Patt e Ds: partiti nella bufera
I lunghi mesi di trattative hanno segnato autonomisti e diessini. Da una parte Andreotti, dopo la sconfitta elettorale ottiene la rivincita al tavolo delle trattative, e poi butta tutto alle ortiche. Dall’altra i Democratici di Sinistra, aspramente divisi su Dellai (leader o alleato?); e quindi su se stessi. In effetti i due partiti...
E' difficile capire il Partito Autonomista; "inaffidabile" è l’epiteto che si è unanimemente meritato in questo penoso avvio di legislatura, pesantemente segnato proprio dalle strabilianti oscillazioni degli autonomisti. Cerchiamo di vedere le cose più da vicino.
All’inizio di febbraio, dopo oltre due mesi di tira-molla, Carlo Andreotti, nelle vesti di presidente del Patt, sembrava aver raggiunto, anzi aveva di fatto raggiunta una serie di risultati straordinari: da una parte aveva logorata l’immage dell’invincibile-inarrestabile Lorenzo Dellai, da lui cordialmente detestato; dall’altra aveva ridato un’insperata centralità al proprio partito, sebbene uscito bastonato dalle elezioni e umiliato dalla vicenda Tretter. Il che gli aveva fatto ottenere nelle trattative con il centro-sinistra ben quattro poltrone per i tre consiglieri pattini, un massimo storico (due assessorati provinciali, per Pallaoro e Panizza; un assessorato regionale, ancora per Panizza; la presidenza della Giunta Regionale, per sè).
Ottimo: prendi e porta a casa. Invece no: all’incontro finale, in cui si deve sottoscrivere il tutto, Carlo Andreotti si presenta con i due guastatori Kaswalder e Franzinelli, che alzano ancora il prezzo e rimettono tutto in discussione. E a questo punto, come era ovvio, il centro-sinistra decide che la misura è colma: apre a Casagranda trovando così il diciottesimo voto per avere la maggioranza, rende gli autonomisti non più indispensabili e brutalmente li rimette in castigo, dietro la lavagna.
Come mai il Patt, Andreotti, si sono lasciati sfuggire così la situazione?
La risposta secondo noi va ricercata a due livelli. Il primo livello è dato dagli uomini, o meglio dal presidente autonomista Carlo Andreotti. Felicemente definito "sughero" (dal direttore de L’Adige Ghezzi) per la sua propensione a galleggiare sugli avvenimenti, spensieratamente portato in giro da tutti i moti ondosi, non è in realtà uno stupido. E quindi non poteva non sapere dei rischi che correva a strascinare all’infinito la situazione. "Il fatto è che ‘sughero’ un suo progetto, o forse meglio, un suo sogno, ce l’aveva - ci dice un dirigente autonomista, allargando sconsolato le braccia - restare il numero uno, non lasciare la poltrona di presidente della Pat a Dellai. Ma per ottenerlo doveva logorare all’infinito Dellai, rompere la Margherita, e traghettarne qualche transfuga in un’alleanza con il centro-destra, con il quale sottobanco continuava a trattare. Un pasticcio insomma, e irrealizzabile. E per inseguire questo suo disegno ha rimesso il partito in un angolo."
Il fatto è che il partito, a mettersi in un angolo, ci pensa da solo. E qui siamo al secondo livello, il Patt stesso. In cui è in qualche modo presente un convitato di pietra, al secolo Franco Tretter. L’uomo è in gravi difficoltà, e come sempre in questi casi fa il morto: a Tuenno non esce di casa, in paese non lo si vede più, e fa circolare la voce di volersi dimettere; peraltro per l’ennesima volta nella sua vita, ma questa volta con robustissime ragioni. Solo che anche questa volta le dimissioni finiranno in manfrina: ve lo immaginate l’uomo degli orologi rinunciare alla ricca indennità di consigliere, ai fondi consiliari ecc. (un miliardo netto in cinque anni di legislatura)? Anche nella vita politica è molto soft: si fa vedere in giro, nelle riunioni, ma con discrezione. Non sappiamo quanto conti ancora, quanto riesca a influire nel partito. Di sicuro - ahimè - ha fatto scuola, in tanti cercano di imitarlo. "E’ come uno di quei capo-comici, mediocri, volgarucci, ma che sanno raccontare le barzellette - ci dicono al Patt - però i suoi allievi, nell’imitarlo sbagliano i tempi, i toni, e fanno pena." E difatti in tanti, dal discepolo Panizza fino ad Andreotti, cercano di praticare la politica alla Tretter, come intorto da spregiudicato affarista noneso: dilazionano, si impuntano, imbrogliucciano di qua e di là, dichiarano ai giornali l’esatto contrario di quel che faranno il giorno dopo; ma in questo triste gioco non hanno il fiuto del vecchio marpione, ed offrono solo uno spettacolo indecoroso.
La cosa ha effetti disastrosi nei rapporti con i partner; ma soprattutto in quelli con la base. Il mitico zoccolo-duro del Patt infatti, è formato da gente che ai valori di lealtà, di affidabilità, ci crede davvero; ed ha già subito la mazzata di vedersi il mitico Tretter trasformato in ladrone da strada, ora mal sopporta l’ulteriore spettacolo dei suoi consiglieri pubblicamente svillaneggiati sulla e dalla stampa per l’indegna incoscienza con cui giocano allo sfascio delle istituzioni.
