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QT n. 20, 21 novembre 1998 Cover story

Scuole cattoliche: la teoria e la pratica

Riparte il dibattito sui finanziamenti alla scuola privata. Ma che senso hanno oggi, in Italia e in Trentino, le scuole confessionali?

Anche in Trentino, come nel resto d'Italia, si è levata forte la pressione per la parità scolastica, ossia per soldi alle scuole non statali. Le motivazioni di fondo sono importanti e discriminanti, se cioè debba prevalere la libertà della famiglia di inviare il figlio nella scuola che gli pare, a spese di tutti; oppure se debba prevalere l'educazione laica, in un'istituzione pluralista che garantisca il confronto. Ma qui le lasciamo sullo sfondo, e preferiamo affrontarle nel dibattito con gli studenti che pubblichiamo nelle prossime pagine.

Qui invece affrontiamo l'argomento da un altro punto di vista: oltre l'ideologia, le esaltazioni e i timori, qual è la realtà delle scuole cattoliche trentine? Che ruolo hanno svolto e quale funzione hanno oggi?

Non possiamo infatti dimenticare il grande parlare a vuoto che si ebbe ai tempi del dibattito sull'ora di religione nella scuola pubblica: un dibattito su una realtà virtuale; dal momento che nei fatti l'ora di religione è per lo più occasione di relax e/o gazzarra, talvolta ora di discussione su temi vari, e solo nei pochissimi casi di insegnanti particolarmente carismatici, diventa ora in cui si tratta veramente di religione. Quindi, torniamo a noi: cosa sono nella realtà le scuole cattoliche, e quali prospettive hanno?

Si può tranquillamente affermare che il collegio arcivescovile, nel bene e nel male, sia stata una delle istituzioni fondanti del Trentino. Operante già nel secolo scorso, si caratterizza, rispetto alle altre scuole cattoliche di Trento e alla maggioranza di quelle italiane, per essere gestito non da congregazioni religiose (come i Salesiani, o le Figlie del Sacro Cuore), ma dal clero diocesano. Non è una distinzione da poco: vuoi dire che il personale, e soprattutto i dirigenti, sono trentini, fortemente legati al territorio, alla società, attraverso il pervasivo sistema delle parrocchie. Ne è risultata una scuola ancorata alla realtà locale, soprattutto delle valli, che alla borghesia rurale (anche a quella laica) forniva, attraverso il convitto, l'unica possibilità di prosecuzione degli studi.

Forse è stata questa caratterizzazione valligiana a provocare due ulteriori conseguenze. Da una parte la freddezza della borghesia urbana, anche quella rigorosamente cattolica (perfino i Piccoli mandarono i figli a studiare al Prati, per di più scegliendo la laicissima sezione A). Dall'altra, un insegnamento cattolico non solo stringente e cogente, ma rigidamente conservatore: dopo Giovanni XXIII e il Vaticano II, nello scontro tra conciliari e anticonciliari, l'Arcivescovile fu compatta per i secondi.

Era una scuola che doveva formare professionisti molto bravi, e molto cattolici: "Deve essere il seminario dei 'nostri' laici", una frase che oggi fa rabbrividire, ma che allora, espressa dal vicario generale mons. Bortolameotti, esprimeva bene le capacità e le intenzioni egemoniche di buona parte del clero.

Per raggiungere lo scopo, si poteva contare su insegnanti conservatori, dalla forte personalità, molto capaci anche dal punto di vista didattico: don Dallabrida, don Gentilini, don Bolognani, don Magagna.

E su un controllo sociale stringente, realizzato assieme alle famiglie: degli studenti venivano controllate amicizie, frequentazioni, weekend.

