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QT n. 14, 8 luglio 2000 Servizi

A Pergine, vent’anni dopo

Il manicomio sta per essere definitivamente smantellato. Rimane però un altro muro ben più solido: quello dei pregiudizi e delle discriminazioni.

Turri Romano

Un grandissimo edificio con alcuni padiglioni staccati posti nelle vicinanze, il tutto circondato dal verde di un enorme parco: questo è tutto ciò che rimane dell’ex manicomio di Pergine, la cui apertura ufficiale risale al 19 settembre 1882. Un periodo, quello, in cui i malati mentali di tutto il Land tirolese, da Kufstein a Borghetto, venivano rinchiusi nell’unico manicomio esistente: quello di Hall, vicino a Innsbruck. Ne consegue che per molti malati trentini Hall diventava una deportazione più che un luogo di cura. Infatti, là si parlava una lingua per molti ostica ed il modo di vita era totalmente diverso da quello dei trentini che vi entravano. Fattori, questi, che contribuivano ad aumentare il disagio della loro malattia. Inoltre, molti familiari non avevano la possibilità di andare a trovare i loro cari (la ferrovia non esisteva ancora) i quali, di conseguenza, rimanevano abbandonati a se stessi.

Il laboratorio del gruppo riabilitativo "Tre castagni".

Principalmente, ma non solo, questi motivi indussero molti emeriti personaggi a richiedere a gran voce la costruzione di un nuovo manicomio che sorgesse in territorio trentino. Una richiesta durata oltre 30 anni: la prima persona interessata alla costruzione del manicomio di Pergine, infatti, fu il dott. Francesco Saverio Proch, direttore generale dell’Ospedale S. Chiara di Trento, che nel 1850 inviò un appello all’imperatore.

All’apertura del manicomio di Pergine gli ospiti erano 91 (47 uomini e 44 donne), tutti provenienti dal manicomio di Hall e, prima della legge 180, vi erano rinchiuse oltre mille persone provenienti dal Trentino e dall’Alto Adige. Nella sua piena attività il manicomio ha avuto anche oltre tremila ricoverati. Una piccola cittadella che gestiva in modo autonomo la propria sussistenza. Infatti, a due chilometri c’era una colonia agricola dove lavoravano i malati in condizioni di poter operare. In questa colonia c’erano anche le stalle con mucche e maiali che fornivano carne e latte, e la terra produceva verdure utili e sufficienti alla sussistenza dei malati. C’era perfino il panificio.

Adesso il complesso ospedaliero si sta ridimensionando anno dopo anno. Gli attuali ospiti sono appena 189 di cui 90 donne e 99 uomini. La colonia agricola non fa più parte dell’ospedale, ma è stata destinata al Centro Sperimentale Agricolo di S. Michele all’Adige. Nell’ala destra, per chi entra dalla portineria, ha trovato posto già dallo scorso anno una scuola superiore per geometri, una per ragionieri ed un liceo. Nell’ala sinistra, la più vecchia, è stata collocata la terza Unità Operativa di psichiatria che è l’unione delle tre unità operative esistenti nei primi anni successivi all’entrata in vigore della 180 e cioè la prima unità, formata dal Centro Salute Mentale di Pergine che seguiva tutto il territorio; la seconda unità, formata dall’Ospedale Psichiatrico; la terza unità, formata dal Servizio Psichiatrico di Borgo.

Dallo scorso anno, nell’attuale terza unità operativa, ha trovato posto un’altra struttura: il Centro Diurno di Levico, che si trova a mezza strada fra Pergine e Borgo.

Sempre sulla sinistra c’è un edificio ancora con le grate alle finestre e le stanze chiuse a chiave. Qui sono sistemati i malati più gravi. I quali, però, possono uscire da soli, se sono in grado di farlo, oppure accompagnati da un operatore. Se il tempo lo permette, possono anche consumare il pasto all’aperto in giardino. Quasi tutte le settimane vanno a fare delle gite: al lago di Garda, a Trieste, in Germania, a Lourdes, a Roma dal Papa…

All’interno dell’ospedale funziona anche uno sportello della Cassa Rurale dove ognuno ha il proprio conto corrente nel quale viene versata la pensione che tutti percepiscono. Possono prelevare dal proprio conto una quota giornaliera fino ad un massimo di 10.000 lire per le piccole spese, come il caffè e le sigarette. Per una cifra maggiore possono fare il prelievo tramite un modulo firmato dal medico.

Alla morte di un paziente, la direzione dell’ospedale provvede al pagamento tutte le spese funerarie, lapide compresa, con i soldi che l’ospite aveva depositati sul proprio conto. La rimanenza viene data agli eredi. A proposito di morte, il caposala Ivano Zampedri che ci ha accompagnati ed al quale vanno i nostri ringraziamenti, ci ha raccontato una cosa raccapricciante. Un tempo - si parla di diversi anni fa - gli ospiti dell’ospedale psichiatrico che morivano non potevano essere sepolti nel cimitero comunale, perché i perginesi non volevano. Una discriminazione post mortem! Paura di contagio? Oppure il pazzo "fa paura" anche dopo morto?

