la piazza, la fontana, l’osteria, la chiesa), famiglia numerosa e diretta dal maschio capofamiglia, lavoro come sede del processo d’identificazione, religione come custode di norme e valori.

In cinquant’anni di modernizzazione, brevissimi, si passa a un’economia di mercato fondata sul valore di scambio, sulla monocultura (il latte, la carne, la mela, l’uva, la susina…), sul lavoro agricolo meccanizzato. Dalla ristrettezza si passa all’opulenza, all’invenzione del tempo libero. L’emigrazione s’inverte in immigrazione. La mobilità verticale riduce gli agricoltori e accresce il ceto medio, quella orizzontale fa dell’automobile quasi una protesi necessaria del corpo. Cresce il livello di scolarità. La famiglia diventa nucleare, diminuisce la sua stabilità, ma cresce l’autonomia della donna. L’informazione diventa monopolio dei mezzi di comunicazione di massa. La secolarizzazione trasferisce il riferimento religioso in ambito quasi esclusivamente privato.

I ritmi del mutamento sono così rapidi da provocare fra gli allevatori, in montagna, in Trentino, una crisi d’identità che induce (dovrebbe indurre) tutti alla riflessione. La politica innanzi tutto, per altro quasi assente in questa ricerca. Ogni svolta culturale comporta guadagni e perdite, e questa non fa, ovviamente, eccezione.

Il numero delle aziende agricole cala dalle 57.000 del 1961 alle 34.695 del 2000, ma è il numero delle aziende senza bestiame a ridursi a un quinto, da 30.500 a 6.000. Il numero degli occupati in agricoltura passa da 63.464 a 8.276, dal 40% al 4% della popolazione attiva. La trasformazione tecnica e sociale della zootecnia compie il "miracolo": riesce a conciliare l’aumento della produzione di latte per capo (che permette a un numero di bovini, in costante diminuzione, di mantenere invariata la quantità di latte prodotto, attorno al milione di quintali) con l’espulsione della maggior parte dei suoi addetti, l’abbandono del territorio (e delle malghe) in montagna, la difficile sopravvivenza del mestiere di allevatore, e del paese che l’ha educato e visto crescere.

Disegno di Flavia Decarli.

Questo è il "progresso". Giovanni Giordani, di Stumiaga, racconta: "Adesso? Si semina con la macchina, si diserba con la macchina, si ara con la macchina. Le macchine fanno tutto."

Silvio Zendri, di Molina di Ledro: "Mio figlio in stalla ha il computer e tutte le bestie sono controllate. Il mangime è computerizzato, si sa che al numero 18 ci vogliono 10 chili di mangime. Nella sala parto ha messo una telecamerina, come quelle delle Casse Rurali, e stando qui in casa vede il movimento nella stalla".

E questa è la "crisi". Gino Stablum, di Rumo, riassume così lo stato di cose presenti: "Adesso la campagna è più comoda, han continuato a fare strade, belle, asfaltate. Un cambiamento in bene, con l’attrezzatura, ma la gioventù scappa lo stesso. Qui a Rumo sono nati tre bambini l’anno scorso. Trenta i morti e tre i nati".

In questi vecchi allevatori che guardano al (loro) passato c’è sorpresa per il cambiamento avvenuto. E rammarico: il rapporto con il territorio, con gli animali, con le persone in famigliae in paese, allora era più naturale, più umano, più solidale.

Ma non c’è nostalgia: la fatica, l’oppressione, la chiusura di allora non appaiono oggi accettabili. Allora, "se moriva la vacca era fame", ricorda nella prefazione Silvano Rauzi, il presidente della Federazione Allevatori del Trentino. E a una madre della Val di Rabbi, rispetto a quella della mucca, appariva più sopportabile la morte del proprio bambino colpito dal morbillo: "Ma dotòr, ‘sto chi, se ‘l more, el va en Paradis. L’è quela zo bas che la va all’inferno…".