Gli esiti non erano propriamente conseguenti. Ce lo illustra un eccezionale documento, un'indagine sull'Arcivescovile realizzata nel '69 da un gruppo di studenti della Gioventù Studentesca (associazione cattolica allora ispirata a don Milani). Attraverso una lunga serie di interviste e questionari (a studenti ed ex studenti, al direttore, ma anche a fedeli all'uscita da messa e perfino ad operai ai cancelli di fabbrica) emerge l'arretratezza di un'impostazione ormai troppo chiusa e autoritaria. Gli effetti, soprattutto sul piano religioso, sono assolutamente controproducenti: due terzi degli studenti intervistati dichiarano che proprio le caratteristiche della scuola stanno ostacolando la loro esperienza religiosa, spingendoli verso l'anticlericalismo o addirittura verso l'ateismo.

Altrettanto impietoso l'argomentato giudizio di due ex alunni: la scuola insegna a studiare duramente, ma soprattutto per poi emergere nella società ( "Voi sarete i dominatori della vita" era il non molto cristiano slogan del direttore nel discorso inaugurale); l'insegnamento immobilista ("Tutto è già stato scoperto") è orientato alla più assoluta conservazione; il ragionamento critico e gli interessi autonomi - circoli, gruppi, giornali - vengono scoraggiati; la vita scolastica improntata al rispetto delle gerarchie.

Con una siffatta impostazione, gli approdi naturali sul piano sociale sono il conformismo e l'arrivismo; e a questo punto, per la borghesia rurale, avere un figlio magari mangiapreti, ma conservatore, va benissimo.

Con gli anni '70 questa impostazione entra in crisi: lo stesso documento dei giovani della Gs - realizzato anche da studenti interni - ne è un evidente sintomo; e alcuni anni dopo si ha la prima "fuga" ufficiale: un gruppo di 8 studenti si trasferisce dall'Arcivescovile al liceo Prati, manifestando pubblicamente un aperto, collettivo rifiuto di una scuola troppo clericale e autoritaria.

La secolarizzazione della società trentina ormai avanza, e in breve rende improponibili i vecchi armamentari ideologici. La progressiva apertura di scuole superiori in ogni valle riduce drammaticamente il bacino d'utenza. La crisi verticale delle vocazioni priva la scuola di personale fidato e dai costi irrisori. Per l'istituzione la sopravvivenza è a rischio, il rinnovamento diventa obbligato.

Il primo passo è l'apertura alle ragazze, provvedimento vissuto come dramma da una parte del clero, ma che raddoppia i potenziali studenti. Poi, progressivamente, si annacquano le caratteristiche clericali prima, cattoliche poi, puntando su una scuola dagli studi seri, e su un ambiente tranquillo e protetto. Negli anni '80, quando la scuola pubblica è scossa da scioperi ed assemblee, e la droga circola tra i giovani, per un genitore è tranquillizzante sapere che il proprio figlio è al sicuro, e che se vuole uscire da scuola, una robusta cancellata glielo impedisce.

Il pendant femminile dell'Arcivescovile è l'istituto del Sacro Cuore. Nasce nel lontano 1831 a Rovereto, come scuola professionale femminile, per fornire istruzione e professionalità alle giovani operaie dei setifici. Un ruolo illuminato quindi, e meritorio. Che in seguito, a Trento, cambia obiettivo: si realizza un percorso completo, dalla scuola d'infanzia alle superiori (istituto magistrale). Negli anni '50 e '60 registra un boom delle iscrizioni, diventando la scuola delle ragazze di valle, che trovano alloggio in collegio; e che poi, a ciclo concluso, possono anche trovare impiego nell'insegnamento presso le scuole interne d'infanzia e elementari, mentre le superiori rimangono affidate alle Figlie del Sacro Cuore. Poi, anche qui la secolarizzazione, con il venir meno delle motivazioni ideologiche religiose e la carenza di suore. E poi l'apertura degli istituti magistrali pubblici nelle valli: scendere a Trento per far studiare dalle suore non ha più senso.

