Pensioni regionali: previdenza, business e potere
Le pensioni Inps verranno dimezzate, le complementari ci potranno salvare, la Pensione Integrativa Regionale è un’ottima idea. Ma sulla sua gestione, sulla grande torta che rappresenta (oltre 10.000 miliardi) si alzano dubbi e appetiti.
"Sì, non c’è dubbio. I livelli attuali delle pensioni non si potranno più mantenere". Con questa breve frase il prof. Gianfranco Cerea, docente di Economia a Trento, liquida come scontato quello che tante persone temono, e tanti politici nascondono dietro giri di parole: il "nuovo welfare", come viene chiamato, sarà più povero del precedente; tutti i nuovi strumenti di cui tanto si parla, a iniziare dalle pensioni integrative, non saranno - sommati l’uno all’altro - all’altezza delle vecchie pensioni Inps. Insomma si andrà indietro: il problema è di quanto; se cioè nel nuovo millennio non ritorni attuale per certe fasce di popolazione l’equazione vecchiaia=povertà, scongiurata sul finire del 1900.
L’affermazione è tanto più significativa in quanto il prof. Cerea è presidente di PensPlan (o Centro Pensioni Complementari Regionali), la S.p.a. incaricata di ridisegnare il nuovo sistema pensionistico regionale; strumento quindi che attenuerà (se avrà successo) questa perdita di ricchezza.
Perché tutto questo? E come sarà il nuovo sistema regionale? E che possibilità ha - realisticamente - di raggiungere i suoi obiettivi, anche alla luce delle dure polemiche che la sua nascita ha scatenato?
Queste le domande - come si vede non di poco conto - cui questo servizio cerca di rispondere.
Cominciamo dai dati. Le pensioni Inps riformate saranno una frazione - tra il 40 e il 60% - dell’ultimo stipendio percepito; vogliamo scommettere che il dato finale sarà il 40%? Dal momento che le pensioni attuali sono sull’80% dell’ultimo stipendio, si avrebbe un dimezzamento secco del reddito: per ovviarvi dovranno intervenire le "pensioni complementari", che quindi saranno importantissime.
Però, dagli stessi dati del Centro Pensioni, anche secondo gli scenari più favorevoli, questa pensione arriverà a fornire solo un ulteriore 40% dell’ultimo stipendio; e considerato che nella pensione complementare verrà inglobato il Tfr (la liquidazione), vediamo subito che si avrà, anche nei casi migliori, una perdita di reddito. "Il robusto welfare che ha caratterizzato le società europee, non ce lo possiamo più permettere" - spiega Cerea allargando le braccia.
Come mai?
Le spiegazioni sono di due ordini. Anzitutto di ordine demografico: "Da una parte l’allungamento della vita (e quindi pensioni versate per molti più anni), dall’altra le minori nascite (e quindi meno lavoratori che mantengono i pensionati) hanno minato alla base l’attuale sistema". Se la seconda parte della frase lascia molto perplessi (minori nascite non vuol dire meno lavoratori: per fortuna ci sono, e ancor più ci saranno, gli immigrati a riempire i posti liberi), sulla prima non ci piove: il welfare è minato dal suo stesso successo, fa vivere la gente più a lungo, ed ora annaspa perché non sa mantenere tanti vecchi.
Poi ci sono le spiegazioni di politica economica: "Le merci europee sul mercato globale sono poco competitive, causa le tasse troppo alte; di qui la necessità di ridurre il prelievo fiscale, e quindi la spesa sociale". Questi non sono dati oggettivi, sono scelte politiche, e su di esse si potrebbero far correre fiumi d’inchiostro; ma un dato è certo: l’Europa - quella di destra e quella di sinistra - ha imboccato questa strada e bisognerà seguirla.
