Riforma dello statuto: basta apartheid
La separazione tra i gruppi linguistici in Alto Adige è stata un successo, poiché ha garantito la pacifica convivenza. A un prezzo altissimo: la limitazione dei diritti individuali. Che oggi rischia di essere insopportabile.
Mentre ci si indigna per le esternazioni xenofobe del cardinale Biffi o per le manifestazioni anti-moschee della Lega, pochi in Italia sanno che in Provincia di Bolzano, nel cuore del vecchio e civile continente europeo, vige l’apartheid. Può sembrare una parola grossa, ma corrisponde più o meno alla realtà.
Ormai, anche qui in Trentino-Alto Adige, ci si è fatta a tal punto l’abitudine con questo sistema che si rischia di darlo per scontato, come fosse ineluttabile. Vale la pena, allora, rinfrescarsi la mente con un breve riassunto.
Ogni residente deve dichiarare l’appartenenza ad uno dei tre gruppi linguistici riconosciuti dallo Statuto, ossia italiano, tedesco o ladino, pena il vedersi privare di alcuni diritti fondamentali. Non importa se si è figli di madre italiana e padre tirolese, o se si è immigrati dalla Francia, dalla Spagna o dal Marocco, oppure se, più semplicemente, ci si sente soltanto fieramente altoatesini: la scelta deve necessariamente essere tra uno di quei tre gruppi.
La segregazione inizia sin dall’infanzia. Bambini bianchi da una parte e bambini neri dall’altra. Pardon, bambini tedeschi da una parte e bambini italiani dall’altra. Sin dall’asilo.
Gli edifici scolastici sono diversi. Ma se il paese è piccolo e c’è una sola scuola, allora si mettono i tedeschi da una parte e gli italiani dall’altra. Durante la ricreazione? La contaminazione va impedita: reti e muretti dividono le due etnie. I bambini si parlano attraverso la rete, usando l’esperanto della comunicazione infantile? Allora ordini dall’alto dispongono di fare ricreazione in orari diversi. Le scuole miste, dove si insegna indifferentemente in italiano o tedesco, sono vietate.
Si va avanti così fino all’età in cui si comincia a lavorare.
Si ambisce ad un posto pubblico? Ci si metta in fila per un concorso. Ma le file sono tre:una per gli italiani, una per i tedeschi e una per i ladini. Alla pubblica amministrazione servono dieci nuovi dipendenti? Sette dovranno essere tedeschi, due italiani e uno ladino. E se nella fila dei ladini si presenta una sola persona, che ottiene magari un risultato appena sufficiente nel concorso, mentre nella fila italiana si presentano mille persone, di cui duecento raggiungono un risultato eccellente, non c’è verso di modificare la logica. La segregazione razziale, pardon linguistica, ha precedenza su tutto.
S’intende difendere i propri diritti di lavoratore? Ci si può iscrivere ad uno dei tre sindacati confederali italiani, oppure al sindacato tedesco. Marx si rivolta nella tomba: "Proletari di tutti i paesi, unitevi!". Già, ma non in Alto Adige.
Ci si sposa e si ambisce ad una casa popolare? Non importa se c’è chi ne ha più bisogno e chi ne potrebbe fare a meno. L’edilizia abitativa pubblica suddivide gli alloggi in quote per gli italiani, i tedeschi e i ladini. Sei figlio di una coppia mista e ti rifiuti di scegliere se vuoi più bene alla mamma o al papà? Affari tuoi, vai a dormire sotto un ponte.
C'è chi si è impegnato per cercare di cambiare questo sistema. Ed è entrato così in contatto con la politica della Provincia di Bolzano. Anche qui, però, la logica è sempre la stessa. Se vuoi candidarti devi prima dichiarare a quale gruppo linguistico appartieni. E sui manifesti elettorali, a fianco del tuo nome, scriveranno a chiare lettere il colore della tua pelle, pardon il tuo gruppo etnico. Nel 1991, giovane idealista appena maggiorenne, ti sei rifiutato di dichiararti al censimento e adesso, nel 2000, nove anni dopo, vuoi candidarti a fare il consigliere comunale? Le porte sono sbarrate. Al prossimo censimento rifletti meglio. Per questo giro, puoi fare solo l’elettore, se non ti sei schifato abbastanza e hai ancora voglia di votare.