A promuovere il "miracolo" produttivo e sociale è stata la tecnica, ed è stata la tecnica a provocare la "crisi d’identità", individuale e collettiva, a cui si cerca, nell’incertezza, anche in questo volume, qualche risposta. Il rapporto con la tecnica è un nodo di difficile soluzione per questi allevatori, per i sociologi ideatori della ricerca, per noi tutti. Il pensiero del Novecento oscilla fra apologetici cantori delle "magnifiche sorti e progressive" e denigranti catastrofisti delle "terribili sorti e regressive". In realtà - è la tesi di Michela Nacci (Pensare la tecnica, Laterza, 1998) - non esiste la Tecnica, che porta alla salvezza o alla perdizione, esistono tecnologie diverse, contraddittorie, che offrono all’uomo mille opportunità e mille rischi, in una dialettica incessante. Agli acritici "principio di speranza" e "principio di disperazione" va sostituito un più faticoso "principio di responsabilità", un "limite" individuato caso per caso, fondato sulle conoscenze e sulle capacità critiche di tutti, individui e comunità.

La crisi dell’allevatore di oggi si manifesta soprattutto nel difficile ricambio generazionale: la stalla va governata anche a Natale e a Ferragosto, sposare un allevatore significa sposare una stalla, l’odore del letame innesca attriti con i compaesani e con i turisti. Ma la fuga dei giovani dovuta all’assenza di tempo libero, alla difficoltà di sposarsi, al mancato riconoscimento sociale, sono la spia di un problema culturale più vasto.

La società industriale, con la sua divisione del lavoro, ci pone una grande domanda: se l’individuo deve adeguarsi alle necessità sociali, sviluppandosi in un’unica direzione, o se può svilupparsi in tutte le direzioni, senza escluderne alcuna. Se dobbiamo adeguarci al mondo com’è, o se possiamo (dobbiamo) pensare un mondo diverso.

L’allevatore di montagna ha certo bisogno di essere addestrato a una stalla che continua a cambiare, con "cultura d’impresa, informatica, inglese". Ma deve essere anche formato a dialogare con la (sua) storia passata, per trasmetterne memoria a chi, diverso, viene in visita dalla città, o, in cerca di lavoro, da altri paesi. E contribuire così, con loro, dinamicamente, a costruire nuove identità e nuova cultura. L’identità e la cultura non sono "cose", sono "processi". Perché l’allevatore, oltre l’embryo-transfer, non deve poter conoscere le "Georgiche" di Virgilio, e il "Canto notturno di un pastore errante per l’Asia" di Giacomo Leopardi? Mostrare a chi viene, o si avvicina, una malga in funzione, un prato di montagna tagliato, una cooperativa che sostiene e che libera, non è più importante che offrire l’ennesimo impianto di sci, una strada asfaltata nel bosco, o la discoteca per passare il tempo come in città?

Certo, perché si affermi un turismo culturale, umano, leggero, rispettoso dell’ambiente e delle sue tradizioni (della qualità del prodotto, ma anche del letame che odora, e del liquame che talvolta tracima), che valorizza la conoscenza e l’incontro con la cultura dell’altro, deve cambiare la società. La scuola innanzi tutto, che formi dei giovani desiderosi di conoscere, in montagna, prima il lavoro in malga che la discoteca. Ragionando sulla riforma della scuola di cui avremmo bisogno, scrive Clotilde Pontecorvo: "Perché non pensare a un liceo con officine meccaniche e falegnameria, e a corsi professionali con lezioni di filosofia, storia dell’arte e delle religioni?"

Dobbiamo ripensare il rapporto fra la mente e la mano, fra la tecnica e l’umanesimo, fra l’uomo e l’animale, fra la stalla e la poesia, se vogliamo che una laureata in storia dell’arte possa ancora innamorarsi di un allevatore. Non deve più succedere che un adolescente di Stumiaga, finita la scuola media, entri in cucina, lanci la cartella nell’angolo, e gridi: "Basta".

Alla grande domanda, se una mucca deve, per rispondere alle costrizioni sociali, svilupparsi in un’unica direzione, o se può svilupparsi in più direzioni, cosa risponderebbe la mucca, se le mucche potessero parlare, e noi sapessimo ascoltare?