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I discorsi “a braccio” di Berlusconi

Silvio Berlusconi, L’Italia che ho in mente. Mondadori, Milano, 2001, pp.300 , £.26.000.

I discorsi "a braccio" di Silvio Berlusconi, dodici in fila, li ho divorati in un giorno. Dal primo, "Ho scelto di scendere in campo", tenuto ad Arcore il 26 gennaio ’94, a quello, siamo già nel 2000, a Milano: "La scelta che dovrete fare è la scelta tra due Italie, tra due diverse concezioni dell’uomo, della società, dello Stato. La scelta tra l’Italia delle tasse ingiuste e troppo alte, delle pensioni umilianti, dell’insicurezza e della paura, della disoccupazione, tra l’Italia che sa soltanto proibire, condannare e odiare e un’altra Italia, la nostra Italia, che sa anche e soprattutto amare. Questa è l’Italia che ho in mente".

Di discorsi politici, nella mia vita di cittadino, ne ho ascoltati e letti parecchi. Promettono, mescolati in dosi diverse, e da perseguire con mezzi diversi, giustizia e benessere, libertà ed eguaglianza, sicurezza e pace. I discorsi di Berlusconi si caratterizzano perché vendono, in aggiunta, una merce speciale: la felicità. E’ per questo, temo, che si concludono, nelle sale affollate, con "applausi prolungati e ovazioni". I due sinonimi, che l’editore, per altro proprietà dell’autore, ripete con insistenza, vogliono convincerci del consenso sincero e commosso degli azzurri e delle azzurre d’Italia. Ma dell’iterazione, figura retorica un poco barocca, non ci sarebbe bisogno, perché di felicità, la merce offerta dal palcoscenico, c’è oggi, ne sono convinto, una domanda crescente.

E’ tuttavia il poeta più sventurato e combattivo, di questa "nostra Italia" moderna, a metterci in guardia, Giacomo Leopardi di Recanati: "Io abominio la politica perché credo, anzi vedo, che gli individui sono infelici sotto qualsiasi forma di governo." Odiare è una parola irsuta, ma ci stimola a dubitare del politico che promette, trionfalmente, la felicità.

Noi tutti, se il destino ci è un poco benigno, sperimentiamo, durante la vita, qualche sprazzo di felicità: un amore, un’amicizia, un cielo stellato, un’opera d’arte. La "città" (e politica viene da polis), da scrostare, levigare, umanizzare, costituisce solo il contesto in cui può nascere quel fiore fragile. Da coltivare con cura, disposti a vederlo sparire, per ricercarlo ancora.

Alla politica, cioè a noi stessi, stretti in società, e ai nostri rappresentanti, che ci disciplinano in regole e decisioni, chiediamo anzitutto il senso del limite. La politica è chiamata ad occuparsi, diremmo con linguaggio religioso, delle cose penultime. Brucia invece in Berlusconi oratore una missione messianica, di donare a tutti verità e felicità. E quindi urge l’impegno ad abbattere l’ostacolo che ne impedisce il raggiungimento: i comunisti. Citiamo da Paolo Guzzanti, suo aedo e interprete, che firma la prefazione: "Berlusconi ha preso molto coraggiosamente su di sé il fardello e lo porta in giro per le città, le piazze, i teatri, le convention, le riunioni di partito e quelle popolari, dichiarando il suo anticomunismo". Berlusconi ha "il senso della folla", e la folla ha "il senso di Berlusconi": "l’anticomunismo viscerale" del leader, e il grido "liberaci dai comunisti" si incontrano magicamente.

Il grido emozionato, etico e politico, spiega Guzzanti, ha una spiegazione: "Il sospetto, la ragionevole certezza, l’indignazione per mezzo secolo di verità soffocata, manipolata, vigilata speciale; e giustamente l’autore di questa manipolazione storica viene identificato nel Partito comunista italiano, che poi ha cambiato nome, ma non ragione sociale." Questa è dunque la verità da svelare: l’Italia, nei 50 anni di storia repubblicana, è stata governata, dominata, irretita, dalla tirannide statalista dei comunisti.

Berlusconi esemplifica: la scuola statale, della sinistra, "mira a distruggere le radici classiche e cristiane della nostra cultura, per imporre un’ideologia di Stato, un programma di Stato senza pluralismo e senza libertà". Il "buono scuola" è lo strumento per permettere anche alle famiglie meno fortunate di decidere come educare i propri figli, "se nella scuola pubblica, se piace farli indottrinare secondo Marx", o "nella scuola libera, laica o cattolica!". Così i figli, in continuità con i genitori, diverranno cittadini del mondo.

Vorrei chiedere a Guzzanti se la scuola che ha frequentato, e quella dei figli, Corrado e Sabina, corrisponde al modello plumbeo descritto da Berlusconi. Se quando scriveva, prima di approdare al Giornale, sulla Stampa e su Repubblica, ubbidivano, lui e i suoi colleghi, agli ordini di Mosca.

Giorgio Manuali, candidato al Parlamento per la Casa delle libertà, è preside a Trento, e quindi conosce la scuola e gli insegnanti. Se recensisco il libro "L’Italia che ho in mente", del prezzo di £. 26.000, è perché lui me lo ha regalato. Ma le parole di Berlusconi me le ripete senza ironia: "L’insegnamento della storia del Novecento è finalizzato unicamente a propagare la cultura della sinistra." Io, le elezioni, fino al ’96, le ho perse, ad ogni tornata: a Palazzo Chigi, e al Ministero della Pubblica Istruzione, stava sempre qualcuno per il quale non avevo votato. Che però, lo riconosco, mi ha garantito, in una scuola scalcagnata, di essere me stesso: spero di avere usato la libertà per educare al pluralismo.