Supponiamo però che al censimento ti sei dichiarato, ti candidi alle elezioni regionali e vieni eletto. Scoprirai che la vita politica è anch’essa regolata in tutto e per tutto dalla logica dell’apartheid. Gli assessori della Giunta vanno scelti in maniera tale da rispecchiare il numero di italiani, tedeschi e ladini del Consiglio.
Il trenta per cento dei consiglieri è italiano? Il trenta per cento degli assessori dovrà essere italiano. E chissenefrega del loro colore politico o se magari sono incompetenti. Hai inventato un partito interetnico e siete stati eletti in due, un italiano ed un tedesco? Povero illuso. Dopo le elezioni vi divideranno, perché avrete diritti diversi: uno potrà fare l’assessore, l’altro no; uno potrà essere eletto alla Presidenza del Consiglio, l’altro no. Divisi. Come all’asilo.
Chi si ribella a questo sistema è escluso, emarginato. Perde i diritti di cittadinanza.
Questo è solo un breve flash sulla situazione della Provincia di Bolzano. Sarebbe però un errore pensare che questi siano gli aspetti più perniciosi di quel sistema fondato sull’apartheid.
In realtà la situazione è ancor più triste. A parte una ristretta élite intellettuale, per il resto i gruppi linguistici vivono vite completamente separate, non entrando quasi mai in contatto tra loro, come si trattasse di mondi paralleli. Ci sono persone di madrelingua italiana, nate e cresciute in Alto Adige, che non sanno il tedesco, non hanno un solo amico di lingua tedesca, frequentano solo i bar italiani, lavorano per aziende di proprietà italiana, si sposano con italiani, leggono i quotidiani che parlano della comunità italiana, si divertono in compagnia di soli italiani, vanno alla messa in lingua italiana celebrata da un prete italiano, abitano in un quartiere italiano, fanno le vacanze sulle spiagge italiane, mandano i loro figli nelle scuole italiane e si relazionano con insegnanti italiani ed altri genitori italiani. In pratica, trascorrono la loro intera vita senza mai entrare in contatto con l’altro gruppo linguistico. Salvo, forse, quando da un’altra regione viene a trovarli un parente desideroso di vedere le belle montagne dell’Alto Adige: in questo caso si organizza la scampagnata in qualche valle, con cena (finalmente!) in un ristorante gestito da sudtirolesi. Ma l’esperienza è vissuta come si trattasse di una gita domenicale oltreconfine. Identico esempio, rovesciato, potrebbe essere fatto prendendo una famiglia di lingua tedesca.
Ebbene: è indubbio che l’apartheid, in provincia di Bolzano, sia stato un grande successo, un fattore estremamente positivo ed efficace per favorire la pacifica convivenza tra gruppi linguistici diversi. E’ sufficiente fare il raffronto con Ajaccio, Bilbao o Belfast - senza andare tanto lontano - per rendersi subito conto che Bolzano è un’isola felice. Non ci si ammazza per strada, non ci sono carri armati a tenere separate la fazioni, non esplodono autobombe. Anzi, la qualità della vita è elevata, il reddito medio è alto, la disoccupazione è assente. E la situazione di partenza, nel 1945, era ben più difficile rispetto a quella della Corsica, dei Paesi Baschi o dell’Irlanda del Nord.
Quando si decise che il confine dello Stato italiano sarebbe rimasto all’altezza del Brennero, l’obiettivo che si intese perseguire per favorire la pacifica convivenza tra i gruppi linguistici fu anzitutto quello di salvaguardare l’identità del gruppo etnico sudtirolese all’interno dell’Italia, evitandone l’omologazione. E dunque censimento, scuola, proporzionale per l’accesso al pubblico impiego e così via: in una parola, appunto, apartheid.