A questo punto, deciso il ridimensionamento del welfare, il percorso si biforca. C’è la soluzione americana: mantenere il welfare solo per i poveri, e gli altri facciano da sé. I risultati sono noti: i servizi sociali, riservati agli emarginati, si dequalificano, e la società si spacca brutalmente in due parti ("avere e non avere" - scriveva Hemingway). Ma c’è anche la soluzione della sinistra europea: il welfare rimane per tutti, ma assicura solo un plafond di base, che ti fa sopravvivere (il 40% dell’ultima retribuzione), il resto lo paghi con i ticket, i servizi a pagamento, ecc.
Così le pensioni, che saranno composte dalla vecchia pensione Inps ridimensionata, dalla pensione complementare (fortemente incentivata da detrazioni fiscali), più magari la pensione privata (risultato di contratti individuali con assicurazioni, finanziarie, ecc).
Per non arrivare a un impoverimento della popolazione, risulta chiaro il ruolo della pensione complementare; che infatti il governo sollecita, varando sempre più robuste facilitazioni fiscali e mettendo in gioco il Tfr.
Si sono attivati anche i sindacati e le associazioni padronali, dando vita a Fondi pensione di categoria (il più seguito è quello dei metalmeccanici), in cui le contribuzioni, stabilite attraverso accordo sindacale, sono in parte a carico del lavoratore, in parte dell’impresa (che ne trae vantaggi tributari), in parte derivano da utilizzazione del Tfr.
Questo schema non è una novità: da decenni è collaudato, con successo, nei paesi anglosassoni. Dal punto di vista sociale presenta però alcuni punti deboli. Il primo, più vistoso, deriva dalla sua non obbligatorietà, che comporta la non adesione di una parte della popolazione, ovviamente la più debole (soprattutto sul piano culturale). Il giovane facilmente non pensa alla vecchiaia, magari preferisce altri investimenti (la casa, ad esempio). Risultato: in nessun paese la pensione complementare copre più della metà della popolazione. Gli esclusi ci sono, e sono tanti.
Secondo punto debole: i buchi nelle contribuzioni (periodi di mancato lavoro o di mancati versamenti) risultano pesanti, soprattutto se prodotti in gioventù, il periodo in cui le contribuzioni sono più importanti, perché hanno davanti un lungo lasso di tempo per maturare interessi. "E questi problemi risulteranno enfatizzati in Italia - commenta Cerea - dove ci troviamo ancora con una cultura previdenziale tradizionale, inadeguata alla nuova situazione".
Terzo punto debole: la pensione effettivamente erogata rischia di dipendere fortemente dal tipo di investimenti effettuati, dal periodo in cui sono effettuati, dal momento in cui viene calcolata (venendo a dipendere dalla redditività del capitale investito, per cui le pensioni calcolate dopo una flessione dei mercati finanziari saranno inferiori a quelle calcolate prima).
E’ per cercare di ovviare a questi vistosi inconvenienti che è stata varata la pensione regionale.
La legge regionale, del febbraio ’97 è complicata. Contemporaneamente è anche "una buona legge, anzi ottima" - dicono in coro tutti i nostri interlocutori, che magari poi sulle interpretazioni si sbranano. E’ soprattutto una legge molto importante: dal punto di vista sociale, perché influirà sulla vita di gran parte della popolazione; e dal punto di vista politico, perché delinea ingentissimi trasferimenti di denaro, e quindi una concentrazione di potere reale.
Vediamola questa legge, semplificando al massimo. Sostanzialmente prevede la costituzione di un Centro Pensioni che ha grosso modo tre compiti: progettare il sistema pensionistico avviando gli opportuni strumenti (specifici Fondi pensione); fornire a questi Fondi servizi e consulenze; attuare interventi per limitare quanto più possibile gli inconvenienti sociali (esclusione di parte della popolazione) che abbiamo sopra descritto.
Il Centro ha dato il via ad un progetto, schematizzato nel grafico, che prevede, per coprire l’insieme della popolazione, la costituzione di vari Fondi pensione: Laborfonds per i lavoratori dipendenti; un Fondo per lavoratori autonomi e professionisti; Plurifonds, Fondo aperto, per tutti i lavoratori che non possono aderire ai primi due (ad esempio giovani con contratti di colaborazione continua, maestri di sci, stagionali...); infine un Fondo d’investimento vero e proprio, per coprire ulteriori fasce di popolazione (come i quaratacinque-cinquantenni, che rischiano di trovarsi a cavallo fra i due sistemi, subendone solo gli effetti negativi).