Anche Berlusconi ricorre alla storia, e insiste sul valore della "memoria della lotta per la libertà". Un italiano, sia pure svagato, all’udire queste parole, pensa subito, magari per considerarle retoriche, alla Resistenza contro il fascismo e il nazismo. Per Berlusconi, invece, che alla Resistenza non dedica nemmeno una riga, delle 300 pagine fitte di questo volume, esse ricordano i giorni delle elezioni del ’48. Allora, mentre stava attaccando un manifesto con la scritta "Libertas", una squadra di comunisti lo picchiò, e la mamma vi aggiunse di suo uno scappellotto, per incitarlo a dedicarsi a imprese più profittevoli. Dobbiamo prepararci, nel prossimo futuro, a libri di storia scritti così, e a dibattere, aspramente, con essi, senza roghi e senza invocare censure.

Spira, nei discorsi di Berlusconi, un’aria da guerra civile, da combattere fino a che il nemico è annientato. Ha ragione lui, liberale, che i comunisti non nacquero democratici, e che la democrazia borghese, parve loro, a lungo, sprezzantemente, formale. Ha ragione quando ripete che il comunismo provocò crimini e tragedie.

Ma non sa che anche al cattolicesimo, di cui si professa campione, la democrazia parve a lungo parola obbrobriosa? E che pure il liberalismo resistette a lungo, opponendosi, all’avanzare della democrazia? Sta scritto su molti libri di storia di oggi. E crimini e guerre provocarono anche liberali e cristiani, come quella prima guerra mondiale che preparò il contesto che permise al comunismo di vincere in Russia.

Quando nel 1948, il comunista Terracini, il socialista Grassi, il cattolico De Gasperi, il liberale De Nicola, firmarono la Costituzione italiana, non venivano da una storia innocente: la storia è pesante per tutti. Ma la memoria comune di lotta al fascismo, la volontà di darsi reciproche garanzie, li spinse a firmare insieme la legge fondamentale, repubblicana e democratica. E’ una costruzione in fieri la democrazia, nelle istituzioni e nelle coscienze, un cammino che mai si conclude. Per questo quelle forze poterono, senza pericoli gravi, scontrarsi con asprezza nelle elezioni politiche del ’48, e in quelle di dopo, perché qualcosa di profondo continuava ad unirle.

Leggendo i discorsi di Berlusconi sembra che nessun filo ci unisca, né abbia mai unito gli italiani fra loro. Che non abbiamo mai sottoscritto una Costituzione. Pare di essere tornati allo stato di natura di Hobbes, alla guerra di tutti contro tutti. "C’è un baratro tra noi e loro, l’unica cosa che abbiamo in comune con loro è proprio il baratro che ci separa."

La divisione sembra antropologica, genetica quasi. Gramsci, comunista italiano della prima ora, sapeva invece che "si può essere compagni senza essere amici, e si può essere amici senza essere compagni". Io non ho amici di destra, ma vi conosco persone che stimo. E quindi una Costituzione, anche per l’oggi, è forse possibile. Bisognerebbe che invece di esplodere in ovazioni, qualcuno, alle parole del "baratro", si alzasse e dichiarasse di avere un amico fra i comunisti.

E non so qual è, a sinistra, la risposta più efficace per ritessere i fili di cui c’è bisogno. Ricordiamoci comunque che l’anatema scaricato sul leader odioso è udito anche dal giovane che alla politica si avvicina per la prima volta con circospezione.

Con uno scarto inatteso, ad un certo punto, nel pensiero di Berlusconi, anche noi, di sinistra, siamo considerati dei loro: noi, pieni di dubbi sulle guerre umanitarie, sul valore della libertà di mercato, e che non consideriamo le tasse "un prelievo forzato dalle buste paga". Gli succede quando parla di immigrazione.

Agli stranieri Berlusconi accenna solo nel discorso "Security Day", prima come clandestini e criminali, poi però anche come "risorsa per il Paese, per chi vuole venire nel nostro Paese a darci una mano." Ma - sottolinea - "vogliamo essere noi a decidere quanti sono gli ospiti che possiamo ricevere nella nostra casa… vogliamo che in casa nostra non mettano i piedi sul tavolo." Solo noi italiani, (ed europei, occidentali), siamo legittimati a decidere, contrapposti agli altri del resto del mondo.

E’ però un noi perverso, perché non ci accomuna, ma ci contrappone a chi è diverso, all’immigrato: è un’identità fondata sull’esclusione. E’ anche un’offerta implicita, e seducente, di "nuova costituzione" questa, che la sinistra però non può che respingere. Per aprire invece un dibattito culturale, al proprio interno anzitutto, perché nemmeno noi siamo innocenti: arroccarsi dentro i confini, oggi, nell’età della globalizzazione, è ingiusto eticamente, ma rivela anche impotenza.

Come il "Paese", lo Stato, non può essere governato come fosse un’impresa, così il mondo non può essere governato, ormai, come fosse il "Paese". A decidere non siamo più noi, da soli, ci è imposta una trattativa fra molti.

Fu il fascismo, e la guerra civile per vincerlo, la catastrofe che produsse la Costituzione del ’48. Può essere la migrazione dei popoli la catastrofe che ci fa maturare, che ci costringe a ripensare noi stessi, a darci una nuova Costituzione.

Anche nella cultura di destra c’è chi considera l’immigrazione, per lo meno, un fenomeno irreversibile. E quindi un patto è forse possibile.