Il prezzo da pagare, però, è stato ed è altissimo: una forte limitazione dei diritti individuali in nome dei gruppi etnici. C’è benessere, ma al prezzo di un grave deficit di libertà. C’è lavoro, ma speranze ed ambizioni sono soffocate. L’Alto Adige è insomma al contempo ricco, pacifico e… profondamente illiberale.
A pochi mesi dal prossimo censimento, mentre tornano ad emergere le ricorrenti proteste, anche nella forma più estrema dello sciopero della fame, ma soprattutto nel momento in cui ci si appresta a lavorare attorno all’ipotesi di un terzo Statuto di autonomia, ci sono due domande che non possono essere evitate. E’ ancora necessario, oggi, mantenere l’apartheid per garantire la convivenza? Ma soprattutto, per quanto tempo ancora potrà reggere questo sistema?
Se l’apartheid non fosse più necessario, di sicuro non sarebbe utile. Al di là delle libertà individuali, infatti, quel sistema comporta aggravi enormi sull’intera società altoatesina. Inefficienze nella pubblica amministrazione, anzitutto. Oppure il fatto che la presenza di gruppi linguistici diversi, che nell’Europa comunitaria sarebbe di per sé una ricchezza, è un handicap. Mentre l’angusta chiusura culturale della provincia di Bolzano, conseguenza inevitabile di un sistema a compartimenti stagni, ostacola il dinamismo delle relazioni, impedendo alla società di crescere.
Esistono numerosi elementi che ci dicono che la società altoatesina sarebbe matura per compiere un salto di qualità nei rapporti tra i gruppi linguistici, passando dalla logica della semplice convivenza a quella di una fruttuosa integrazione.
In primo luogo, paradossalmente, il fatto che l’apartheid ha funzionato egregiamente. Da più di trent’anni non scoppia una bomba. E’ vero che i gruppi linguistici vivono di fatto separati, ma l’odio che attraversava la società durante e dopo il fascismo è scomparso. Quella limitazione delle libertà individuali può insomma considerarsi un successo proprio perché ha creato le condizioni per non rendersi più necessaria. Un prezzo alto, che è stato giusto pagare solo in quanto transitorio.
In secondo luogo, in questi anni è profondamente cambiato il contesto geopolitico. L’Italia si avvia verso il federalismo: l’autonomia non è quindi più in pericolo e, anzi, sarà destinata a rafforzarsi ulteriormente. L’integrazione europea, l’Euro, l’ingresso dell’Austria nell’Unione ed il Trattato di Schengen hanno fatto scomparire quel confine del Brennero che divideva i tirolesi del nord da quelli del sud. Da terra di confine qual era, il Trentino-Alto Adige sta diventando una regione centrale dell’Europa. E se il processo d’integrazione politica prenderà piede - i tempi possono essere considerati incerti, non l’esito - assisteremo inevitabilmente ad una sempre più forte integrazione anche tra i popoli europei. In definitiva, sta progressivamente svanendo l’idea stessa che il gruppo linguistico tedesco sia una minoranza in un Paese straniero, da difendere quindi in quanto tale. Sta insomma svanendo il presupposto del sistema delle gabbie etniche, la sua stessa legittimazione.
Infine, sta cambiando il mondo. Non è una frase fatta. La rivoluzione digitale, in particolare lo sviluppo e la diffusione della rete informatica, è qualcosa di paragonabile, forse superiore, alla rivoluzione industriale di due secoli fa. Cambierà ed anzi sta già cambiando rapidamente non soltanto l’economia e l’organizzazione sociale, ma anche e soprattutto la nostra cultura. Che senso può avere il censimento etnico, o la divisione delle scuole, per il giovane della Val Pusteria che è nato dopo il secondo Statuto, non ha vissuto né i drammi del fascismo né le bombe degli anni ’60, ed oggi chatta quotidianamente tramite Internet coi suoi coetanei di Los Angeles, oltretutto in lingua inglese? Un giovane che magari si iscriverà all’Università di Friburgo, affinerà gli studi con un master a Boston, farà il ricercatore a Osaka e lavorerà da casa, usando un modem, per una "dot com" di Seattle? Insomma: o l’Alto Adige sceglierà la via dell’apertura, o altrimenti dovrà rassegnarsi ad assistere alla fuga dei suoi migliori cervelli.