Per attenuare gli inconvenienti sociali, il Centro Pensioni, una S.p.a. posseduta al 91% dalla Regione (il resto da banche locali) e dalla Regione generosamente finanziato (fino ad oggi 155 miliardi), prevede una serie di interventi: campagne informative per spingere la popolazione ad aderire; pagamento delle quote del lavoratore che, per particolari eventi (disoccupazione, malattie lunghe, contratti di formazione-lavoro) non riesce, in certi momenti, a farvi fronte; strumenti finanziari che controbilancino le oscillazioni dei mercati, riducendone al minimo l’incidenza sul risultato finale.
Questo il progetto. Che per di più ha dalla sua il fatto di costituire Fondi chiusi territoriali, "un momento di grande democrazia finanziaria" - dice Gianni Benedetti dell’Associazione Artigiani. Infatti mentre i Fondi aperti sono gestiti dalle finanziarie secondo le loro logiche, i Fondi chiusi sono promossi dai sindacati e dalle associazioni imprenditoriali (e fin qui non c’è da fare grandi salti di gioia),ma soprattutto i consigli di amministrazione non sono nominati da questi enti (ché saremmo alle solite),bensì eletti dagli aderenti, e basta un 4% degli iscritti per fare una lista.
E qui entra in gioco la territorialità: per forza di cose un Fondo di categoria nazionale sarà sempre governato da liste emanate da grandi organizzazioni; invece in un Fondo territoriale, come quelli nostri regionali, la possibilità di incidere dei singoli aderenti è reale (su 10.000 iscritti, basta mettersi insieme in 400 per costituire una lista). E in ogni caso i Fondi, proprio per la loro strutturale tendenza a privilegiare non l’investimento speculativo, ma quello a lungo termine, costituiscono un elemento fondamentale nell’economia matura, elemento di cui l’Italia è stata finora orfana, debitrice invece della finanza dei grandi vecchi e delle grandi famiglie, e dei loro accordi spartitori.
Fin qui le premesse e la teoria. E la pratica? Nella pratica il progetto del Centro è partito alla grande, grazie anche all’approvazione entusiastica dei sindacati e di alcune associazioni imprenditoriali. Si è così costituito in tempi brevi Laborfonds (vedi tabella con l’esempio di contribuzione), che dal 1° marzo ha avviato la raccolta delle adesioni, già giunte a quota 34.000.
Sul Fondo per i lavoratori autonomi invece ci si è arenati. Il motivo dello scontro è chiarissimo: "Il Centro Pensioni è un centro di potere, con nomine politiche, per ricondurre la gestione dei fondi pensione sotto l’usuale controllo politico" - afferma il direttore degli Artigiani Benedetti.
Il consiglio di amministrazione del Centro è infatti costituito da Cerea ("Non è certo una nomina tecnica, è sempre stato il cattedratico consulente del principe fin dai tempi di Malossini; sui Fondi pensione non ha scritto una riga prima di ricevere la relativa consulenza da Grandi" - rincara Benedetti), dall’ex presidente di Caribolzano Spoggler, e da Oskar Peterlini.
E Peterlini è in effetti ingombrante: personaggio di rilievo della Svp e della Regione, ha aggirato un apposito articolo di legge che vieta nomine di ex-politici a presidente del Centro, facendosi nominare amministratore delegato, con lo stesso stipendio del presidente (200 milioni annui, altro motivo di perplessità e polemiche). Però è indubbio che il padre della legge regionale da tutti osannata è proprio lui, che vi ha dedicato la sua attività di consigliere nella scorsa legislatura; che poi l’abbia fatto per crearsi un futuro, avendo raggiunto il limite delle tre legislature, è a questo punto un discorso secondario.