L'istituto risponde con un grande sforzo di ammodernamento: nelle strutture, nelle attrezzature scolastiche, nei programmi. Fin nel logo si qualifica come "la scuola in centro " essendo (grazie anche alla politica del Comune di Trento) l'unica scuola del centro storico del capoluogo, e punta a fornire, nella scuola d'infanzia e dell'obbligo, un servizio completo, con competente e prolungata custodia dei bimbi. Alle superiori invece si punta sull'aggiornamento didattico: da una parte una ragioneria con indirizzo linguistico; dall'altra un liceo sociale e della comunicazione, cioè un'evoluzione sperimentale delle magistrali. Però permangono vari problemi (a iniziare dalla caratterizzazione femminile; oggi la scuola è aperta anche ai ragazzi, ma la cosa non funziona, è difficile che un maschietto voglia andare "a studiare dalle suore") e le iscrizioni sono decisamente basse: 148 studenti nei due istituti superiori.

Di fatto, le scuole cattoliche, pur in questa grande e obbligata spinta rinnovatrice, si trovano di fronte a problemi di fondo. A cominciare dalla definizione di sé, di cosa vuol dire, oggi, essere scuola cattolica. "Vuol dire mettere i ragazzi in condizione di porsi domande su se stessi, sul destino dell'uomo alla luce di una visione cristiana della vita " ci risponde suor Eugenia Liberatore, preside del Sacro Cuore. "Vogliamo porre i ragazzi di fronte ai valori cristiani della vita, e rivisitarli alla luce delle nuove esigenze dell'attuale società" afferma don Umberto Giacometti, direttore dell'Arcivescovile.

Non è una strada larga, né ben delineata. Nella realtà si cerca di praticarla attraverso un'oculata scelta dei temi, dei testi, degli approfondimenti. E soprattutto degli insegnanti. Ma con la fine delle vocazioni il personale religioso è a malapena il 10% del totale, e il reclutamento di insegnanti laici, però allineati, non è facile. Basti un dato: al Sacro Cuore le elezioni per il Consiglio Scolastico provinciale sono state vinte dalla Cgil, che non è propriamente un sindacato cattolico. "Se uno vuole imporsi, riesce a tutelare la propria libertà di insegnamento in classe - ci dice Elisabetta Valentini, già insegnante al Sacro Cuore - altrimenti l'istituzione tende a un 'impostazione più tradizionalmente cattolica. Impostazione che permane nelle attività collaterali - dibattiti, interventi di esterni, gite scolastiche - su cui la presidenza mantiene un controllo più stretto." Il problema insegnanti non è solo ideologico: c'è anche quello di garantire un buon livello professionale e una certa continuità didattica. Si selezionano quindi, all'interno dei laureati disponibili, quelli che hanno maggiori titoli e dei curriculum significativi: si hanno quindi insegnanti di buon livello, che però, proprio per questo, sono facilmente attratti da posti più remunerativi. a partire dalla scuola pubblica, ma anche dalla Provincia, dai privati o dal mondo delle professioni. Ne sortiscono gravi problemi di continuità didattica.

A questi inconvenienti solo l'Arcivescovile ha posto rimedio, sia pur parziale: grazie a un contratto giudicato il più avanzato tra le scuole cattoliche italiane, offre stipendi di pochissimo inferiori a quelli statali, e così ha creato un nucleo storico di insegnanti garantiti e gratificati, che danno il la alla scuola, e attorno ai quali finisce per ruotare la nebulosa dei precari.

Anche grazie a questa parziale stabilizzazione, il liceo Arcivescovile è riuscito ad invertire il flusso degli studenti con il concorrente liceo statale Prati: oggi sono gli studenti del Prati ad emigrare verso il liceo cattolico, sia perché questo è più facile, sia perché - il mondo ogni tanto si capovolge - è meno autoritario (al Prati la preside De Finis ha imposto per anni una linea asburgica: grande severità e contenuti obsoleti).