E qui arriviamo alla riforma dello Statuto. Perché l’idea di una nuova Regione con un ruolo funzionale all’economia, senza più alcuna traccia di valenza nazionalistica, di quel presidio dell’italianità che l’ha sinora caratterizzata, può aver senso solo se sarà accompagnata dal superamento della logica delle gabbie etniche, che ne sono state, sinora, il contraltare. Il nuovo Statuto dovrà insomma guardare trent’anni avanti, che nell’era di Internet sono secoli, altrimenti fallirà.
Può sorprendere il fatto che, mentre si fanno scioperi della fame, Messner si appella al Presidente della Repubblica e finanche la moglie di Durnwalder si espone a sostenere la necessità del superamento della divisione etnica (dicendo quindi ciò che lo stesso Durnwalder pensa, ma non dice), nessuna forza politica altoatesina abbia scelto apertamente la strada dell’innovazione istituzionale. Può sorprendere, ma in realtà non è per nulla strano: per le ragioni già dette la politica altoatesina si fonda e trae la propria legittimazione dal sistema dell’apartheid. Il meccanismo elettorale proporzionale, poi, incentiva inevitabilmente la logica del voto d’appartenenza (gli italiani votano gli italiani, i tedeschi votano i tedeschi) in luogo di quella programmatica. Cosicché la competizione elettorale in Alto Adige non avviene sui programmi, visto che così non può essere col sistema proporzionale, bensì sulla logica etnica: tra i "partiti tedeschi" si fa a gara a chi è più contro gli italiani, e viceversa tra i "partiti italiani". In queste condizioni la politica, anziché essere motore della pace, rischia di fomentare l’odio pur di salvare se stessa: il caso della toponomastica è forse il più emblematico. Il risultato è che tra i politici tedeschi parlare di integrazione tra i gruppi linguistici è tabù, mentre tra i politici italiani è tabù parlare di nuova Regione. Si è in uno stallo che impedisce il superamento dello status quo.
Eil Trentino può aiutare l’Alto Adige? In buona parte della politica trentina, purtroppo, l’innovazione non sembra essere di casa. C’è ancora chi pensa che l’autonomia della Provincia di Trento possa essere, ancor oggi, salvaguardata soltanto attraverso una concezione nazionalistica della Regione. Oppure, peggio ancora, enfatizzando la logica delle gabbie etniche, inventandosi sette o otto gruppi linguistici regionali da tener ben rinchiusi in compartimenti stagni, come i panda allo zoo.
Qualcosa, però, si muove. Nelle dichiarazioni programmatiche che ha pronunciato in Consiglio regionale, come candidata alla rielezione a Presidente della Giunta, Margherita Cogo ha tentato di infrangere quei tabù, sebbene usando grandissima cautela e cercando di non ferire troppo le diverse sensibilità. "Lo Stato non cancellerà mai un’autonomia che funziona" - ha detto riferendosi al nuovo ruolo della Regione. Oppure, riguardo ai gruppi linguistici, ha detto che "se il prossimo Statuto non sarà percepito anche come il coronamento della nostra esperienza di convivenza attraverso un ulteriore passo avanti in quella direzione, esso rischierà di rivelarsi sterile, vuoto, lontano dalla vita e dai cuori dei cittadini e rischierà, di conseguenza, di fallire".
Risultato? Sul futuro della Regione ha dovuto assistere alla levata di scudi delle opposizioni, mentre sul tema dell’integrazione tra i gruppi linguistici è stata di fatto ignorata. La strada è dunque ancora lunga ed in salita.
Eppure è l’unica.