Sinistra: alleati o vassalli?
Quando nel parlamentino del Patt il rendenese Valentino Maffei, nel tentativo di ribaltare una maggioranza ormai delineata, chiedeva di votare a scrutinio segreto sull’ingresso in giunta, tutti si guardarono allibiti: da quando non si usa il voto palese, assumendosi la paternità delle decisioni, su questioni di indirizzo politico? E invece il candido Andreotti che presiedeva l’assemblea, inopinatamente appoggiò la richiesta: per mimetizzarsi lui nel segreto dell’urna, non assumersi responsabilità e poter, come sempre, galleggiare. E così in apertura di serata: quando presentava l’accordo di Bolzano da lui sottoscritto con la Svp (con cui aderiva alla nuova versione della Regione e apriva al centro-sinistra trentino) ne parlava come di una cosa personale, che se volevano si poteva ridiscutere, e lui era pronto a tornare indietro e a sposare, come sempre, le ragioni degli altri. Il solito sughero insomma, pronto a galleggiare in tutte le acque. Alla fine vinceva la linea favorevole al centro-sinistra, ma perchè sostenuta dal Patt degli amministratori. E così sughero Andreotti, che fino a un minuto prima era disponibile - se nel suo partito vincevano gli altri - a galleggiare verso il centro-destra, si è avviato a diventare presidente della giunta regionale di centro-sinistra.
Come mai? Come mai una personalità così fioca, leader (si fa per dire) di un partito in rotta, è diventato così centrale, imprescindibile? E come mai, lui che delle riforme non gliene frega niente, ha soffiato la sedia che conta ai riformisti veri, i diessini, che in consiglio sono di più, che hanno i massimi agganci a Roma, e che sono della coalizione vincente?
La questione è illuminante; perchè rivela la cruda realtà sul prossimo governo provinciale. E la risposta è duplice: si chiama da una parte Lorenzo Dellai; e dall’altra l’attuale gruppo dirigente diessino.
Dunque Dellai. Sin dalla definizione della sua lista (ricordate l’esclusione di Azzolini?) Dellai ha agito secondo un principio base: assurgere a perno centrale, incostrastato, dell’alleanza, eliminare chi gli potrebbe fare ombra, avere a fianco non alleati forti, ma una galassia di satelliti. Di qui l’insistenza - altrimenti del tutto incomprensibile - a fare l’accordo di giunta con il Patt e solo con il Patt, nonostante tutte le note vicende dell’orologio, gli ondeggiamenti di Andreotti ecc: perchè il Patt, per la sua storia, per le sue posizioni su riforme e ambiente, può essere giocato come naturale contrappeso alla sinistra e ai Ds. Da una parte il Patt e dall’altra i Ds; in mezzo lui, super-Dellai, che media. Naturalmente pro Patt: perchè gli autonomisti sono deboli; perchè Andreotti alla Regione non farà niente, sarà nullo, mentre un diessino - in raccordo con Roma - costituirebbe un polo politico vero.
E dalla tendenza dellaiana alla miniaturizzazione degli alleati scende la valorizzazione dei partitini: il referente romano della nuova Regione non sarà l’on. Olivieri, diessino rampante, ma Marco Boato, verde dall’oscillante collocazione. E ancora, il Re Sole non vuole ministri forti: anche di qui - oltre che dagli appetiti - i tanti assessori, le competenze spezzettate; a coordinare e fare sintesi ci penserà il Presidente.
Tutto questo è una delusione anche per chi, come noi, non è mai stato tra i fan dell’ex-sindaco: con queste premesse è difficile pensare che ci possano essere progetti complessivi, un’azione di governo all’altezza della situazione. Dellai, apprendista stregone, sul lungo periodo rischia di finire travolto dalla mediocrità da lui stesso evocata ed allevata.
Appare chiaro che in questo quadro chi esce del tutto ridimensionata è la sinistra, e principalmente i Ds. E meritatamente. Fin dalla campagna elettorale, è apparsa chiara la dinamica in atto nel partito: una sindrome di minorità, l’intima convinzione di essere inadeguati, di doversi appoggiare a un qualche Grande Fratello ex-Dc. Ed ecco le masochiste dichiarazioni elettorali di sudditanza a Dellai, riconosciuto come "nostro leader"; logicamente il risultato delle urne è stato conseguente; e le trattative per la giunta sono state in pratica delegate all’amico Lorenzo. Quando all’inizio di esse gli altri partiti della sinistra proponevano ai Ds di formare un blocco unico, 8 consiglieri di sinistra da confrontarsi con gli 8 della Margherita, la dirigenza diessina rifiutava con sdegno, sarebbe stato "tradire Lorenzo". I risultati si sono visti: la sinistra frantumata a rincorrere ciascuno il proprio pezzetto di potere, in concorrenza gli uni con gli altri; il progetto riformatore d’insieme, del tutto arenato; gli assessorati significativi su cui si era voluto puntare, fortemente ridotti nelle competenze e quindi di scarsa incidenza complessiva (Urbanistica senza Ambiente e Parchi; Istruzione senza Università, Cultura e Ricerca).
Il fatto vero è che tra la sinistra e la Margherita ci sono fortissime differenze d’impostazione programmatiche, di cultura politica. Ma la dirigenza diessina le ha rimosse, nella sua masochista corsa alla subalternità. "Il fatto è che la sinistra ha perso l’autostima" ci dice sconsolato una personalità diessina.
Diagnosi amarissima; ma probabilmente vera. I riformisti l’autostima hanno iniziato a perderla quando, non tanto tempo fa, hanno cominciato a dirsi che "la gente è stufa delle riforme, con le riforme non si vincono le elezioni".
I riformisti senza riforme non hanno ragione di esistere.