Venivano così sepolti in un piccolo cimitero attiguo chein seguito è stato smantellato; adesso vengono regolarmente sepolti nel cimitero comunale di Pergine ed ogni anno, il 2 novembre, la direzione dispone che su ogni tomba venga posto un crisantemo ed un lumino.

Camminando lungo il viale del giardino si incontra la Struttura "Pandolfi", un vecchio padiglione psichiatrico dove si stanno ultimando i lavori per riconvertirlo in una residenza sanitaria. Circa due anni fa è stata costituita una commissione con il compito di smantellare definitivamente l’ospedale psichiatrico. I 190 pazienti furono divisi in tre fasce: la prima comprende 44 persone con handicap gravi (cerebrolesi, ecc.); la seconda comprende 80-90 pazienti psichiatrici di cui alcuni usciranno e gli altri saranno alloggiati in residenze psichiatriche tipo le case-famiglia, ubicate nel perginese; la terza fascia comprende una cinquantina di persone con patologie di tipo psico-geriatrico. Queste persone verranno appunto alloggiate nella "Struttura Pandolfi".

La cucina di una casa-famiglia.
Una camera della casa-famiglia dove sono ricoverate persone con patologie croniche.

Attiguo a questa struttura troviamo il Padiglione "Valdagni" che fino allo scorso anno ospitava la scuola per geometri e ragionieri, ora spostata nell’ala destra, come già detto. Adesso è chiuso. In futuro sembra che vi troverà posto il Laboratorio di Analisi di via Piave a Trento.

Finalmente si arriva al complesso psichiatrico formato da una residenza psichiatrica e da cinque case-famiglia. Nella residenza psichiatrica, che è in fase di sperimentazione, alloggiano 18 persone con patologie psichiatriche croniche. Qui le porte sono chiuse a chiave, ma i pazienti possono uscire accompagnati ed il pranzo viene portato da fuori. Nelle cinque case-famiglia, paragonabili alle residenze protette esistenti nel nostro territorio, abitano piccoli nuclei di dieci persone. Sono costituite da due camerette ben arredate con 4-6 letti in legno e gli armadi, da una cucina, da un soggiorno-sala da pranzo e dai servizi igienici. Le pareti delle stanze e dei corridoi sono tappezzate da foto ricordo delle loro gite e da bellissimi quadri eseguiti da essi stessi. Sono per lo più una sorta di "mosaici", con tessere formate da piselli secchi, orzo, lenticchie e riso, oppure con le palline del polistirolo colorate. Si notano poi anche altri quadri eseguiti dalle donne con ricamo a mezzo punto.

In queste case-famiglia, sotto la guida di un’operatrice, gli utenti si gestiscono autonomamente: con turni a rotazione, si preparano i pasti, rifanno i letti, stirano i loro indumenti… Impiegano il resto del loro tempo in molte altre attività sportive (ginnastica e pesca nei laghetti) e lavorative. Ogni casa-famiglia ha il proprio laboratorio. Dopo aver visitato le case-famiglia, l’infermiere caposala ci ha accompagnati nella Struttura Psichiatrica, o Reparto.

Ciò che ci ha colpiti maggiormente è stata la presenza, in questo luogo, di una casetta di due metri per due con il tetto di legno e le pareti di canna di bambù, tanto da farla sembrare una "gabbia". All’interno vi era un materasso, un tavolo ed una sedia. L’infermiere ci ha detto che quella "casetta" ospita una donna, che più tardi abbiamo incontrata in giardino in compagnia di un’operatrice. "Questa casetta - ci ha detto l’infermiere - è stata fatta perché la donna aveva l’abitudine di intasare i cessi con qualsiasi oggetto. Le soluzioni erano due: o tenerla legata a letto giorno e notte come era stato fatto nei 12 anni precedenti, o tenerla chiusa in questa casetta. La donna, comunque, passa gran parte della propria giornata fuori del reparto con la sorveglianza di una infermiera".

La motivazione fornitaci ci è apparsa poco convincente: forse sarebbe stato più utile chiudere i cessi, non la donna. Su questa faccenda chiediamo chiarimenti al dott. Claudio Agostini, psichiatra del Centro di Salute Mentale di Trento, che fa parte della Commissione per lo smantellamento del manicomio di Pergine. "Ho saputo recentemente del problema della gabbia - ci ha detto - e la cosa mi ha scioccato. Ho chiesto chiarimenti al Direttore Psichiatrico Dott. Zini, il quale mi ha presentato tutte le relazioni di questi ultimi anni concernenti la signora che avete visto. È’ la storia pesantissima e terribile di una persona che è stata tenuta legata per 12-13 anni di seguito. Alcuni anni fa un obiettore di coscienza è andato ad operare nell’ospedale psichiatrico e grazie a lui quella donna ha fatto delle trasformazioni inaspettate ed incredibili. Intanto è stata slegata, poi ha cominciato ad uscire. Stava molto volentieri con questo ragazzo e riusciva perfino a chiamarlo per nome, lei che era in grado di emettere solo alcuni suoni gutturali. Alla fine hanno trovato la soluzione della gabbia, sulla quale non mi esprimo. Una situazione che non può che essere temporanea, secondo me. Dissi al dott. Zini che avrei trasmesso questa storia ai gruppi di volontariato con la speranza di trovare alcune persone disponibili a fare un progetto per questa donna con l’obiettivo di umanizzare la sua assistenza, perché una persona in gabbia non va assolutamente bene. Certo meglio in gabbia che legata a letto."