Ulteriori fatti: il varo di Plurifonds, Fondo aperto realizzato in collaborazione con Itas Assicurazioni (di cui Peterlini è consigliere d’amministrazione); le aperte critiche di Peterlini e Cerea alle proposte degli Artigiani sul Fondo dei Lavoratori autonomi ("Ci sabotano per fare spazio a Plurifonds" - afferma Benedetti) hanno avvelenato la disputa. "Il Centro doveva fornire servizi e consulenze, ma si sta trasformando, al di fuori delle norme di legge, in una finanziaria pubblica che vuole controllare le migliaia di miliardi dei Fondi degli associati" - conclude Benedetti.
Il punto vero è il ruolo del Centro Pensioni: in un sistema che a regime gestirà una torta immensa, almeno 10.000 miliardi. Che il Centro si dia da fare per allargare il proprio ruolo, è normale: "Su alcuni punti francamente non vedo la sostanza delle obiezioni - risponde la presidente della Regione Margherita Cogo, di cui è stato invocato un intervento come azionista di maggioranza - Che una società investa nel comperarsi una sede invece di andare in affitto è cosa logica; come che si sia dotata di una struttura informatica per gestire al meglio la parte burocratica dei Fondi".
E qui ci avviciniamo al cuore del problema. Che il Centro fornisca ai Fondi dei servizi va bene, finché questi sono competitivi: in altre parole, sta ai Fondi e ai loro c.d.a. eletti dagli aderenti, decidere da chi acquisire servizi, mettendo il Centro in competizione con altre società.
Su questo Cerea è tranquillo: "Per via dei problemi del bilinguismo, i nostri servizi sono imbattibili; e poi abbiamo creato software così competitivi, che anche altri, come la Val d’Aosta, o l’Itas, sono venuti a chiederceli."
Il problema è appunto l’autonomia dei Fondi. Ma non tanto sui servizi, che in definitiva rappresenteranno una piccola fetta della grande torta; bensì sulla scelta dei "gestori", cioè di chi, concretamente, gestirà i soldi, sia investitori sul mercato mondiale, sia organismi locali come le nostre banche, che giustamente già si candidano a gestire una fetta di denaro nell’economia regionale.
Cerea ha le idee chiare sull’autonomia dei Fondi: "E’ come se un’associazione volesse fare un concorso fra i suoi soci a chi fa il dolce più buono: ognuno si fa il dolce che vuole e come vuole, ma gli ingredienti di base si comperano insieme, risparmiando. Fuor di metafora, il Centro fornirà le metodologie affinché i Fondi, in piena autonomia, possano accedere ai gestori più qualificati presenti sul mercato. Noi faremo a Laborfonds la proposta di indire una gara su scala mondiale fra circa 500-600 gestori da noi selezionati, e forniremo le metodologie di giudizio; poi spetterà al Fondo decidere quale tipo di gestori scegliere (azionario, obbligazionario, area Pacifico...), e quale singolo gestore."
Su come interpretare questo ruolo di coordinamento del Centro, immaginiamo che si discuterà parecchio; anche perché questo sistema previdenziale regionale non è ben visto in alto loco. Non è ben visto a Roma, dove hanno vistato obtorto collo la legge, che crea un precedente che potrebbe minare i fondi nazionali di categoria, sollecitando la nascita di nuovi fondi territoriali.
E non è ben visto - ci dicono - nemmeno a Bruxelles, dove sembra non capiscano come mai le politiche sociali di una regione siano appaltate a una S.p.a. (tale infatti è il Centro) che opera senza concorrenza. Insomma l’impianto della legge regionale sulla previdenza, pur osannato da tutti, nella pratica si muove in un terreno molto difficile.
Eppure i presupposti - creare un sistema pensionistico adeguato ai nuovi tempi, ma che ancora risponda ai criteri di equità sociale - sembrano tuttora sacrosanti.
Speriamo davvero che l’impatto dei giusti principi con dei ciclopici interessi non mandi tutto a monte.