L’incredibile Previti
Profilo di un uomo accusato di corruzione di giudici dal Tribunale, di ricatto dal suo compagno di partito Filippo Mancuso; e per il quale si fanno leggi ad personam.
Quello di Cesare Previti è proprio un caso limite. Nemmeno la fantasia più perfida avrebbe potuto immaginare una serie di coincidenze negative così implacabili contro l’ex ministro della Difesa del primo governo Berlusconi. Non parlo di prove delle sua colpevolezza: mi guardo bene dall’arrogarmi un compito che non è mio. Mi riferisco solo a coincidenze negative, a circostanze per lui sfavorevoli, anche se prive di ogni nesso di causalità con i fatti di corruzione giudiziaria che gli vengono attribuiti.
A cominciare dalla più innocente, cioè dal suo stesso aspetto. Una fisionomia spigolosa, dura, immota in uno sguardo arcigno, sfiorato appena da rari sorrisi sinistri e beffardi. Vero è che per le vicende che sta attraversando ha poco da ridere. Ma non è tristezza la sua. Vi è in lui un’impronta congenita, quasi una conferma vivente delle pur dubbie teorie lombrosiane. Insomma uno che come lo incontri, a prima vista ti incute subito un legittimo sospetto.
Vi è poi quel Filippo Mancuso, che pure fu suo compagno di merende in tempi non molto lontani, che oggi dice di lui cose terribili. Lo accusa di essere un ricattatore, cioè di tenere sotto minaccia di gravi rivelazioni qualcuno, per avere in cambio dei favori. E questo qualcuno sarebbe addirittura Silvio Berlusconi, il capo del governo. L’accusa viene da una persona autorevole, che fu alto magistrato, ministro della Giustizia, candidato giudice costituzionale designato dalla stessa parte politica di Cesare Previti. Ed i favori pretesi dall’alto personaggio ricattato sono nientemeno che leggi, cioè l’asservimento di organi costituzionali a suo personale vantaggio. Una nuova normativa per vanificare le prove raccolte all’estero sugli oscuri movimenti di suoi enormi capitali. La famigerata legge Cirami da approvare con procedure di eccezionale urgenza per tentare di evitare la sentenza di Milano.
Credo che non ci sia mai stato un caso in cui il prezzo di un ricatto sia stato così alto. Eppure Filippo Mancuso lo denuncia con sicurezza e nessuno lo smentisce.
Vi è poi un suo collega, due volte collega, l’avvocato Giovanni Acampora anche imputato di corruzione in atti giudiziari, gli stessi di cui Previti deve rispondere. Ebbene Acampora ha preferito evitare il processo pubblico ed ha scelto il rito abbreviato. Giudicato da altri giudici, verso i quali nessuno ha mai avanzato alcun sospetto di imparzialità, legittimo o meno, è stato condannato a sei anni di reclusione, dopo aver fruito della riduzione di un terzo delle pena per il rito premiale che aveva scelto. Senza un tale beneficio sarebbero stati nove anni tondi tondi. I tredici richiesti da Ilda Boccassini per Cesare Previti non sembrano poi così esagerati al paragone con questo precedente che offre marcate analogie.
Ma c’è una coincidenza ancora più fatale. Egli stesso, messo alle strette dagli inconfutabili documenti bancari delle rogatorie, pur negando ostinatamente la corruzione, ha dichiarato di avere esportato 21 miliardi di vecchie lire riscossi come compenso professionale dagli eredi Rovelli, consumando in tale modo una madornale evasione fiscale. Né il Pubblico Ministero né il Tribunale, innanzi ad una tale ammissione di reità, hanno fatto alcunché per incriminarlo, mostrando d’essergli tutt’altro che ostili. Può darsi persino che lo assolvano dalla corruzione. Ma potranno continuare ad ignorare il reato tributario da lui stesso confessato? Al porsi di questa domanda spunta il malandrino ricordo di Al Capone: Alfonso Capone, il gangster italo – americano capo della malavita di Chicago negli anni del proibizionismo, sospettato di numerosi omicidi ma senza prove, che finì incastrato nelle carceri federali per tredici anni (altra coincidenza?!) solo perché non aveva pagato le tasse. In Italia le pene per gli evasori fiscali sono molto più miti che negli Stati Uniti. Ed una tale consapevolezza può avere suggerito al Nostro una linea difensiva che oltre Atlantico non avrebbe funzionato.
Vi è dunque tutta una cornice di eventi che fa cadere su Cesare Previti una luce fosca. Non sono la prova che egli sia colpevole. Deciderà il Tribunale.
Allo stato vale la presunzione di sua innocenza, fino a quando non ci sarà una sentenza definitiva. Mi pare però altrettanto doveroso riconoscere anche ai magistrati, a quelli giudicanti ma pure a quelli dell’accusa, una almeno eguale presunzione di onesta imparzialità fino a prova contraria. E la canea urlante al complotto non è in alcun modo una prova.