Ma non si può certo contare su tali contingenze - una preside giurassica nell'istituto concorrente - per giustificare un'istituzione. Il "progetto educativo" delle scuole cattoliche non sembra avere specificità. "In pratica ci si riduce ad essere più dinamici delle scuole statali - ci dice Giuseppe Ferrandi, anch'egli per alcuni anni docente al Sacro Cuore - ossia a reagire con tempi più brevi alle nuove esigenze delle famiglie o del mercato per esempio, nell'introduzione dell'informatica scontando magari il rischio di seguire le mode e di creare contenitori vuoti, indirizzi che poi non vengono frequentati."

In realtà una caratteristica queste scuole la hanno, e ad essa sono aggrappate: quella di costituire un ambiente protetto, sterilizzato da alcune brutture della società; e in stretto, costante rapporto con le famiglie. E questa centralità della famiglia, oltre ad essere contestata dagli studenti come d'altronde è logico (vedi articolo successivo) viene messa in discussione dagli insegnanti. Soprattutto quando il genitore, in base all'arrogante assunto "io pago", pretende che la scuola prosegua pari pari il suo modello educativo: sia in senso repressivo ( "stangatela, quella disgraziata, fatele passare i grilli dalla testa") sia, più spesso, in senso lassista ( "se mi bocciate il ragazzo, lo porto via"). "Quando in questi casi sorgono conflitti tra i docenti e la famiglia, l'istituzione finisce con lo schierarsi sempre con quest'ultima " ci dicono gli insegnanti.

"No, noi esercitiamo una funzione di mediazione" ci risponde don Giacometti "E in quanto al genitore che dice 'io pago'... beh, nessuno con me ha avuto il coraggio di farlo, anche perché obiettivamente pagano poco, 2.350.000 lire, una parte secondaria dei costi."

"Lei scherza: la sua è una domanda frutto di una cultura ottocentesca, antiquata, che mi indigna - scatta invece suor Liberatore - Il preside prende sempre atto di quello che dicono i professori! " Non serve obiettare che anche nella scuola statale ci sono, ahimè, promozioni motivate da esigenze di non perdere classi e posti di lavoro... "Il suo è un pessimo giornalismo!" Pazienza.

L'altro aspetto, dicevamo, è l'ambiente protetto. Chi scrive frequentò i primi anni delle elementari in una scuola laica, ma privata, assieme ad altri bambini per bene, figli della borghesia illuminata: e quando poi approdai alla scuola pubblica, vestito per benino, con i miei quadernucci a posto, fui subito preso di mira da un ragazzaccio delle Androne (allora slum della città) con il fratello maggiore in galera e quello di mezzo pugile: che mi diede il benvenuto con quattro ceffoni e fracassandomi l'astuccio delle matite colorate. Solo anni dopo avrei capito il perché.

"L'ambiente protetto... è un luogo comune - ci dice don Giacometti - Anche noi abbiamo ragazzi difficili, i nostri studenti respirano gli stessi problemi degli altri. E se abbiamo pochi handicappati, è perché non godiamo dei sussidi ad hoc delle scuole statali: ne vorremmo avere di più, è nella nostra cultura farci carico di tali situazioni."

Sì, forse di handicappati potrebbero ospitarne di più. Ma i ragazzi difficili, gli zingari, gli emarginati?

Tutti gli insegnanti e gli ex studenti che abbiamo sentito parlano della loro scuola, Arcivescovile, Sacro Cuore, Salesiani, come di "un ambiente particolare, sereno, dove si sta bene ". E così i genitori, per i quali, specie nei primi anni scolastici, la scuola tranquilla può costituire un utile rifugio, se il figlio risente troppo di alcune rudezze dei coetanei della scuola pubblica. Questa è la sola vera, attuale specificità della scuola cattolica; ed è difficile pensare che venga messa a repentaglio per dare spazio ai derelitti.

"Ma non è giusto - obietta Elisa Belle, studentessa del Prati - Non è giusto creare le scuole perbene e quelle per gli emarginati. A questo, in fin dei conti, conducono questi discorsi sulla parità scolastica. E, mi si permetta, non è molto cristiano."