Nella struttura psichiatrica - o reparto che dir si voglia - adesso trovano posto 18 persone, mentre prima della legge 180 i reparti erano formati da 70-80 persone che vivevano nello stesso spazio del reparto odierno. Alla sera, per far dormire i pazienti, venivano sistemati per terra i materassi, che poi al mattino venivano tirati su ed ammucchiati in un angolo.

Qui, dopo la sveglia, gli utenti si alzano, fanno la doccia o il bagno, poi la colazione e fino all’ora del pranzo, seguiti da un’operatrice, si dedicano ad attività ricreative, come il gioco delle carte. Nel pomeriggio svolgono anche attività di laboratorio. Chi non vuol fare attività può uscire in giardino.

In ultimo abbiamo visitato il laboratorio generale, dove abbiamo visto dei lavori che ci hanno fatto restare a bocca aperta. Qui si creano statuette con un materiale simile alla creta, che poi vengono dipinte a mano; scatole di legno decorate con tovaglioli di carta colorati e ritagliati secondo una certa forma; decorazioni tridimensionali, sempre con gli stessi tovaglioli; lavori in legno compensato traforato e pirografato. Con tutti questi lavori, una volta all’anno, viene allestita una mostra dove i manufatti vengono venduti ad offerta libera.

Uno dei tanti presepi creati dagli ospiti di Pergine.

Ciò che ci ha colpiti ancor di più sono stati i presepi. Ogni anno viene allestito un nuovo presepe costruito con legno compensato lavorato con il traforo e le statuine fatte con quel materiale di cui dicevamo prima. Il presepe per il Natale 2000 hanno già cominciato a prepararlo ed hanno già costruito la grotta che è bellissima. Ci hanno fatto vedere il disegno e ci hanno detto che sarà lungo due metri e mezzo.

Tutto questo è ciò che rimane oggi dell’ex ospedale psichiatrico di Pergine, vent’anni dopo l’abbattimento del "Muro della Mente". Certamente le condizioni di vita all’interno dell’Ospedale psichiatrico di Pergine rispetto al periodo precedente la 180 sono cambiate moltissimo. Ma non è questo che chiede la legge, perché una persona non può essere ricoverata per tutta la vita. Il malato deve essere curato ed assistito nel proprio territorio. In questo contesto, sappiamo che una Legge finanziaria prevedeva lo smantellamento definitivo di tutti i manicomi entro il 31 dicembre1997, cosa che non è ancora avvenuto per quello di Pergine.

La risposta a questa domanda la chiediamo al dott. Agostini, che risponde: "Sì, tutti gli ospedali psichiatrici italiani dovevano definitivamente chiudere entro la fine del ‘97, ed erano anchepreviste delle sanzioni per gli inadempienti: le amministrazioni che entro tale data non avessero provveduto alla chiusura degli ospedali psichiatrici sarebbero state "punite" decurtando una certa quota dal loro budget. Ma essendo il Trentino una provincia autonoma, non viene investito da questo provvedimento, ma deve comunque chiudere definitivamente il complesso manicomiale di Pergine entro la fine di quest’anno. Nel frattempo cercheremo una sistemazione per tutte le persone che sono ancora ospitate. Una sistemazione che deve essere soprattutto mirata al loro benessere ed al loro inserimento nel territorio dove andranno a vivere."

Quali poteri ha la Commissione per lo smantellamento del manicomio di Pergine di cui lei fa parte?

"La commissione ha un potere consultivo. Il Dipartimento di Psichiatria ha chiesto ad un gruppo di persone di stilare un progetto per il superamento dell’ospedale psichiatrico di Pergine, che è già stato fatto da due anni Adesso, il potere di metterlo in pratica dipende da molti fattori. Occorre, anzitutto, una forte volontà politica ed economica, perché Pergine ha vissuto una buona parte della sua economia sull’ospedale psichiatrico. Bisogna quindi decidere con i sindacati, gli enti locali, l’Azienda Sanitaria, la Provincia, che fare di tutte quelle persone che in vario modo lavorano per l’ospedale: operatori, mense, lavanderie, fornitori vari. Io credo che un buon progetto debba avere una cornice generale. Poi ci dev’ essere un progetto mirato su ogni persona. Se attualmente gli ospiti sono 190, occorrono altrettanti progetti diversi l’uno dall’altro, sempre però inseriti nella cornice globale che è quella di dire basta con gli ospedali psichiatrici. Certo, non è facile. Bisogna creare le condizioni affinché queste persone possano vivere bene nei luoghi in cui tornano. Bisogna creare un ambiente che li accolga, una sensibilità, dei luoghi di vita, un’assistenza".