A tutto questo, da tempo cerca di offrire una deriva la corrente degli amministratori, i vari sindaci e vicesindaci che ritengono che il Patt possa avere un ruolo gestendo con correttezza le amministrazioni, coniugando tradizioni di valle e - entro certi limiti - spinta alla modernità. Il fatto è che il naturale leader della pur robusta corrente, Andreotti, si è dimostrato inconsistente; ed ora si cerca di costruire una nuova leaderdship in Pallaoro, l’assessore all’agricoltura che difatti, in tutti questi mesi si è coerentemente sempre espresso per un franco accordo con il centro-sinistra. Pallaoro però finora è stato solo un tecnico; il salto a leader politico non è automatico.
E in questo momento il Patt è una barca senza nocchiero.
Su un altro fronte, lo svolgersi delle trattative di giunta ha evidenziato una profonda crisi interna anche nei Democratici di sinistra. Per quanto il segretario Albergoni si affanni a minimizzare (vedi anche una sua lettera a pag. 8) i fatti sono fatti: i giornali hanno in questi giorni ospitato virulenti attacchi di diessini contro altri diessini (il capogruppo al Comune di Trento Redolfi che invita l’on. Olivieri a "non impicciarsi" della crisi provinciale; l’on. Schmid che rampogna il cristiano-sociale Tonini, portavoce di Veltroni, per essere anti-Dellai; il consigliere provinciale Andreolli che spara a zero contro i suoi colleghi "radical-chic" che privilegiano le riforme istituzionali...); i commenti privati sono ancor più duri e talora sprezzanti; l’ultima direzione del partito è stata caratterizzata da scontri così violenti, da una generale atmosfera di invivibilità "che in molti hanno iniziato a chiedersi se avesse senso partecipare a riunioni del genere" ci dice preoccupato un dirigente diessino.
Il nodo del contendere è l’Ulivo, o meglio Dellai: cosa vuol dire far parte di una coalizione, come ci si comporta con gli alleati?
Da una parte ci sono i sostenitori ad oltranza dello "spirito della coalizione" (il segretario Albergoni e la segreteria, il sindaco Pacher e il gruppo comunale di Trento, e - con posizioni più sfumate - il consigliere Roberto Pinter con Solidarietà e infine l’on. Schmid): il partito andrà al governo solo perchè c’è la coalizione e c’è Dellai, è doveroso non creare problemi, meno che meno per una seggiola in più o in meno, i Ds vinceranno (o perderanno) solo se vincerà (o perderà) la coalizione.
Dall’altra ci sono i sostenitori dell’"identità di sinistra" (il presidente Bondi, la consigliera Wanda Chiodi, Giorgio Tonini e i cristiano-sociali, l’ex-segretario Rino Sbop, Walter Micheli, e ora anche la consigliera Cogo e l’on. Olivieri): essere in una coalizione non significa rinunciare all’identità delle varie componenti, con la Margherita ci sono differenze di programma e di cultura politica molto vistose, minimizzarle da una parte, e inchinarsi al leader Dellai dall’altra, significa azzerare se stessi, proclamare la propria inutilità.
Differenze non da poco, come si vede. Accentuate dal fatto che a condurre le trattative siano stati i coalizionisti Albergoni e Pinter (in teoria assieme a Bondi e Cogo, ma questi ultimi non sempre sono stati informati degli appuntamenti - il clima nel partito è quello che è - e in ogni caso c’era imbarazzo a presentarsi a trattare con posizioni evidentemente divergenti). I risultati sono noti: i diessini, disposti ad accettare tutto "per spirito di coalizione" sono stati messi in un angolo dagli stessi alleati, non altrettanto remissivi; al punto da divenire oggetto di battutacce e barzellette fra gli addetti ai lavori, che tanta inusitata disponibilità la chiamavano dabbenaggine.
Poi, per fortuna ci pensava il Patt: tirava troppo la corda fino a romperla, si liberavano i posti a lui destinati, e i Ds avevano una rappresentanza al governo decentemente qualificata. Contemporaneamente gli irrigidimenti di una parte del partito portava a un miglioramento del programma di giunta, che in alcuni punti (finalmente si parla di "chiusura dei comprensori" ad esempio) portava a sciogliere ambiguità pericolose.
Però i problemi rimangono, grossi come un macigni: cosa significhi essere parte di una coalizione al governo; come si sostengono le proprie proposte programmatiche; quanto ci si crede. In definitiva, quanto si crede in se stessi. Quando a livello nazionale il diessino Cesare Salvi ammette "Prodi sbaglia, ma noi Ds abbiamo un problema di identità", suona una sirena d’allarme.
E lo stesso vale a livello locale: "L’altro aspetto del problema subalternità è quello del progetto culturale: se ce l’abbiamo o meno" conviene l’on. Schmid. Su questo sono in molti a concordare; e anche a lavorare per porvi rimedio (vedi ad esempio il convegno di Società Aperta, di cui parliamo a pag.33). Il progetto Ds, di mettere insieme varie anime della sinistra, è diventato a rischio non appena ha dovuto confrontarsi con le rudezze della tattica politica; probabilmente perchè non aveva basi solide. Ora dovrà riacquistarle, prima che sia troppo tardi.